John Keats e la Negative Capability

“Negative Capability, that is, when a man is capable of being in uncertainties, mysteries, doubts, without any irritable reaching after fact and reason. […]  with a great poet the sense of Beauty overcomes every other consideration, or rather obliterates all consideration.” (lettera ai fratelli del 21dicembre 1817)

Di solito, questa “teoria” di Keats viene liquidata con un’alzata di spalle, o poco più: il poeta, e il poeta romantico soprattutto, non ha un’epistemologia; non cerca la verità scientifica o filosofica. Non affronta i problemi per risolverli, ma per esplorarli; anzi, per l’artista che alcuni problemi non ammettano soluzione è meglio.

Sulla stessa linea di pensiero è la teoria della Mansion of many apartments che Keats formulò qualche mese più tardi in una lettera a John Hamilton Reynolds (18 maggio 1818):

I compare human life to a large Mansion of Many Apartments, two of which I can only describe, the doors the rest being as yet shut upon me – The first we step into we call the infant or thoughtless Chamber, in which we remain as long as we do not think – We remain there a long while, and notwithstanding the doors of the second Chamber remain wide open, showing a bright appearance, we care not to hasten to it; but are at length imperceptibly impelled by awakening of the thinking principle – within us – we no sooner get into the second Chamber, which I shall call the Chamber of Maiden-Thought, than we become intoxicated with the light and the atmosphere, we see nothing but pleasant wonders, and think of delaying there for ever in delight.

La capacità negativa è apparentata con il concetto heideggeriano di Gelassenheit. Nella sua conferenza sull’Abbandono, Heidegger adopera il termine Gelassenheit, che, come spesso accade nell’ultima fase del suo pensiero, pone significativi problemi di traduzione. Il richiamo è a un atteggiamento speculativo di fronte alla realtà, che consiste in un raccoglimento (cui allude il prefisso tedesco ge-), che lascia-essere (lassen, come verbo, indica appunto l’atteggiamento del lasciare, come l’inglese to let) le cose così come sono, senza intervenire. È un atteggiamento etico, oltre che epistemologico, che implica:

  • l’abbandono alle cose, che consiste in un atteggiamento di pensiero che, rifiutando il pensiero calcolante proprio della tecnica, ri-medita il senso profondo della relazione fra l’uomo e l’ente, fino a cogliere quel senso che nel mondo della tecnica si cela, che è la verità dell’essere (considerata come aletheia, cioè come verità celata, ri-velazione).
  • l’apertura al mistero, che consiste nel mantenersi aperti, mediante questa meditazione sulla tecnica, alla possibilità di una nuova manifestazione della verità dell’essere. (adattato da Wikipedia)

Vicolo della neve

Fino a una certa età non ho viaggiato molto. Si usava molto meno di adesso, e suppongo che la mia famiglia fosse legata ad abitudini d’altri tempi. Andavo dai nonni in campagna per molti mesi all’anno, almeno fino a quando non ho avuto l’età per andare a scuola. In estate si andava in villeggiatura, stanziali, per un mese al mare, affittando una casa. Con pochissime eccezioni (un anno mi hanno portato in montagna, disastrosamente, perché mi sono ammalato sùbito: era – si diceva – un bambino bisognoso di mare), sempre nello stesso posto, a Milano Marittima. Anzi sempre allo stesso bagno (a Roma si chiamano stabilimenti), il Bagno Gino, vicino al molo del porto canale. Sono di carnagione chiara e i solari non erano quelli di adesso, e io passavo gran parte del tempo tra rischio di scottatura ed eritema. I solari erano untuosi e la sabbia finissima dell’Adriatico ci si appiccicava sopra, peggiorando l’eritema. La odio tuttora, la sabbia.

Sono andato per la prima volta all’estero (se si escludono la Svizzera di Lugano e l’immancabile San Marino delle giornate di maltempo a Milano Marittima) quando sono andato a Dublino nel 1967.

Anche il Sud era remoto: a Roma ci sono andato per la prima volta nel settembre del 1964. Il Sud l’ho scoperto alla fine degli anni Sessanta, quando – rito di passaggio all’età adulta – sono stato ammesso ai viaggetti di esplorazione che mio padre e i miei zii facevano ai primi di settembre di ogni anno. Era una specie di rituale: si partiva la mattina prestissimo, per non soffrire troppo il caldo (niente aria condizionata sulle macchine di allora, anche se lo zio aveva sempre dei modelli di lusso, dalla Giulietta di quando ero piccolissimo alla BMW serie 7 che aveva quando è morto, a metà degli anni Novanta). Ci si fermava a pranzo a Orvieto, dove si mangiava in un posto di cui ho scordato il nome e si visitava il Duomo. Per dormire si puntava a Salerno, perché Napoli era una città troppo caotica per entrarci, salvo che per passare dall’Autostrada del sole alla Napoli-Pompei-Salerno. E la sera, a Salerno, si andava a mangiare a Vicolo della neve.

