Sonderkommando Auschwitz

Venezia, Schlomo (2007). Sonderkommando Auschwitz (Sonderkommando). Milano: Rizzoli. 2008.

Certamente queste memorie di un ebreo greco di lingua italiana, deportato giovanissimo a Birkenau e trovatosi in modo pressoché fortuito a far parte del Sonderkommando, cioè del gruppo di prigionieri ebrei costretti a prestare servizio prima e dopo le uccisioni di massa (ad esempio, prima aiutando i morituri a spogliarsi e poi tagliando i capelli alle donne, strappando i denti d’oro e cremando i cadaveri) non può essere oggetto di una recensione “normale”. È una memoria orale trascritta, in cui sull’orrore prevale spesso lo stupore (in senso etimologico), l’incapacità di comprendere quello che sta accadendo. ma forse soltanto così si sopravvive a questo orrore. Mancano le riflessioni di Primo Levi o di Boris Pahor: qui c’è un quotidiano sospeso nel tempo e dal “giudizio” umano che aggiunge materia all’orrore.

Ho trovato molto fastidiosa, retorica e francamente brutta la prefazione di Walter Veltroni, con tutti i suoi tic linguistici e i suoi espedienti retorici.

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It’s All Over Now, Baby Blue

“You must leave now, take what you need, you think will last.
But whatever you wish to keep, you better grab it fast.

Strike another match, go start anew.”

Un amore è finito, Bob Dylan lo trasfigura. Adesso ci vuol far credere che il suo era per lo più mestiere, ma è difficile crederlo quando dopo – dopo 45 anni – sa ancora toccarci così.

Dal vivo (1965, forse Newport):

Dal vivo (1966):

Le cover. Byrds (strumentale):

Ancora i Byrds:

Marianne Faithfull:

Joni Mitchell:

Bryan Ferry:

The Boss:

Eric Burdon and the Animals:

Joan Baez:

E, per chi ha avuto pazienza finore, la cover più bella, quella dei Them con un giovanissimo Van Morrison:

You must leave now, take what you need, you think will last.
But whatever you wish to keep, you better grab it fast.
Yonder stands your orphan with his gun,
Crying like a fire in the sun.
Look out all the saints are comin’ through
And it’s all over now, Baby Blue.

The highway is for gamblers, better use your sense.
Take what you have gathered from coincidence.
The empty-handed painter from your street
Is drawing crazy patterns on your sheets.
This sky, too, is folding over you
And it’s all over now, Baby Blue.

All your seasick sailors, they are rowing home.
Your empty-handed armies, they are going home.
The lover who just walked out your door
Has taken all his blankets from the floor.
The carpet, too, is moving under you
And it’s all over now, Baby Blue.

Leave your stepping stones behind, there’s something that calls for you.
Forget the dead you’ve left, they will not follow you.
The vagabond who’s rapping at your door
Is standing in the clothes that you once wore.
Strike another match, go start anew
And it’s all over now, Baby Blue.

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La forma della paura

De Cataldo, Giancarlo e Mimmo Rafele (2009). La forma della paura. Torino: Einaudi. 2009.

La forma della paura

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Un romanzo minore di De Cataldo, che ci aveva abituato bene, con Romanzo criminale e soprattutto con Nelle mani giuste (che ho recensito in questo post).

Chissà quali sono i misteri delle scelte editoriali. Chissà se anche autori come De Cataldo – che sappiamo approdati alla letteratura (esercita ancora il difficile mestiere di magistrato di corte d’assise?) mossi dall’impegno civile – subiscono le lusinghe delle case editrici.

O magari dell’industria dell’intrattenimento, dato che questo romanzo, scritto con uno sceneggiatore, sembra appunto una sceneggiatura. Del romanzo, cioè, ha tutti i tic, ma nessuna profondità. Soprattutto, mancano la profondità e la complessità cui i romanzi di De Cataldo ci avevano abituato. Manca quel rapporto melmoso, ma reso “chiaro” dall’autore nello stesso modo in cui certi intrecci erano rivelati dall’Io so di Pier Paolo Pasolini, tra l’anomia e il male della pratica criminale e la normalità dell’ordinata gestione della società e dello Stato. Qui ci sono soltanto un intreccio (piuttosto che una vicenda radicata nella storia di questi nostri anni e di questo Paese) e i suoi personaggi, abbozzati senza vero spessore. Insomma: la sceneggiatura di un film per la televisione o per il cinema.

