Piccolo, Francesco (2008). La separazione del maschio. Torino: Einaudi. 2008.

Sono stato sollecitato a leggere questo libro dalla recensione di Carlo V., che ha avuto il merito di riportare questa citazione, che ho subito trovato onesta e profondamente vera:
Sono convinto, oltretutto, che le persone davvero libere, uomini e donne, che sono capaci di concedere e cedere a tentazioni, che vivono passioni e amano il sesso, per la maggior parte sono belli che sono diventati belli, che hanno acquistato una loro bellezza, alle volte anche oggettiva, ma che non sono nati così, erano brutti (o quantomeno: non belli) e hanno faticato e sofferto da bambini o adolescenti e adesso è rimasto loro dentro quel desiderio di rivalsa, di riscatto, come se la bellezza così come è apparsa possa svanire e devono approfittarne per conquistare e godere. A me sembra di essere stato così, e di aver incontrato e amato e desiderato soltanto persone così. [p. 185]
Quando ho letto questa frase ho pensato di voler leggere il libro e che mi sarebbe piaciuto. E così è stato.
So che è un romanzo controverso, che ha suscitato reazioni opposte (c’è chi ha gridato allo schifo e chi al capolavoro) e dubbi e perplessità emergono dalla stessa recensione di Carlo. Penso che in parte dipenda dal fatto che il romanzo è, come dire, scandito da 4 temi che si rincorrono e si alternano:
- la dimensione di introspezione maschile, di cui ho parlato in un post precedente;
- il rapporto dell’io narrante con la figlia Beatrice, che qualche volta fa venire in mente quello che ha con la figlia il protagonista di Caos calmo di Sandro Veronesi (un altro romanzo in cui emerge la dimensione dell’introspezione maschile);
- le descrizioni, piuttosto crude (ed è un eufemismo) dei rapporti sessuali dell’io narrante con le sue donne (mi limito a dire, su questo, che queste scene – non necessariamente il modo in cui sono descritte – sono funzionali alla narrazione e all’approfondimento della figura e della psicologia del protagonista);
- una serie di considerazioni di costume, che vanno dal cacao sul cappuccino alla persistenza del voltaren, tutte divertenti e godibilissime e che mi ricordano il Francesco Piccolo che ho conosciuto per primo, quello che teneva una rubrica pressoché fissa su Diario.
A me interessa qui parlare soltanto della prima dimensione. Il protagonista del libro è poligamo (“In realtà, non avevo affatto più vite parallele, ma una, complessa e articolata, modulata in molti segmenti che non sempre comunicavano tra loro”). Non se ne compiace particolarmente (anzi, sa che questi suoi comportamenti sono “delitti”, anche se poi dice alla moglie, penso onestamente: “Io non ti ho mai tradita”). Forse è questo che dà fastidio. Siamo pronti ad ammettere e tollerare e rispettare l’esistenza e le scelte di vita dei gay, non dei poligami. Al massimo discettiamo dei film (e della vita) di Truffaut, ma ci dà fastidio che un maschio quarantenne italiano contemporaneo possa argomentare a favore delle sue scelte: poligame, appunto, ma non intese come vite parallele, ma come scelta di “bilanciamento” della propria vita. Piccolo non ci chiede di schierarci, ma di riflettere. Mi pare difficile che siano molti i lettori che si identificano pienamente con il protagonista del romanzo. Non io, tanto per cominciare. Ma è un libro che fa pensare, e questo obiettivo, se se lo poneva (come penso), Piccolo l’ha raggiunto. Un libro che parla d’amore, e molte delle riflessioni del protagonista sono importanti e vere, anche se ci sentiamo (più o meno) distanti da lui. Sicuramente un romanzo bello e coraggioso, secondo me, e ve lo consiglio.
Le citazioni da riportare sarebbe troppe, e mi limito perciò a qualche assaggio.
Ho aspettato, ho camminato. Forse ho deciso, senza mai ripensare a quello che avevo visto […] che tutto era sotto controllo, che ciò che era successo a Teresa assomigliava a ciò che succedeva a me e se assomigliava a ciò che succedeva a me non poteva essere terribile. Teresa mi amava. E scopava con un altro.
Non fa niente.
Ecco cosa ho pensato: non fa niente. [p. 116]
Anche perché la novità è senz’altro faticosa, ma soprattutto è il punto più lontano dalla sincerità. Essere una persona che l’altro non conosce significa fare fatica per farsi conoscere nel modo piti preciso (nel modo migliore, anche), quindi fare teatro di sé, mettersi in mostra, essere frettolosi riguardo a preferenze (io sono fatto cosi, a me piacciono queste cose) – insieme a quella tendenza imbecille alla condivisione che viene spontanea (succede anche a me, io sono uguale a te) per cui tendi a conteggiare la quantità di somiglianze, a dare importanza a ogni coincidenza buona; cosi smorzi l’importanza delle differenze. Un modo contrario di procedere rispetto alla convivenza (o alle lunghe relazioni), dove le differenze vengono sottolineate per non vederle soccombere: in una conoscenza in atto, la propria personalità fa finta di venir fuori tutta il più presto possibile, ma invece, mentre sembra spontanea, è controllata, guidata, smorzata, instradata nel binario più conveniente. Un amore lungo ti rilassa, fa in modo che ti abbandoni a essere come sei; questa è l’intimità; la verità. [pp. 135-136]
Anche io sono cosi: voglio continuare ad amare tutte le persone che amo, nessuno deve fare niente per me, nessuno deve dimostrarmi niente. Deve amarmi, tutto qui.
