L’imprinting e Lucio Dalla

Secondo il Vocabolario Treccani, l’imprintingëmprìnti› sostantivo inglese [propriamente «impressione, stampa», derivato di (to) imprint «stampare, imprimere»], usato in italiano al maschile – In etologia, particolare forma di apprendimento precoce, irreversibile o comunque durevole, di alcune specie animali, per il quale, per esempio, l’individuo, nelle primissime ore della vita, riconosce e segue i suoi genitori, oppure un loro surrogato, che può essere rappresentato da individui di altra specie o anche da oggetti inanimati, purché in movimento, che cadano per primi nel suo campo di osservazione. Il termine è talvolta tradotto in italiano con impressione o, più raramente, con conio.

Contrariamente a quanto credevo io (e immagino molti con me) l’imprinting non è stato scoperto da Konrad Lorenz, che pure ne parla ne L’anello di Re Salomone in una narrazione indimenticabile di cui è protagonista l’oca Martina.

Molte cose importanti devono accadere in una di queste uova di oca selvatica: accostandovi l’orecchio si ode dentro scricchiolare e muoversi qualcosa, e poi, ecco, si percepisce chiaramente un flebile, flautato “piip”. Dopo ci vuole ancora un’ora perché si apra un buchino, attraverso il quale si scorge la prima cosa visibile del nuovo uccello: la punta del becco, con sopra il cosiddetto dente dell’uovo; il movimento del capo con cui il dente, dal di dentro, viene spinto contro il guscio dell’uovo, provoca non solo la rottura del guscio, ma anche uno spostamento dell’uccellino che vi giace dentro tutto avvoltolato su se stesso, e che lentamente gira all’indietro attorno all’asse longitudinale dell’uovo. Il dente si muove dunque dentro il guscio lungo un “parallelo” sul quale apre una fila ininterrotta di buchini; alla fine, quando il cerchio si è chiuso, l’uccello con un movimento di estensione del collo fa sollevare l’intera calotta del guscio.
La mia prima ochetta selvatica era dunque venuta al mondo, e io attendevo che, sotto il termoforo che sostituiva il tiepido ventre materno, divenisse abbastanza robusta per poter ergere il capo e muovere alcuni passetti.
La testina inclinata, essa mi guardava con i suoi grossi occhi scuri; o meglio, con un solo occhio, perché, come la maggior parte degli uccelli, anche l’oca selvatica si serve di un solo occhio quando vuole ottenere una visione molto netta. A lungo, molto a lungo mi fissò l’ochetta, e quando io feci un movimento e pronunciai una parolina, quel minuscolo essere improvvisamente allentò la tensione e “mi salutò”: col collo ben teso e la nuca appiattita, pronunciò rapidamente il verso con cui le oche selvatiche esprimono i loro stati d’animo, e che nei piccoli suona come un tenero, fervido pigolio. Il suo saluto era identico, preciso identico a quello di un’oca selvatica adulta, identico al saluto che essa avrebbe pronunciato migliaia e migliaia di volte nel corso della vita; ed era come se anche lei mi avesse già salutato migliaia e migliaia di volte nello stesso identico modo. Neppure il migliore conoscitore di questo cerimoniale avrebbe potuto comprendere che quello era il primo saluto della sua vita. E io non sapevo ancora quali gravosi doveri mi ero assunto per il fatto di aver subito l’ispezione del suo occhietto scuro e di aver provocato con una parola imprevidente la prima cerimonia del saluto.
La mia intenzione era infatti di affidare, una volta che fossero usciti dall’uovo, anche i piccoli covati dalla tacchina alla summenzionata oca domestica […]. Portai l’uccellino in giardino, […i]nfilai la mano sotto il ventre tiepido e morbido della vecchia e vi sistemai ben bene la piccina, convinto di aver assolto il mio compito. E invece mi restava ancora molto da imparare. Trascorsero pochi minuti, durante i quali meditavo soddisfatto davanti al nido dell’oca, quando risuonò da sotto la biancona un flebile pigolio interrogativo: “ vivivivivi”. In tono pratico e tranquillizzante la vecchia oca rispose con lo stesso verso, solo espresso nella sua tonalità: “gangangangang”. Ma, invece di tranquillizzarsi come avrebbe fatto ogni ochetta ragionevole, la mia rapidamente sbucò fuori da sotto le tiepide piume, guardò su con un solo occhio verso il viso della madre adottiva e poi si allontanò singhiozzando: “fip… fip… fip…”. Così pressappoco suona il lamento delle ochette abbandonate: tutti i piccoli uccelli fuggiti dal nido possiedono, in una forma o nell’altra, un lamento di questo genere. La povera piccina se ne stava lì tutta tesa, continuando a lamentarsi ad alta voce, a metà strada fra me e l’oca. Allora io feci un lieve movimento e subito il pianto si placò: la piccola mi venne incontro col collo proteso, salutandomi con il più fervido: “vivivivivi”. Era proprio commovente, ma io non avevo intenzione di fungere da madre oca. Presi dunque la piccola, la ficcai nuovamente sotto il ventre della vecchia e me ne andai. Non avevo fatto dieci passi che udii dietro di me: “fip… fip… fip…”: la poveretta mi correva dietro disperatamente.
[…]
Avrebbe commosso un sasso la povera piccina, con quel modo di corrermi dietro piangendo con la sua vocina rotta dai singhiozzi, incespicando e rotolando, eppure con velocità sorprendente e con una decisione dal significato inequivocabile:
ero io sua madre, non la bianca oca domestica! Sospirando mi presi la mia piccola croce e la riportai in casa. Pesava allora non più di cento grammi, ma sapevo benissimo come mi sarebbe stata greve, quanta dura fatica e quanto tempo mi sarebbe costato portarla degnamente.
Mi comportai come se fossi stato io ad adottare l’ochetta, non lei me, e la piccola fu solennemente battezzata col nome di Martina.