Dato che però De Cataldo, anche quando scrive con la mano sinistra, è pur sempre De Cataldo, non mancano brani che fanno riflettere:

… a noi hanno insegnato che lo Stato si difende e si protegge nel segreto. Wisniaski diceva che erano tutte castronerie. I segreti meno sono tali e meglio si tutelano, diceva… […] Bisogna sempre dire la verità, ripeteva. Specie ai nemici.
Il trucco stava nella scelta del nemico al quale affidare il compito di rivelare la verità. Toccava al soggetto prescelto renderla manifesta. E più era variopinto, eccentrico, irregolare, inaffidabile il soggetto prescelto, minori chance aveva la rivelazione per imporsi per quel che era: una verità. Ecco. Depotenziare la verità, sino a trasformarla in una delle tante leggende che abitano il mondo contemporaneo. [p. 204]

Dire la cosa giusta nel modo sbagliato è molto peggio che dire la cosa sbagliata in modo giusto. [p. 207]

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Viaggio al centro della provincia

Marcoaldi, Franco (2009). Viaggio al centro della provincia. Torino: Einaudi. 2009.

Marcoaldi è essenzialmente un poeta, di cui non avevo letto nulla (e di cui non leggerò, penso, più nulla in futuro).

Sono stato ingannato dalla quarta di copertina (caveat emptor, direte voi), e non è certo la prima volta:

Mezzo secolo dopo il Viaggio in Italia di Piovene, un poeta-reporter cerca, nella provincia italiana, i segni, le storie, il profilo piú vero di un Paese «oscuro a se stesso». E racconta il carattere dei nuovi italiani.

Purtroppo, non è così. Il libro è una raccolta – molto discontinua – di articoli scritti per la Repubblica e forse rivisti.

Brutto libro, che vi sconsiglio. Da una parte, Marcoaldi mi sembra attento soprattutto a compiacersi della sua “bella lingua” (che a me, inutile dirlo, non piace: insieme troppo “carica” di aggettivi e troppo ricercata). Dall’altra, mi sembra che i suoi incontri (sindaci, artisti, rettori universitari, imprenditori eccetera) siano orientati alle necessità di un giornalismo più di marketing territoriale che di inchiesta. Io, che pure mi picco di essere un cultore della materia dello sviluppo territoriale italiano, non sono stato arricchito dalla lettura di Marcoaldi. Forse ne sono stato persino un po’ impoverito, forse inquinato dai troppi luoghi comuni (i luoghi comuni sono tali perché sono la ripetizione acritica di un’opinione altrui, diffusa certo, ma non necessariamente nota: l’operazione di Marcoaldi dà risonanza nazionale ai luoghi comuni diffusi finora alla scala provinciale).

Certo fa impressione leggere in questi giorni l’incipit del capitolo dedicato a L’Aquila:

Se una città sceglie un determinato motto ci sarà pure una ragione. E la scritta Immota manet che compare sullo stendardo del capoluogo abruzzese in effetti dà da pensare, offrendo il destro a una duplice lettura: perché se da un lato rimanda alla tenacia di una città in grado di resistere ai ripetuti terremoti che hanno via via distrutto tante sue vestigia … [p. 108]

If I Were a Carpenter

Dedicatissima. 35 anni dopo.

La canzone è di Tim Hardin. Qui dal vivo a Woodstock.

Qui la canta Bobby Darin.

Joan Baez:

Johnny Cash (e figlia):

Dolly Parton (e Randy Travis):

Persino Robert Plant (Led Zeppelin)

La cover dei Dik Dik:

Io trovo bellissima questa versione brit degli Small Faces (Steve Marriott voce):

If I were a carpenter
And you were a lady,
Would you marry me anyway?
Would you have my baby?

If a tinker were my trade
would you still find me,
Carrying the pots I made,
Following behind me.

Save my love through loneliness,
Save my love for sorrow,
I’m given you my onliness,
Come give your tomorrow.

If I worked my hands in wood,
Would you still love me?
Answer me babe, “Yes I would,
I’ll put you above me.”

If I were a miller
at a mill wheel grinding,
would you miss your color box,
and your soft shoe shining?

If I were a carpenter
and you were a lady,
Would you marry me anyway?
Would you have my baby?
Would you marry anyway?
Would you have my baby?

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Hans Christian von Baeyer – Information: The New Language of Science.

Baeyer, Hans Christian von (2003). Information: The New Language of Science. London: Phoenix. 2003.

