Legione

Intanto giunsero all’altra riva del mare, nella regione dei Gerasèni. Come scese dalla barca, gli venne incontro dai sepolcri un uomo posseduto da uno spirito immondo. Egli aveva la sua dimora nei sepolcri e nessuno più riusciva a tenerlo legato neanche con catene, perché più volte era stato legato con ceppi e catene, ma aveva sempre spezzato le catene e infranto i ceppi, e nessuno più riusciva a domarlo. Continuamente, notte e giorno, tra i sepolcri e sui monti, gridava e si percuoteva con pietre. Visto Gesù da lontano, accorse, gli si gettò ai piedi, e urlando a gran voce disse: “Che hai tu in comune con me, Gesù, Figlio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!”. Gli diceva infatti: “Esci, spirito immondo, da quest’uomo!”. E gli domandò: “Come ti chiami?”. “Mi chiamo Legione, gli rispose, perché siamo in molti”. E prese a scongiurarlo con insistenza perché non lo cacciasse fuori da quella regione. Ora c’era là, sul monte, un numeroso branco di porci al pascolo. E gli spiriti lo scongiurarono: “Mandaci da quei porci, perché entriamo in essi”. Glielo permise. E gli spiriti immondi uscirono ed entrarono nei porci e il branco si precipitò dal burrone nel mare; erano circa duemila e affogarono uno dopo l’altro nel mare. I mandriani allora fuggirono, portarono la notizia in città e nella campagna e la gente si mosse a vedere che cosa fosse accaduto. Giunti che furono da Gesù, videro l’indemoniato seduto, vestito e sano di mente, lui che era stato posseduto dalla Legione, ed ebbero paura. Quelli che avevano visto tutto, spiegarono loro che cosa era accaduto all’indemoniato e il fatto dei porci. Ed essi si misero a pregarlo di andarsene dal loro territorio. [Vangelo di Marco, V, 1-17]

The killer lives inside me: yes, I can feel him move.
Sometimes he’s lightly sleeping in the quiet of his room
but then his eyes
will rise and stare through mine;
he’ll speak my words and slice my mind inside…
Yes the killer lives.

The angels live inside me: I can feel them smile.
Their presence strokes and soothes the tempest in my mind;
And their love
can heal the wounds that I have wrought,
They watch me as I go to fall – well, I know I shall be caught
While the angels live.

How can I be free?
How can I get help?
Am I really me?
Am I someone else?

But stalking in my cloisters hang the acolytes of gloom
and Death’s Head throws his cloak into the corner of my room
and I am doomed
But laughing in my courtyard play the pranksters of my youth
and solemn, waiting old man in the gables of the roof –
he tells me truth…

I, too, live inside me and very often don’t know who I am;
I know I’m not a hero – well, I hope that I’m not damned.
I’m just a man
and killers, angels, all are these:
Dictators, saviours, refugees in war and peace
as long as man lives…

I’m just a man
and killers, angels, all are these:
Dictators,
Saviours,
Refugees.

Il demone della perversità

[…]

We stand upon the brink of a precipice.  We peer into the abyss – we grow sick and dizzy.  Our first impulse is to shrink from the danger.  Unaccountably we remain.  By slow degrees our sickness, and dizziness, and horror, become merged in a cloud of unnameable feeling.  By gradations, still more imperceptible, this cloud assumes shape, as did the vapor from the bottle out of which arose the genius in the Arabian Nights.  But out of this our cloud upon the precipice’s edge, there grows into palpability, a shape, far more terrible than any genius, or any demon of a tale, and yet it is but a thought, although a fearful one, and one which chills the very marrow of our bones with the fierceness of the delight of its horror.  It is merely the idea of what would be our sensations during the sweeping precipitancy of a fall from such a height.  And this fall – this rushing annihilation – for the very reason that it involves that one most ghastly and loathsome of all the most ghastly and loathsome images of death and suffering which have ever presented themselves to our imagination – for this very cause do we now the most vividly desire it.  And because our reason violently deters us from the brink, therefore, do we the more impetuously approach it.  There is no passion in nature so demoniacally impatient, as that of him, who shuddering upon the edge of a precipice, thus meditates a plunge.  To indulge for a moment, in any attempt at thought, is to be inevitably lost; for reflection but urges us to forbear, and therefore it is, I say, that we cannot.  If there be no friendly arm to check us, or if we fail in a sudden effort to prostrate ourselves backward from the abyss, we plunge, and are destroyed.

