Invidia (2)

Ancorché ateo praticante, trovo illuminante quello che dell’invidia (e della gelosia) dice Enzo Bianchi (su La stampa del 23 dicembre 2007):

[…] i padri del deserto accostavano alla tristezza l’invidia, ricordando che se la prima provoca una sorta di paralisi di senso nell’oggi, la seconda è un’afflizione che nasce dal bene degli altri. L’etimologia di invidia ne rivela il legame con il «vedere»: in-videre significa avere un occhio cattivo fino a non vedere più l’altro, fino a volerne la sparizione, e così l’invidia può condurre all’omicidio. Sì, c’è anche una tristezza che nasce dalla constatazione della felicità altrui, reale o presunta che sia: terribile sentimento che nasce ancora una volta dal fuggire il presente, solo che anziché rifugiarci in un passato idealizzato o in un futuro sognato, ci volgiamo verso un presente che non appartiene a noi ma ad altri… Nasce allora il desiderio di avere noi, qui e subito, la «roba» degli altri, anche se a volte si vorrebbe semplicemente che l’altro non avesse quei beni, quelle caratteristiche, quei determinati doni. Per questo l’invidia è un sentimento che si cerca di nascondere, un sentimento inconfessabile, di cui non ci si vanta ma ci si vergogna perché equivarrebbe a una dichiarazione pubblica di inferiorità. Più in profondità, l’invidia è un riflesso che consiste nel paragonarsi sistematicamente agli altri, nell’incapacità personale di ammettere con gratitudine i doni rispettivi di cui ciascuno è dotato. Ci sono sempre qualità che gli altri hanno e io no; fissandomi su queste, finisco per cadere nella profonda tristezza verso la vita quale essa è e si presenta.
Oggi i sociologi dicono che l’invidia è un male sociale assai diffuso, soprattutto verso chi guadagna di più e dispone di più ricchezze. Ma l’invidioso dovrebbe sapere di essere condannato all’isolamento: infatti, non appena gli altri si accorgono di questo suo sentimento, lo abbandonano perché ai loro occhi diviene insopportabile. Non a caso anche la gelosia – patologia che si declina in mille modi, non solo nei rapporti coniugali – appartiene a questa medesima suggestione, a questa tentazione della tristezza: essa nasce dal vivere gli uni accanto agli altri, dal confronto continuo, dal verificare ciò che gli altri sono e fanno e, di conseguenza, l’approvazione e il riconoscimento che essi ricevono. Va detto con estremo realismo: questi sentimenti, se lasciati crescere senza freno, trasformano anche somaticamente chi ne è preda e si manifestano con il pallore del volto, con labbra tese e piatte, con lo sguardo glaciale…
Chi ha raffigurato bene l’invidia è Giotto nella Cappella degli Scrovegni, dove appare una donna anziana, avvolta dalle fiamme che indicano il suo tormento interiore e dalla cui bocca esce un serpente che si ritorce contro i suoi occhi; le sue orecchie spropositate narrano la sua attitudine alla curiosità, ad ascoltare maldicenze per nutrirsi di contestazione e antagonismo, concorrenza e gelosia: un male veramente triste che si contrappone alla comunicazione, alla gioia che viene dal condividere con gli altri la ricerca di senso e il tesoro della nostra comune condizione umana.

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NIMBY

Con NIMBY (acronimo inglese per Not In My Back Yard, lett. “Non nel mio cortile”) si indica un atteggiamento che si riscontra nelle proteste contro opere di interesse pubblico che hanno, o si teme possano avere, effetti negativi sui territori in cui verranno costruite, come ad esempio grandi vie di comunicazione, sviluppi insediativi o industriali, termovalorizzatori, discariche, depositi di sostanze pericolose, centrali elettriche e simili. L’atteggiamento consiste nel riconoscere come necessari, o comunque possibili, gli oggetti del contendere ma, contemporaneamente, nel non volerli nel proprio territorio a causa delle eventuali controindicazioni sull’ambiente locale.

Fin qui Wikipedia, che aggiunge anche che per la degenerazione estrema della sindrome NIMBY si utilizza l’acronimo BANANA che sta per Build Absolutely Nothing Anywhere Near Anything (“Non costruire assolutamente nulla in alcun luogo vicino a niente”).

Nel quartiere dove abito c’è grande agitazione, con raccolta di firme e diffide, contro la costruzione di un’antenna di 35 metri d’altezza e posta in cima a una collinetta con le antenne dei cellulari.

Ai tempi dei miei studi, si insegnava che nelle scelte pubbliche si doveva perseguire l’ottimo paretiano o efficienza allocativa (quando, spostandosi da una situazione a un’altra, tutti gli interessati vedono la propria condizione migliorare o almeno non peggiorare; cioè quando non è possibile alcuna altra allocazione che migliori le condizioni di tutti, perché l’utilità di un soggetto può essere aumentata soltanto da una diminuzione dell’utilità di qualcun altro; nessuno può migliorare la propria condizione senza che qualcun altro peggiori la sua). Quando l’ottimo paretiano fosse risultato inattingibile, si sarebbe dovuti ripiegare sul criterio di efficienza (o di compensazione) di Kaldor-Hicks (introdotto da John Kaldor e Nicholas Hicks nel 1939), secondo il quale una modificazione nell’allocazione delle risorse è efficiente se il benessere ottenuto da alcune componenti supera le perdite di benessere subite da altri componenti. Perché vi sia efficienza è fondamentale che coloro che subiscono una perdita di benessere rimangano in una situazione migliore rispetto a coloro verso i quali la modificazione dell’allocazione ha operato favorevolmente. In pratica, chi beneficia dell’azione è in grado di compensare le perdite di coloro che ne sono danneggiati, e conservare un beneficio.

Non si fa così, in genere, o quanto meno non esplicitamente e trasparentemente. Una legge, anni fa, prevedeva che i comuni che accettavano che nel loro territorio fossero insediate centrali elettriche godessero di un prezzo agevolato dell’energia. Ma non mi risulta che, nel dibattito sulla monnezza campana o in quello sulla TAV, sia sia fatto esplicito riferimento al criterio di Kaldor-Hicks.

Fin qui la razionalità. Ma NIMBY gioca molto sull’irrazionalità. Tanto per cominciare dal fatto che non mi sembra sia mai stato dimostrato che la radiazione elettromagnetica sia pericolosa. Viviamo comunque in un bagno di radiazione elettromagnetica, anche se le frequenze dei telefonini sono particolarmente alte. Dove è stata eretta l’antenna, fino a pochi anni fa c’era un convento: è più pericolosa la vicinanza all’antenna o al clero?

L’altro aspetto paradossale è che la mobilitazione “popolare” (anche se stiamo parlando di un quartiere d’agiata borghesia) avviene prevalentemente via telefonino. Nessuno coglie l’ironia che per combattere un’antenna dei telefoni ci si mobiliti con i telefonini stessi. Nessuno coglie, forse, la relazione tra telefonino e antenna. Nessuno riflette sulla circostanza che, senza antenna, e senza antenna vicina (dicevamo che le onde sono molto corte), i telefonini non funzionerebbero…

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