Non sono sicuro di aver capito tutto. Mentre sulla teoria classica dell’informazione mi sento abbastanza sicuro (in fin dei conti il mio Shannon l’ho letto), la parte dedicata alla Quantum Information mi mette in difficoltà. Ma apparentemente sono in buona compagnia:

If anybody says he can think about quantum physics without getting giddy, that only shows he has not understood the first thing about them. [Niels Bohr]

If quantum mechanics hasn’t profoundly shocked you, you haven’t understood it yet. [Niels Bohr]

If someone says that he can think or talk about quantum physics without becoming dizzy, that shows only that he has not understood anything whatever about it. [Murray Gell-Mann]

I think it is safe to say that no one understands quantum mechanics. Do not keep saying to yourself, if you can possibly avoid it, ‘But how can it possibly be like that?’ because you will go down the drain into a blind alley from which nobody has yet escaped. Nobody knows how it can be like that. [Richard Feynman]

Per non parlare dei dubbi di Einstein.

Il libro di von Baeyer è un tour de force, e mi sento di raccomandarlo vivamente, anche se non tutto mi sembra egualmente convincente. Ma è certo che von Baeyer ha il raro dono della divulgazione (quello che gli anglosassoni chiamano, capovolgendo la nostra prospettiva, public understanding of science), e sono rimasto impressionato dal modo fresco e nuovo di illustrare e far comprendere cose che già conoscevo. Basti per tutti la spiegazione del “problema di Monty Hall” [pp. 69-72].

Von Baeyer fa un uso ampio ed efficace di quelle che Daniel Dennett chiama intuition pumps.

Sotto il profilo filosofico (che è quello in cui, tutto considerato, mi sento più a mio agio), mi sembra che von Baeyer sia vicino al punto di vista di Bohr, che affermava:

“Our task is not to penetrate into the essence of things, the meaning of which we don’t know anyway, but rather to develop concepts which allow us to talk in a productive way about phenomena in nature.”
“There is no quantum world. There is only an abstract quantum physical description. It is wrong to think that the task of physics is to find out how nature is. Physics concerns what we can say about nature.” [citato a p. 65]

Von Baeyer aderisce apparentemente alla soluzione proposta da Anton Zeilinger:

Its crucial, underlying assumption is Bohr’s proclamation that physics in general, and quantum mechanics in particular, do not describe the world itself, only what we are able to say about it. Bohr demands that we wake up from the spell of Democritus – the illusion that we can come to grips with the objective material world, without acknowledging, or even trying to understand, the mediating role of information. We never see a chair, Bohr would say: we receive senso impressions that give us information which our brains somehow process into the idea (an Aristotelian ‘Form’) of chair. We don’t see, or detect, or measure an atom: we gather information about the atom and encode it in a mathematical construct called a wave function, which enables us to make predictions about information we may gather in future experiments. [p. 227]

Why does nature seem granular, discontinuous, quantized into discrete chunks like sand – instead of smooth and continuous like water? The answer is that while we have no idea how the world is really arranged, and shouldn’t even ask, we do know that knowledge of the world is information; and since information is naturally quantized into bits, the world also appears quantized. If it didn’t, we wouldn’t be able to understand it. It’s both as simple, and as profound, as that. [p. 229]

Ecco, io non so voi, ma a me questa spiegazione ha lasciato con un grande senso di pace interiore, “un grande senso di dolcezza…”. LA sensazione di essermi avvicinato un po’ a una verità.

E mi è venuta in mente una cosa molto personale. Io sono molto miope, pochi possono immaginare quanto. E fin da bambino, senza occhiali, nella penombra, quello che vedevo (e vedo) mi appariva granulare, come dipinto da Seurat. La spiegazione di von Baeyer– nell’unificare teoria quantistica e teoria dell’informazione – risuona in me con questa sensazione consueta.

Blade Runner

Blade Runner, 1982 (1997), di Ridley Scott, con Harrison Ford, Rutger Hauer, Sean Young, Daryl Hannah, Joanna Cassidy eccetera.

Rivisto ieri sera, dopo anni. Un film troppo noto (è al 109° posto nella classifica di IMDb) per fare una vera recensione. Mi limiterò a qualche (irrilevante) notazione personale.

Avevo letto il libro (Do Androids Dream of Electric Sheep?) molto prima che ne facessero un film: mi pare sia stato il secondo che ho letto di Philip K. Dick, ma sicuramente è venuto per me dopo We Can Build You, anch’esso dedicato al tema dickiano dei simulacri.

Blade Runner appartiene in realtà alla tradizione hard-boiled: Rick Deckard è una reincarnazione di Philip Marlowe e di Sam Spade.

Il film è girato in parte al Million Dollar Theatre (307 S. Broadway, Downtown Los Angeles) che non è – contrariamente a quanto pensavo io – la stessa cosa del Million Dollar Hotel dell’omonimo film di Wim Wenders.