La pizzeria era in un vicolo del centro storico. Già arrivarci mi sembrava un’avventura, perché non ero abituato ai vicoletti. Il posto era molto piccolo. Una pizza così non l’avevo mangiata mai, non aveva quasi nessun punto di contatto con quella che si poteva mangiare a Milano con gli amici. Ma la vera scoperta erano le altre cose che si potevano mangiare lì, e che per me erano scoperte assolute: i polpetti alla luciana, la ciambotta, i peperoni, le polpette al sugo, baccalà e patate. E soprattutto la parmigiana di melanzane.

Mi è venuta in mente oggi, mangiando riscaldata quella preparata ieri (ognuno ha le madeleine adeguate alla propria levatura artistica e alla propria classe sociale, evidentemente), perché ai miei che avrebbero voluto una porzione di parmigiana appena fatta o comunque bollente, il cameriere di Vicolo della neve spiegò pazientemente, ma con una punta di disprezzo per quei poveri polentoni, che la parmigiana è piatto estivo, che deve riposare e che dà il meglio di sé a temperatura ambiente (cioè tiepida, perché nella saletta della pizzeria c’era un caldo pauroso).

Non ci sono più tornato. Ma a giudicare da questa recensione il posto è ancora quasi intatto e tuttora consigliabile.

La storia dell’Antica Pizzeria del Vicolo della Neve si conosce con un po’ di fortuna da ogni salernitano dotato di un pizzico di memoria storica. Si dice che il “Vicolo” esistesse già nel Trecento, ai tempi del dominio aragonese. Di sicuro allora non faceva la pizza ma chissà quali altre leccornie. Più attendibili le notizie che ne fanno risalire le origini al 1700. La pizzeria prende il nome dal vicolo dove, più di un secolo fa, si vendeva la neve per rinfrescare le cantine. Il cuore della vecchia e millenaria Salerno si conserva, dunque, in questo locale che non ha fatto alcuna concessione alla modernità ma ha tenuto fede alla tradizione della cucina casalinga e all’arte della pizza. Il rito serale della visita al Vicolo della Neve resta per molti salernitani una abitudine irrinunciabile. Il rischio di diventare un posto per soli turisti è svanito, il Vicolo non lo corre. Pur con il passar del tempo, il Vicolo della Neve ha tenuto fede alle regole della sua inimitabile cucina tramandate da “Sciacquariello” e “Peppiniello”, memorabili artefici del successo di questo locale, a coloro che oggi, in quella stessa cucina, preparano, condiscono e infornano pizze negli anni hanno deliziato illustri nomi della politica, del giornalismo, dell’arte e del teatro. Amavano la pizza margherita e il calzone con la scarola Enrico Caruso e Titta Ruffo e dopo di loro hanno fatto tappa al “Vicolo” tutti gli artisti che sono passati per il Teatro Verdi. Della pizza napoletana andavano pazzi Ministri, Deputati, Senatori e Sottosegretari. Da Vittorio Emanuele Orlando a Francesco Spirito, da Giovanni Amendola a Errico De Marinis e Adolfo Cilento. Il libro dei ricordi è pieno di pagine. Una vera storia d’amore è, però, quella tra Il “Vicolo” e gli artisti salernitani. Il poeta Alfonso Gatto era un ospite abituale e al Vicolo della Neve ha pure dedicato una splendida poesia. Il pittore Clemente Tafuri ha dipinto le pareti della pizzeria. Quel che si vede della sua rappresentazione dell’Inferno è solo una piccola parte della preziosa opera che appartiene ora alla famiglia Carro, vecchi proprietari del Vicolo. Siamo insomma in uno dei pochi luoghi storici della città, gestito a partire dagli anni ’70 da Matteo Bonavita. Il rito è sempre uguale, con i camerieri che richiamano ai loro tavoli i clienti appena entrati: appena seduti sui tipici piatti in rame sempre bollenti arrivano baccalà e patate, polpo alla luciana, scarola imbottia, peperoni ripieni, carciofi arrostiti, pasta e fagioli, la mitica ciambotta, la milza, le braciole di cotica, le polpette al sugo. E poi ancora l’infinita varietà di pizze assolutamente tipiche nell’impasto, il calzone con la scarola o il ripieno di ricotta e salame. Chiusura con i dolci della tradizione napoletana. Buone bottiglie di aglianico al prezzo giusto.

