Marani, Diego (2008). L’amico delle donne. Milano: Bompiani. 2008.
L’autocoscienza, nella sua accezione comune, è legata a una pratica di riflessione su sé stessi, condotta in genere in gruppo o comunque resa pubblica, disponibile a terzi, particolarmente legata al femminismo. So di aver dato una definizione semplificata – sulle enciclopedie si parla di autocoscienza da Socrate alla psicoanalisi – ma vorrei riferirmi qui a questa pratica, e non ad altre accezioni del termine. La parola in sé mi ha sempre un po’ infastidito: come “auto-coscienza”, mi dico. La coscienza (nel senso di consciousness, non in quello di conscience) non è sempre riflessiva? Non è anzi specificamente definita dalla capacità di mettere in relazione sé e altro? Non ha dunque sempre una componente di consapevolezza di sé? Può forse esserci un’etero-coscienza? Per questo, se dipendesse da me, sceglierei una parola diversa, introspezione.
Nel senso in cui ne parlo, mi pare si possa dire che esiste una letteratura dell’introspezione (o dell’autocoscienza, se preferite) e che una delle sue caratteristiche è di essere un genere letterario prevalentemente femminile, scritto cioè da donne. I romanzi esplicitamente e principalmente di autocoscienza scritti da autori maschi che ho letto sono relativamente pochi. Qualche anno fa trovai, e fu una rivelazione, Intimacy di Hanif Kureishi: un libro bellissimo e doloroso da cui fu tratto un film mediocre (nonostante la regia di Patrice Chéreau e lo scandalo sollevato dalle scene di sesso). L’io narrante del libro – uno scrittore di mezza età – fa la sua autocoscienza in una riflessione durante la notte in cui si prepara a lasciare la moglie e i due figli. Un libro teso e sincero, che vi consiglio ancora oggi. Molte cose nel libro sono onestamente rivelatrici e (penso) comuni a molti uomini, anche se la maggior parte di noi non ne parla mai o raramente. Soltanto qualche citazione:
Marriage is a battle, a terrible journey, a season in hell, and a reason for living.
You don’t stop loving someone just because you hate them.
Ho pensato che questo romanzo di Marani fosse anch’esso un romanzo di introspezione maschile, ingannato dalle note di copertina (sì, sono un ingenuo, ma mi aspetterei dagli autori, se non dagli editori, un minimo di sincerità; qui siamo invece alla pubblicità ingannevole):
Ernesto, professore di lettere quarantenne che vive a Trieste, non ha un felice rapporto con le donne. Sono forse le tracce durature di un antico trauma infantile ad aver come imbrigliato i suoi sentimenti: Ernesto teme l’amore e cerca l’amicizia, che gli assicurerebbe di giungere alla tranquillità e alla serenità di un rapporto asessuato, e di sfuggire così ai drammi della passione e alla prigionia del desiderio. Ma anche agli imprevedibili fuochi dell’innamoramento è arduo rinunciare, ed ecco allora che Ernesto, dopo un matrimonio in grigio con Nadia, sua vicina di casa fin da quando erano entrambi bambini, continua la sua ricerca di donne-amiche che non possono però essere soltanto tali, e si macera in questa “voglia di sofferenza” che è “come il sangue per gli squali”. Le colleghe Laura e Marisa, l’ex allieva Lucia, e infine la slovena Jasna, che riassume in sé i caratteri della classica donna fatale: sono le tappe di una ironica, o forse tragicomica via crucis lungo la quale incontriamo anche un misterioso dottor Parovel, ambiguo maestro di immoralità. Un cammino che dovrà necessariamente portare a una mèta in cui l’intera vita di Ernesto sarà rivista e riprogettata. Con una sorpresa finale.
Ecco, il romanzo non è questo. Certo, si svolge a Trieste e i personaggi hanno quei nomi. Ma il romanzo parla d’altro, a qualunque livello lo si guardi.
Marani, di cui avevo già letto L’interprete, scrive indubbiamente bene, con una scrittura un po’ all’antica. Il suo monologo interiore, che privilegia il discorso indiretto e l’imperfetto, ricorda più Svevo che Joyce. Ma i personaggi, protagonista compreso, sono poco credibili, bassorilievi piuttosto che statue a tutto tondo. Molto bella invece la Trieste di qualche anno fa (non quella in cui Berlusconi fa capolino dietro le colonne di Piazza Unità d’Italia) che mi sembra la vera protagonista del libro. Tanto da farmi venire voglia di leggere il suo A Trieste con Svevo.
Qualche bella pagina, comunque, nel libro c’è:
Ma questa volta Ernesto non voleva cadere nell’ovvio gioco dell’innamoramento. Da anni si allenava a un sentimento ponderato e finalmente si sentiva pronto a sperimentarlo. Avrebbe tessuto attorno alla nuova collega un ricamo di attenzioni, gentilezze, spiritosaggini, affettuosità. Fino a farla librare in aria per l’emozione e l’aspettativa, come gli riusciva sempre così bene. Poi avrebbe reciso lui il filo che la tratteneva a sé e sarebbe restato a guardarla mentre volava via, non avuta, non amata, sconosciuta. Ma per una volta ancora tutta intera. Perché era questo che dell’amore lasciava sgomento Ernesto. Che alla fine tutto fosse frantumato, ridotto in cenere e non se ne potesse salvare nulla, neppure una reliquia da tenere nello scrigno della memoria. Dopo la donna da amare e quella da temere, Ernesto aveva escogitato la donna da perdere. Dopotutto, niente era meno impegnativo che perdere: era l’unica cosa che gli riuscisse tanto spontaneamente. Non voleva più abbandonarsi alla razzia. Ora era venuto il tempo dell’innamoramento ecologico. Si sentì come uno di quei pescatori che ambiscono solo a farsi scattare una foto accanto alla preda ancora guizzante e poi la liberano nell’ acqua da cui l’hanno strappata. [pp. 91-92]
Anche questo dell’amore non gli dava pace. Che durasse dieci anni o poche settimane, alla fine sulla bilancia del tempo pesava uguale. La durata non era una garanzia di solidità. E poi, quel che durava non era mai l’amore ma l’accanimento di Ernesto a tenerlo in vita. Per questo aveva voluto che con Marisa fosse tutto diverso. Con lei non si sarebbe mai avventurato sulla via insicura dell’amore. Si voleva trattenere all’amicizia. Ma lui stesso di quella parola non sapeva bene cosa intendere. Immaginava un affetto gioioso, che non lo facesse schiavo e che lo risparmiasse dalla dipendenza. Lealtà soprattutto chiedeva. Che ognuno dichiarasse costantemente all’altro la misura del proprio sentimento, cosicché non ci fosse mai squilibrio e a lui poi non avanzasse quell’attaccamento di troppo, così svelto a trasformarsi in dolore. Migliorare per lei, questo voleva. Ma già sapeva che un perfezionamento così evoluto equivaleva a un tradimento di sé. Migliorarsi significava alienarsi. Solo lontano da sé Ernesto poteva essere migliore. Eppure questo sognava, di conservarsi fedele a una qualsiasi promessa e almeno lui immutabile. Di tutte le cose del mondo, proprio il mutamento gli era insopportabile. Che nulla restasse come lui lo disponeva e bisognasse continuamente riparare, proteggere e infine abbandonare ai morsi del tempo ogni più caro rifugio. Che il gioco feroce dell’amore non avesse regole fisse. [111-112]