Rick Deckard porta l’orologio al polso (lo si vede bene nella famosa scena sul tetto: ormai siamo vicini al 2019 in cui è ambientato il film. Già ora l’orologio è diventato un elemento decorativo, che nessuno dei miei figli porta. A che serve l’orologio quando il cellulare ti dà l’ora esatta, scaricandola dal provider di telefonia? Un’altra previsione sbagliata!

Nella celebre scena qui sotto, all’inizio,  lo si vede abbastanza bene al polso sinistro di Deckard (soprattutto quando è appeso alla trave del tetto – un classico cliff-hanger – viene inquadrato più volte).

Nel sonoro originale, il famoso monologo di Roy Batty (Rutger Hauer) suona così:

I’ve seen things you people wouldn’t believe. Attack ships on fire off the shoulder of Orion. I watched C-beams glitter in the darkness at Tannhäuser Gate. All those moments will be lost in time like tears in rain. Time to die.

Attiro anche la vostra attenzione su quello che dice Gaff (il galoppino di Bryant), proprio alla fine dello spezzone:

It’s too bad she won’t live. But then again, who does?

Quest for Kim

Hopkirk, Peter (1996). Quest for Kim. In Search of Kipling’s Great Game. London: John Murray. 2006.

L’idea è geniale: cercare quello che resta, ammesso sia mai esistito, delle persone e degli eventi che hanno ispirato uno dei capolavori di Kipling. L’autore è un giornalista del Times in pensione (è nato nel 1930 e ha scritto questo libro dopo i 60), con al suo attivo un certo numero di libri di carattere storico sull’Asia centrale, dove è stato corrispondente per oltre 20 anni. Hopkirk parte per un viaggio alla ricerca di Kim, ripercorrendo per quanto possibile l’itinerario narrato nel romanzo.

Non poteva non farsi tentare chi, come me, ama Kipling in generale (ne ho parlato più volte su questo blog, quiqui, qui, qui e più di recente qui) e Kim in particolare (lo ho letto da bambino, ovviamente in italiano; sempre in italiano, l’ho letto ad alta voce ai miei figli; ma l’ho riletto anche in inglese per puro egoistico piacere mio …).

Il libro, tuttavia, è un po’ una delusione, e lo consiglio soltanto agli appassionati come me. Hopkirk, in realtà, non fa nessuna scoperta sconvolgente, ma questo non è colpa sua. La sua scrittura è un po’ sciatta, forse troppo “giornalistica” in senso deteriore (la narrazione è un po’ sopra le righe e piena di luoghi comuni). Ho il sospetto, infine, che Hopkirk sia un po’ nostalgico del colonialismo, pensi in realtà che gli indiani e i pakistani se la sarebbero cavata meglio sotto il governo inglese, e condivida di Kipling le opinioni più retrive (The White Man’s Burden!).

Kipling scrisse questa famosa poesia nel 1899, per celebrare la conquista delle Filippine da parte degli Stati uniti dopo la guerra ispano-americana.

Take up the White Man’s burden–
Send forth the best ye breed–
Go bind your sons to exile
To serve your captives’ need;
To wait in heavy harness,
On fluttered folk and wild–
Your new-caught, sullen peoples,
Half-devil and half-child.

Take up the White Man’s burden–
In patience to abide,
To veil the threat of terror
And check the show of pride;
By open speech and simple,
An hundred times made plain
To seek another’s profit,
And work another’s gain.

Take up the White Man’s burden–
The savage wars of peace–
Fill full the mouth of Famine
And bid the sickness cease;
And when your goal is nearest
The end for others sought,
Watch sloth and heathen Folly
Bring all your hopes to nought.

Take up the White Man’s burden–
No tawdry rule of kings,
But toil of serf and sweeper–
The tale of common things.
The ports ye shall not enter,
The roads ye shall not tread,
Go mark them with your living,
And mark them with your dead.

Take up the White Man’s burden–
And reap his old reward:
The blame of those ye better,
The hate of those ye guard–
The cry of hosts ye humour
(Ah, slowly!) toward the light:–
“Why brought he us from bondage,
Our loved Egyptian night?”

Take up the White Man’s burden–
Ye dare not stoop to less–
Nor call too loud on Freedom
To cloke your weariness;
By all ye cry or whisper,
By all ye leave or do,
The silent, sullen peoples
Shall weigh your gods and you.

Take up the White Man’s burden–
Have done with childish days–
The lightly proferred laurel,
The easy, ungrudged praise.
Comes now, to search your manhood
Through all the thankless years
Cold, edged with dear-bought wisdom,
The judgment of your peers!

La peggiore tragedia del millennio

L’hanno scritto tutte le agenzie di stampa, ripreso tutti i giornali, trasmesso tutte le radio e le televisioni.