Alfonso Sarno

Della poesia di Alfonso Gatto ho trovato soltanto questo (non so se è completa):

…Straniero, se passi a Salerno
in una notte d’inverno
di luna a mezzo febbraio,
se vedi il bianco fornaio
che batte le mani sul tondo
di quella faccia cresciuta,
ascolta venire dal fondo
degli anni la voce perduta.
L’odore di menta t’invita,
la tavola bianca, la stanza
confusa dell’abbondanza…

…in quell’odore di forno
per qualche sera la vita
si scalda con le sue mani
a quegli accordi lontani
del tempo che fu…

Rane e patate

E così, il 2008, anno internazionale della rana è anche l’anno internazionale della patata.

Del resto, rane e patate sono associate, oltre che sotto il profilo gastronomico, anche sotto quello dell’immaginario erotico, come testimoniano una canzone di Enzo Jannacci e Massimo Boldi (giustamente dimenticata) e la celeberrima pubblicità di Rocco Siffredi.

Amooore… nella velocità  de zito zito de zito zito non parlare, zito…
Amooore… nella difficoltà  della velocità  de zito zito, de zito zito…

non parlare… va bene… allora… sempre zito…

Ohhhh carah!!!!

Sei repellente Lisa
Però mi piaci di più

Onnipotente Elisa
però mi piaci cosà

Sei sciabollenta Elisa
però mi piaci cosà

Sei repellente Elisa
però mi piaci di più di più di più

perché perché
con te con te

io faccio:

blulburlbulbrlburblurlbrlbu

Zan zan zan, zan le belle rane, zan le belle rane zan!

YOHUUUU!!!

Zan zan zan, zan le belle rane, zan le belle rane zan!

YOHUUAUUAU!!!

Zan zan zan, zan le belle rane, zan le belle rane zan!
Zan zan zan, zan le belle rane, zan le belle rane zan!

btetpilipiatitaritulità

Zan zan zan, zan le belle rane, zan le belle rane zan!
Zan zan zan, zan le belle rane, zan le belle rane zan!
Zan zan zan, zan le belle rane, zan le belle rane zan!

Ohhhh carah!!!!

Sei repellente Elisa
però mi piaci cosà

Sputi il budino Elisa
però mi piaci cosà

Sei sciabollenta Elisa
però mi piaci cosà¬

Che tanfamento Elisa
però mi piaci di più di più di più

perché perché
con te con te

io faccio:

blulburlbulbrlburblurlbrlbu

Zan zan zan, zan le belle rane, zan le belle rane zan!

YOHUUUU!!!

Zan zan zan, zan le belle rane, zan le belle rane zan!

HUH HUHU!!

Zan zan zan, zan le belle rane, zan le belle rane zan!

L’anno della rana

Il 2008 è l’anno internazionale della rana. Aderisco con entusiasmo.

Aren’t them cute?

The Great Gatsby

Fitzgerald, Francis Scott (1926). The Great Gatsby. London: Penguin. 1998.

Sono un lettore onnivoro, ormai dovreste averlo capito. Ma ho delle lacune. Nessuno è completo, a tutto tondo, e comunque la simmetria non mi piace. Ci sono libri che uno non legge per antipatia istintiva, altri che vengono rinviati a tempi migliori, altri scartati proprio perché alla moda o comunque obbligatori. Fitzgerald mi era antipatico perché adorato da troppi, e perché collegato agli anni 20 di maniera dei balletti televisivi (Vecchia America dei tempi di Rodolfo Valentino, puah!).

Naturalmente, per quanto uno possa avere fiducia nel proprio istinto o nel proprio fiuto, il rischio di sbagliare è grande. O meglio, il rischio di sbagliare non è elevato, ma quando si sbaglia si sbaglia di grosso. Questo è il caso del romanzo di Fitzgerald: tutti dicono che è un capolavoro e lo è.

