Il passaggio della linea, 2007, di Pietro Marcello.

Un documentario (in edicola con Internazionale) molto diverso da quello che mi aspettavo.
Mi aspettavo – tratto in inganno dalla presentazione – un documentario sulla realtà dei pendolari “settimanali”, di quelle persone cioè che ogni settimana si spostano a lavorare al Centro-Nord e tornano, il sabato e la domenica, alle famiglie che continuano a risiedere nel Mezzogiorno, soprattutto da Napoli in giù. Una vita allucinante, se ci pensate, fatta di migliaia di km alla settimana, e che prelude al trasferimento di residenza soltanto se il lavoro (stagionale, a tempo determinato o comunque precario) trova una forma di stabilizzazione. E allora si emigra per davvero: un fenomeno più contenuto che negli anni Cinquanta e Sessanta, ma che comunque coinvolge centinaia di migliaia di persone ogni anno.
Nonostante questa realtà sia diffusa, è anche nascosta. Il costo dei biglietti ferroviari e la necessità di non perdere né giornate di lavoro né il tempo con la famiglia fa sì che queste persone non viaggino di giorno in eurostar, ma di notte sugli espressi (o comunque si chiamino adesso le sferraglianti carrette che percorrono nottetempo le nostre linee ferroviarie, arrancando di stazione in stazione). Soltanto di rado – è successo l’anno scorso quando bloccarono la stazione di Roma Tiburtina per protestare contro gli aumenti di prezzi dei biglietti e degli abbonamenti – la stampa e la televisione si accorgono che esistono e condannano come incivili le loro forme di lotta (e non le loro condizioni di vita e di lavoro!).
Purtroppo, il documentario di Pietro Marcello non parla di questo, o almeno non soltanto di questo. Soprattutto, non ne parla con i toni dell’inchiesta, ma in un’ottica nostalgica, “poetica” in senso deteriore. Non è un caso che il protagonista del documentario, la persona che ha in assoluto più spazio in parole e immagini sia Arturo, un vecchietto che ormai vive sui treni. Interessante, di sicuro. Ma non, almeno per me, come le storie dei lavoratori a lunga percorrenza. Anche le scelte formali (musica, inquadrature, sequenze) sono coerenti con la scelta “poetica” (da cui prendo le distanze con le virgolette): luci taglienti, cigolii, periferie, spiagge…
Per un punto di vista diverso, riporto la presentazione di Giovanni De Mauro e una recensione di Francesco Boille, entrambe da Internazionale.:
Televisione
La televisione è profondamente responsabile del degrado dell’Italia. Davvero. Questa televisione autoreferenziale, che parla solo di sé, che si ciba solo di sé. Una televisione omogeneizzata e appiattita al ribasso nella sua offerta. Una televisione che corrompe chi la fa e chi la guarda. Una televisione – e questa forse è la sua responsabilità maggiore – che con la sua ossessiva ripetitività contribuisce a rendere plausibile un’immagine distorta del mondo, della realtà che ci circonda, perfino dei nostri bisogni e dei nostri desideri. Una televisione che cancella dal suo schermo tutto quello che disturba, che interferisce, che è ambiguo, che è complicato, che non è facile da spiegare. L’hanno definito poetico più che giornalistico. Il film documentario di Pietro Marcello, Il passaggio della linea, che questa settimana è in edicola con Internazionale, riesce finalmente a farci vedere il nostro paese e le sue facce cancellate. Quelle che in tv non andranno mai. – Giovanni De Mauro
Venezia 64: dai treni italiani, un viaggio-poema
Oggi Italia. Il documentario-poema del giovane regista Pietro Marcello, girato sui treni in cerca degli ‘ultimi’ della società, ci incanta, ci commuove, e ci dà speranza su un cinema italiano che, anche qui a Venezia, non ha entusiasmato quasi nessuno.
Il passaggio della linea di Pietro Marcello (Orizzonti).
Il treno. Come ‘luogo’ che trasporta, molto più che come mezzo di trasporto. Come deposito di memoria. Come misterioso anfratto, che racchiude un’umanità che più nessuno vede o vuol vedere. Come oggetto concreto e astratto assieme.
