Il buon Stalin

Erofeev, Viktor (2004). Il buon Stalin. Torino: Einaudi. 2008.

Tra i libri che mi sono piaciuti di più quest’anno, 3 sono russi: Il dottor Zivago (che ho letto ma non ancora recensito), Il Maestro e Margherita e questo. Sarà una coincidenza, dipenderà dalla attuale configurazione dei miei stati d’animo che entrano in profonda sintonia con l’ironica e melancolica anima russa, oppure semplicemente 3 grandi scrittori e 3 grandi libri.

Quello di Erofeev è un romanzo, non un’autobiografia (Tutti i personaggi di questo libro sono inventati, comprese le persone reali e l’autore stesso). Anche se poi il libro è dedicato À mon père e riporta in copertina una foto del piccolo Viktor in braccio al padre Vladimir.

Il nòcciolo del libro è questo: il padre di Erofeev è stato un diplomatico russo di rango importante, prima al Cremlino dove fu interprete di Stalin e stretto collaboratore di Molotov, poi all’ambasciata di Parigi e più tardi di Vienna. Il ruolo del figlio nella pubblicazione dell’almanacco Metropol, vietato dalla censura brezneviana, portò al richiamo in patria dell’ambasciatore Erofeev e alla sua emarginazione.

Ma andiamo con ordine.

La necessità di fare i conti con un’ingombrante figura paterna e con l’ombra di Stalin accosta Erofeev a Martin Amis (a quello, almeno, di Experience e di Koba the Dread): i 2 sono anche quasi coetanei (Erofeev è del 1947 e Amis del 1949). I punti di contatto, che non sono il primo a notare, sono probabilmente legati a qualcosa di sottilmente comune (due ragazzi dotati e viziati?) che me li fa sentire confusamente vicini a me, che non sono di molto più giovane e soltanto di poco meno viziato.

Nonostante qualche discontinuità, un gran bel libro. Inquietante quanto basta, anche grazie a un “trucchetto” letterario ben noto, quello dello scarto tra “autore” e “io narrante”, accentuato da uno scarto (mai banale) dei tempi verbali, dal presente al passato.

Ma lasciamo spazio a Erofeev stesso.

I genitori possono essere giudicati delle persone? Io ne ho sempre dubitato. I genitori sono negativi non sviluppati. Tra tutti quelli che incontriamo nella vita sono quelli che conosciamo peggio, proprio perché non li incontriamo; l’iniziativa fin dall’origine è stata presa dagli «avi»: sono loro che vengono incontro a noi. Il cordone ombelicale non è stato tagliato, loro sono parte di noi esattamente nella stessa misura in cui ci è impossibile capirli. il collasso della conoscenza è assicurato. Il resto sono congetture. Abbiamo paura di vedere il loro corpo e di guardarli nell’anima. Loro per noi non si trasformano mai in persone, rimangono per sempre un susseguirsi di impressioni che non hanno un’origine, dei mutevoli spauraccchi-miraggi.
Sono esseri inviolabili. I nostri giudizi su di loro sono incerti, campati per aria, basati sul preconcetto, sulle insuperate paure infantili, sul dissidio tra perfezione e realtà, sulla giustificazione dell’ingiustificabile. Ma anche i genitori sono impotenti di fronte al nostro giudizio. Il reciproco amore che ci lega non appartiene né a loro né a noi, bensì a un istinto che si è smarrito tanto nel grembo della madre quanto nel grembo della civiltà. In questo istinto cerchiamo con forza un luminoso principio umano, e non possiamo fare a meno di vendicarci della cecità dell’istinto con le nostre profonde speculazioni. L’amore intitolato «padri e figli» non ha la gratitudine come comun denominatore, è pieno di infiniti rancori e malintesi, che generano l’amarezza di un rimpianto tardivo.
I genitori sono il respingente tra noi e la morte. Come i grandi artisti, non hanno diritto all’età; la nostra inevitabile rivolta contro di loro è tanto biologicamente impeccabile quanto moralmente abietta. I genitori sono ciò che di più intimo possediamo. [pp. 4-5]

Potrei finire qui la recensione. Quando un libro dice questo, e nella prima pagina, entra di diritto nell’immortalità, mi pare.  Ma ci sono moltre altre pagine memorabili.

Le somiglianze che ci legano – il sorriso, il naso, la bocca socchiusa quando siamo distratti, la gamba che si agita impaziente, l’improvvisa lentezza, le mani intrecciate dietro la nuca, l’intonazione – sono tali che insieme formiamo una macchina del tempo. [p. 73]

Ognuno di noi è detestato da varie persone, il loro istinto animale viene irritato da qualunque nostro movimento, ma l’importante è non fornire loro il pretesto di formulare concretamente ciò che provano verso di noi, non diventare dipendenti da loro, non dare loro la possibilità di colpirci con un’affilata spada giapponese. [p. 172 – lezione di vita]

Infine – ma non leggete oltre se intendete leggere Il buon Stalin come fosse un thriller – il momento della verità tra padre e figlio:

Il quarantesimo giorno della sua permanenza a Mosca mio padre mi invitò per l’ennesima volta a cena. Lo trovai rallentato nei movimenti e così pallido che dentro di me urlai di compassione. Rimase a lungo in silenzio, masticando le nostre ormai rituali salsicce. Alla fine disse:
– Nella nostra famiglia c’è già un cadavere. Sono io.
Io tacevo, fissandolo e cercando di capire dove voleva arrivare. Meccanicamente ripiegava e lisciava il tovagliolo di stoffa.
– Se tu scrivi la lettera, – soggiunse, – in famiglia  di cadaveri ce ne saranno due. [p. 266]

Sono tutto dalla parte del padre, figura di tragica grandezza. Per tante grandi ragioni, ma soprattutto per una piccola, piccolissima: mi riconosco nel lisciare e ripiegare il tovagliolo di stoffa.

Apoftègma

Sinonimo di aforisma (ma vuoi mettere come suona più colto?), cioè “massima, breve sentenza che esprime una regola pratica o una norma generale di saggezza filosofica o morale: parlare per aforismi, gli aforismi di Schopenhauer ” (De Mauro online).

In pratica, quello di H. M. Enzensberger sulla politica che ho pubblicato ieri, era un apoftegma.

Dal greco apophthénghesthai (“enunciare una sentenza”), composto dal suffisso apo- (“via da”) e phthéngesthai (“parlare”).

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