[…]

Da un celebre racconto di Edgar Allan Poe: lo trovate qui in versione integrale.

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Pandora

Vernant, Jean-Pierre (2006). Pandora, la prima donna (Pandora, la première femme). Torino: Einaudi. 2008.

Vernant è stato uno dei maggiori studiosi della grecità (storia, filosofia, mito). Questo libriccino è ripreso da una conferenza tenuta alla Biblioteca nazionale di Francia il 6 giugno 2005 da un Vernant ormai 91enne.

Nnostante il tema scabroso, quanto meno in tempi di femminismo (nonostante le forme da donna intatta che non ha mai generato – pàrthenos – e il fascino – charis – infusole da Atena e Afrodite, dentro di lei si celano l’indole di una cagna e il temperamento di un ladro), Vernant scrive un saggio leggero e profondo. La donna è coessenziale alla natura umana: l’uomo di differenzia dal dio e dall’animale per la condizione umana. La natura umana è definita dal nutrimento, dal fuoco e dalla morte. E in questi elementi, dal contrasto tra apparenza (bellezza) e realtà (caducità e morte): il cibo degli dei è magro ma tereno, quello degli uomini è ricco ma non nutre a lungo; il fuoco degli dei è eterno, quello dell’uomo deve essere curato e nutrito; gli dei sono eterni, gli uomini amano e si riproducono, ma muoiono.

Come sempre, Vernant coniuga miti e filosofia. E lo fa in un modo da farci rimpiangere la sua morte: come se anche lui, come un personaggio d’Esiodo, sia definito dal contrasto tra cristallina saggezza e deperibile animalità.

Da tanta bellezza non può venire alcun male.

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1° luglio – Marlon Brando

È morto 4 anni fa, il 1° luglio 2004.

Voglio ricordarlo con la più controversa delle sue interpretazioni, anche se certo non la più bella: quella di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci.

Il motivo: è una pagina nera della censura e dell’oscurantismo italiano.

In Italia il film uscì nelle sale il 15 dicembre 1972, un giorno dopo l’anteprima europea (aveva debuttato il 14 ottobre 1972 a New York); la settimana seguente il film fu sequestrato per “esasperato pansessualismo fine a sé stesso”. In seguito a questa e ad altre denunce, cominciò un iter giudiziario che portò il 29 gennaio 1976 alla sentenza della Cassazione che condannò la pellicola al rogo. Furono salvate alcune copie che oggi sono conservate presso la Cineteca Nazionale. Per il regista ci fu una sentenza definitiva per offesa al comune senso del pudore, reato per il quale venne privato per cinque anni dei diritti civili (fra cui quello di voto) e fu condannato a quattro mesi di detenzione (pena poi sospesa). Soltanto a distanza di quindici anni, nel 1987, la censura riabilitò il film, permettendone la distribuzione nelle sale (Bertolucci stesso ne aveva conservato clandestinamente una copia).

La scena che riportò qui sotto non è quella famigerata, ma astenetevi dal guardarla se pensate sia viziata da “esasperato pansessualismo fine a sé stesso”. Se invece siete adulti, appezzate come Brando sappia recitare con ironia anche una scena come questa.

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Gonzo

Chi è credulone e facilmente ingannabile (De Mauro online).

In inglese, gonzo vuol dire piuttosto “bizzarro” e “stravagante”.

La radice indoeuropea ghans- significa “oca” (tedesco Gans e inglese gander). L’accostamento tra l’animale e lo sciocco (o la sciocca) è comune a tutte le lingue indoeropee.

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