Pietro Marcello, al suo terzo documentario, con pochissimi mezzi, ci regala un’opera originale, densa, profonda. In appena 60 minuti, il film non è solo sopra la media del triste cinema italiano, ma ci pare sullo stesso livello di altri splendidi documentari stranieri visti in Orizzonti.
Come il francese L’Aimée di Arnaud Desplechin (rievocazione di un antico dolore famigliare), come il tedesco Staub di Hartmut Bitomsky (esplorazione del mistero infinitesimale della polvere e, tra le altre cose, di quel che, nel corso del tempo, ha racchiuso) e forse perfino come Useless di Jia Zhang-ke, Leone d’oro a Venezia 2006 con un film-memoria capolavoro, Still Life (la contrapposizione tra una fabbrica cinese di anonimi vestiti e il tentativo di una stilista cinese, cioè un mestiere dell’effimero, che da Parigi tenta un lavoro di stratificazione di quel che si va perdendo).
Come quello di Marcello, sono tutti documentari che tentano, partendo da una situazione concreta, una conservazione della memoria, di quel che rischia di cadere nell’oblio, trasfigurando il tutto in una dimensione, quale più, quale meno, al confine con l’onirismo o l’astrazione.
Il regista non ha scelto gli Eurostar, non ha scelto gli Intercity, ma ha scelto i vecchi treni espresso, “abbandonati da tempo a un lungo degrado”, come dice Marcello nella nota del catalogo. Essi diventano così la metafora degli esseri umani scovati, raccontati, rispettosamente scrutati, in questo documentario. Sono i personaggi ai margini, quelli che la disgustosa sinistra alla Berluskozy (si veda l’intervista di oggi a Giuliano Amato su Repubblica), vorrebbe non esistessero più, siano i lavavetri o gli immigrati cattivi (incattiviti da chi? Forse anche dalle politiche sui paesi poveri che i poteri forti continuano ad imporre).
Sono anime dimenticate, fantasmi di un mondo perduto, ombre tristi, ma che esprimono con inesorabile acutezza le loro verità.
Su tutti spicca quella di un vecchietto che vive sui treni, al contempo sorta di vecchio ‘matto del villaggio’ e anziano eremita. Colui che conserva un’antica sapienza che nessuno vuol più ascoltare.
Circa tre quarti del documentario sono di notte: i passeggeri paiono delle apparizioni; le linee dei binari ferroviari, i paesaggi, le architetture, le luci scorte all’esterno, gli altri treni, diventano incredibili, affascinanti geometrie. L’astrazione del reale scivola pian piano nella linea: ad un certo momento una luce diviene linea d’orizzonte ma appiattendosi sempre più pare anche essere la linea dell’elettrocardiogramma, quella ‘linea della luce’, che quando diventa piatta, diviene per un essere umano sinonimo di morte. Forse qui è metafora di questa gente – talvolta alla fine della sua vita – che sta per esser dimenticata, forse è metafora della decadenza di una società egoistica che non sa più guardare (buon cinema compreso).
Il passaggio della linea è però un film, che tiene a mantenere sempre, e anche qui si vede l’autore, il punto di vista di quel mondo. Come dice sempre il regista nella nota citata: “Siamo riusciti a filmare sempre in treno e dal treno, mai da terra”. Quand’è che i nostri politici guarderanno il mondo soltanto dal treno?
Ma non siamo nemmeno lontani da una ricerca metafisica. Quando alla fine giunge l’alba, è un incanto. Un incanto da albori della storia o da eremita che contempla la bellezza del mondo. Tempo fa, Ermanno Olmi, in un’intervista concessa a Goffredo Fofi, disse (cito malamente a memoria) che “bisognava tornar a saper guardare l’alba”.
Il passaggio della linea ci pare appunto un film che vuole anche suggerire allo spettatore annoiato e nevrotizzato che la felicità sta anche nel ritrovare una purezza dello sguardo, il senso della contemplazione e della riflessione che ne deriva.
Pietro Marcello è la conferma che è nato uno sguardo, quindi un autore, nel paludoso (e paludato) cinema italiano. E non è poca cosa per quest’opera di forte poesia e spiritualità. – Francesco Boille