In realtà, secondo l’Enciclopedia Treccani, il fenomeno è stato descritto per la prima volta da D.A. Spalding nel 1873 e soltanto “riscoperto” da Lorenz, ancorché in modo così colorito.

Tutto questo per raccontare che il mio imprinting con Lucio Dalla (morto ieri, 1° marzo 2012), cioè la prima volta che ricordo di averlo ascoltato e notato, è stato con una canzone molto diversa da quelle che poi ne avrebbero segnato il successo. Era il 1966 e la canzone si intitolava Quand’ero soldato. Anche in quegli anni in cui in Italia spirava un vento di contestazione e sperimentazione musicale, quella canzone sembrò alle mie orecchie curiose e aperte a ogni novità degna di nota per il modo in cui era cantata e arrangiata, oltre che per le parole che parlavano della naja in maniera fortemente ironica (il testo è di Sergio Bardotti, la musica di Gian Franco Reverberi):

Quando ero soldato
allora sì che era bella la vita anche per me
15 mesi senza i problemi di casa mia
quando ero soldato trattato bene meglio di un re
senza pagar mai una lira di tasca mia

e con le ragazze le sole che poi non ti chiedano
un matrimonio …

Quando ero soldato beato me
la guerra non c’era adesso c’è
l’han dichiarata tutti d’accordo contro di me
quando ero soldato vivevo tranquillo
ora son tanti a bombardare la vita mia.

In questa esecuzione dell’epoca (come si usava allora, fintamente dal vivo ma rigorosamente in playback), oltre a un giovane ma già marpionissimo Gianni Boncompagni (allora presentatore di Bandiera Gialla il sabato pomeriggio), si riconosce Luigi Tenco.

Lo stesso anno, Dalla era andato a Sanremo e aveva presentato Paff….bum!, sempre della coppia Bardotti-Reverberi, ma molto meno bella. All’epoca a Sanremo succedeva (o forse era la regola) che le canzoni fossero presentate in doppia esecuzione, da una coppia di esecutori italiani o più spesso in abbinamento con qualche star straniera: venne persino Louis Armstrong, mi pare, ma certamente Wilson Pickett che cantò Un avventura con Lucio Battisti. L’abbinamento al Paff….bum! di Dalla furono gli Yardbirds (di cui abbiamo parlato più volte, qui, qui, qui e qui). Erano una leggenda già nel 1996, noti per avere due chitarre soliste in formazione (Jeff Beck e Jimmy Page, scusate se è poco), e per essere, un paio d’anni dopo, il gruppo che “gemmò” i Led Zeppelin. L’ineffabile Mike Buongiorno, presentandoli, ne tradusse il nome in Gallinacci, come racconta Adele Gallotti su Stampa Sera del 29 gennaio 1966:

Sanremo, sabato sera. Nefasta è stata per la pallida Carla Puccini – denutrita da tre giorni di quasi digiuno, dovuti a delle misteriose pillole che le tolgono l’appetito – il titolo dell’ultima canzone in gara ieri sera Paff… bum. Al «bum» Carla è crollata in terra, mentre Mike – per questa volta umorista – spiegava che “yard-birds” vuole dire gallinacci.

Ecco l’esecuzione sanremese, questa volta effettivamente live, anche se priva di video:

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