(AGI) – Roma, 6 apr. – “La peggiore tragedia di questo millennio”. Cosi’ il capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, definisce il terremoto in Abruzzo.

Non ho motivi particolari per prendermela con Bertolaso (anche se mi fa un po’ ridere che sia chiamato a risolvere tutte le emergenze nazionali, come il Wolf di Harvey Keitel in Pulp Fiction) e meno che mai voglio mancare di rispetto alle vittime del terremoto.

Però le parole hanno, o dovrebbero avere un senso. D’accordo, dico spesso (e lo conferma l’indagine PISA dell’OCSE) che la nostra tradizione scolastica porta gli italiani ad avere poca dimestichezza con i numeri e con le analisi quantitative. E questo è già un bel problema in sé. Ma – cribbiolina – tutti cercano di convincerci che siamo maghi delle parole, ottimi retori, grandi comunicatori. Invece la frase di Bertolaso, al di là dei luoghi comuni, ha un contenuto informativo prossimo a zero. Peggio: un contenuto disinformativo.

Tanto per cominciare, questo millennio – a seconda che lo facciamo iniziare dal 1° gennaio 2000 o 2001 – ha 8 o 9 anni d’età. Vuol dire che ne mancano 991 o 992 alla sua conclusione e, purtroppo, c’è tutto il tempo per accumulare tragedie peggiori di questa. Non ha detto, Bertolaso, la tragedia peggiore degli ultimi 1000 anni, che forse avrebbe dato più prospettiva alla sua affermazione, ma che sarebbe stato palesemente falso, qualunque fosse il metro di giudizio adottato.

Già, perché l’uso del comparativo peggiore implica necessariamente un metro di giudizio. La necessità di avere un’unità di misura, e quindi di ragionare in termini quantitativi, rientra dalla finestra dopo essere stata messa alla porta. Peggiore di che? Peggiore in che termini? Qual è l’unità di misura che stiamo utilizzando? Il numero di morti? Il numero di abitazioni distrutte? L’ammontare dei danni espresso in termini monetari? E qual è l’ambito territoriale di riferimento? L’Aquila? L’Abruzzo? L’Italia? L’Europa? Non certo la scala mondiale, nemmeno a parlare soltanto di eventi sismici, dal momento che le vittime dello tsunami del 26 dicembre 2004 sono stimate in 230.000 (Bertolaso dovrebbe saperlo, dato che fu responsabile delle operazioni di soccorso dell’Unione europea).

Quanto a me, nonostante le mia passione per i numeri e le statistiche, trovo questa contabilità dei disastri un esercizio fuorviante e cinico: ogni tragedia, ogni morte, ha una sua scala definitiva e incomparabile, come ben sa chi ha perso una persona cara per incidente stradale o sul lavoro, per malattia, per qualunque causa …

Come canta il poeta (l’avevo già citato qui):

Da morte nera e secca, da morte innaturale,
da morte prematura, da morte industriale,
per mano poliziotta, di pazzo generale,
diossina o colorante, da incidente stradale,
dalle palle vaganti d’ ogni tipo e ideale,
da tutti questi insieme e da ogni altro male,
libera, libera, libera, libera nos Domine!

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Kurt Cobain – In memoriam

Sono passati 15 anni dalla morte di Kurt Cobain (5 aprile 1994). A me sembra ieri.

A me è sempre piaciuta da morire la cover di Tori Amos (qui dal vivo a Montreux 1992 – bellissima e bravissima, ricordo di averla scoperta grazie a Keyboard e di averla sentita dal vivo al Palladium).

Load up on guns,
Bring your friends
It’s fun to lose and to pretend
She’s overboard self assured
Oh no I know, a dirty word.

Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello.

With the lights out, it’s less dangerous
Here we are now, entertain us
i feel stupid and contagious
Here we are now, entertain us
A mullato!
An Albino!
A mosquito!
My libido!
Yay!(x3)

I’m worse at what I do best
And for this gift I feel blessed
Our little group has always been
And always will until the end

Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello.

With the lights out, it’s less dangerous
Here we are now, entertain us
I feel stupid and contagious
Here we are now, entertain us
A mullato!
An Albino!
A mosquito!
My libido!
Yay!(x3)

(Solo)

And I forget just what it take
and yet I guess it makes me smile
I found it hard, it’s hard to find
Oh well, whatever, nevermind

Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello, how low?
Hello, hello, hello.

With the lights out, it’s less dangerous
Here we are now, entertain us
I feel stupid and contagious
Here we are now, entertain us
A mullato!
An albino!
A mosquito!
My libido!

A denial!(x9)