La maggior parte del tempo degli amanti, dell’attenzione delle persone, è occupato dalla preoccupazione che la persona amata non ami qualcun altro. Non che ami me, ma che non ami altri. Questo a me è sempre sembrato sia impreciso, sia troppo poco. Se Teresa, quando si sveglia la mattina, ha negli occhi il suo amore per me, non voglio dire che non ha importanza se ama anche qualcun altro, non voglio arrivare a sostenere questo, se altri lo sentono forzato, ma voglio almeno dire che mi basta. E vorrei che bastasse anche a lei il mio amore, ho sempre voluto questo. So che è difficile avere questo pensiero in una coppia, ma la verità è che è l’unico pensiero sensato. E semplice. [p. 138]
È il mio modo di bilanciare e controllare ogni cosa. Tutta la mia vita è composta da una quantità di eventi contemporanei che sono un baluardo contro qualsiasi assoluto. Non ho mai dato in mano a nessuno nemmeno il destino di una sola giornata – ma l’ho sempre affidato a più mani. Se mi innamoro, continuo ad amare e a scopare con altre. In questo modo, l’innamoramento è più sopportabile. In questo modo, la vita è più sopportabile, sono più sopportabili i dolori, le emozioni, le giornate difficili, le cattive notizie. Sono più sopportabili le separazioni e perfino i ricongiungimenti. E il mio modo di vivere, è la mia difesa contro tutto, perfino contro un eccesso di felicità.
È come se avessi fondato una specie di flusso continuo, di cui si è persa l’origine, e in questo modo nulla comincia e nulla finisce. Se uno riesce a spalmare questa frammentazione su tutta la propria vita, allora poi riesce a fare sempre in modo di vivere su una bilancia, quando c’è una cosa brutta da una parte ce n’è una bella dall’altra, e la varietà rende tutto più sopportabile.
[…]
Se la poligamia serve a soffrire bene, a bilanciare di continuo le cose della vita, forse anche i figli molteplici sarebbero stati necessari. Non è successo. Questa è stata l’unica pecca nella mia vita poligamica. [pp. 172-173]
Vista cosi, la vita, attraverso un percorso giusto e dedito alla ricerca della perfezione, è davvero e inevitabilmente una costante infelicità interrotta da sprazzi di felicità, quando una giornata è buona, quando un lavoro è portato a compimento in modo positivo, quando una scopata è come ti piace, quando dei giorni sono come li avevi sognati. Per il resto, è una insoddisfazione, una delusione sottile contro la quale cerchi di combattere, ma alla fine soccombi. In questa prospettiva, un amore fatto di tradimenti grandi e piccoli, di distrazioni, di egoismi e di delusioni, sembra un amore fallito.
Beh, non lo è. Tutti gli amori sono cosi – parlo di tutti gli amori veri. Sono fatti di cose buone e cose cattive, di momenti belli, noiosi, sconfortanti, allegri, tristi. Sono fatti di tutto. E quello che ho capito con molta sorpresa in tutti questi anni: mai avremmo immaginato che una vita coniugale fosse cosi mossa, cosi piena di cambiamenti, di segmenti, di periodi di durata variabile. Quando eravamo andati a vivere insieme, io e Teresa, ero convinto che una convivenza fondasse una vita tutta uguale, costante e identica a quella che immaginavo o almeno a quella che veniva determinata nei primi mesi. Invece ho scoperto che vivere insieme è una sequenza di molte fasi, composte di segmenti brevi e lunghi, completamente diverse. Che cambiavano proporzioni, sentimenti e stati della vita quotidiana in modo continuo e a volte vertiginoso. Di questa vitalità lei costituiva la parte fondamentale, perché era attiva e attenta – forse perché custodiva la parte buona. Eppure quando questa attenzione era provocata dal senso di perfezione, allora tutta l’impalcatura si rivelava fragile e insensata: perché non riconosceva legittimità alla fatica, ai passaggi dolorosi, alla frammentarietà e ai percorsi tortuosi.
[…] Da un certo punto in poi, in un opera creativa o in un amore, la differenza tra coloro che stanno dentro e coloro che guardano da fuori consiste nel fatto che il motivo per cui è cominciata una storia da raccontare o una storia d’amore è un motivo ormai irrintracciabile, di cui comunque non ti occupi più: cerchi di capire come fare andar meglio le cose, quanto ami, quanto non ami, cosa succede, ma l’idea oggettiva del fatto che questo amore è nato quando è nato, quello non è più un problema; allo stesso modo come nei film non è l’idea oggettiva di quella storia che vale, ma quanto riesci a riproporre al meglio l’idea che hai di quella storia. Quindi non hai più possibilità di stare fuori, di giudicare da fuori. Ti manca ormai la possibilità di comprendere se tu e Teresa eravate fatti l’uno per l’altra, ti manca cioè la possibilità di vedere te e Teresa prima che l’amore cominciasse. Quel prima, ormai, è irrintracciabile.
Per questo motivo, avrei voluto dire a Teresa, due persone che si amano non devono lasciarsi mai. Per nessun motivo. Devono solo camminare e camminare. Essere infelici, in attesa che tornino i momenti di felicità; o felici, sapendo che torneranno i momenti di infelicità. [pp. 188-189]