Mi aspettavo un romanzo americano di inizio secolo: vero, diretto, ma un po’ ingenuo. Il mio professore di greco, Pozzi, che era un cultore di Vico, avrebbe detto: Eschilo, non Sofocle né Euripide. Invece Fitzgerald è molto Euripide. Forse perché gli anni 20 non sono un’aurora ma un crepuscolo, o forse semplicemente perché Fitzgerald è uno scrittore colto, molto consapevole dei suoi mezzi. Il suo romanzo è studiato parola per parola, controllatissimo. Paradossalmente è molto più nativo, eschileo, The Catcher in the Rye.

Potrei proporvi molte letture del romanzo, che è molto complesso e molto stratificato (se fosse una torta, sarebbe una millefoglie). E anche molte citazioni. Ma vi toglierei il piacere di una lettura, o di una rilettura, e quindi mi limiterò a una sola citazione, che compare nelle ultime righe, ed è molto vicina ai miei umori di questi giorni:

Gatsby believed in the green light, the orgastic future that year by year recedes before us. It eluded us then, but that’s no matter—to-morrow we will run faster, stretch out our arms farther… And one fine morning –

So we beat on, boats against the current, borne back ceaselessly into the past. (pp. 171-172)

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9 luglio 1540 – Anna di Cleves

Il 9 luglio 1540 Enrico VIII divorziava dalla sua 4ª moglie, Anna di Cleves. L’aveva impalmata il 6 gennaio dello stesso anno.

Anna era tedesca (Anna von Jülich-Kleve-Berg) e all’epoca dei fatti aveva 25 anni. Enrico VIII le fece fare un ritratto da Hans Holbein, chiedendogli esplicitamente di essere fedele al soggetto, senza imbellirlo. Eccola (pare che questa sia una copia dell’originale di Holbein).

Parecchi anni più tardi, anche Rick Wakeman le fece un ritratto, questa volta musicale, e farvelo sentire è il vero motivo di questo post.

Giò Ponti

Mi picco di essere un cultore dell’architettura moderna, anche se il mio interesse è stato tardivo. Proprio per questo la scoperta di pochi giorni fa mi brucia.

Sono passato davanti a questa casa – Milano, zona Fiera, via Domenichino 1 – pressoché quotidianamente per 6 anni, sulla strada per andare a scuola. Poi sono andato ad abitare praticamente di fronte, per altri 7 anni e mezzo. Al piano terreno abitava un mio amico. Di più, ci abitava la sorella del mio amico, la bellissima Bea.

Eppure non ho mai saputo che quella bella casa – perché gli occhi per vedere che era una signora casa, oltre che una casa signorile, ce li avevo eccome – è opera di Giò Ponti.

Questa è la scheda che ho trovato qui:

Il progetto di questo edificio, redatto da Gio Ponti ed Emilio Lancia, è caratterizzato da una pianta a L e da una torre d’angolo.
La struttura è in cemento armato e laterizi con fondazione a palafitte e solai in cemento armato con elementi in cotto. Per il rivestimento delle facciate è stato utilizzato l’intonaco rosso Terranova, ad eccezione del piano terreno e il primo piano per i quali sono state usate lastre di travertino. La decorazione è piuttosto limitata e l’architettura è stata risolta con uno straordinario rapporto tra massa materiali e colore. Ponti tenta in questo progetto di adattare gli elementi della tradizione ad un nuovo impianto, rappresentato da una nuova formula abitativa: il condominio. Gli elementi classici sono dunque intesi come fatto esclusivamente figurativo ed il loro uso è funzionale alle esigenze d’identificazione dell’utenza borghese.

L’elemento più fantasioso della struttura – quello che si allontana con un guizzo quasi gaddiano dalla rassicurante solidità borghese – è la torretta dell’ultimo piano. Raccontano le leggende (ma non so se è vero) che l’ultimo piano, torretta compresa, fosse l’abitazione di Giovanni Grazzini (1925-2001), critico cinematografico de Il corriere della sera.

Qualche altra foto trovata in rete.

Esenin Branduardo e Caparezza – La vendetta

Grazie a Il barbarico re.

Sergej Esenin (e il bardo Branduardo)

In una delle interviste con cui si conclude il volume delle Opere scelte, Hrabal dice a un certo punto che secondo lui il poeta più grande è Sergej Esenin. Io sapevo molto poco di lui, così sono andato a documentarmi.

Bellissimo, ragazzo prodigio, bisessuale, viziatissimo, travolto dalla rivoluzione russa, marito anche di Isadora Duncan, si suicida trentenne.

Ha scritto poesie bellissime.

Forse la più nota (ovviamente anche per curiosità morbosa) è quella che vergò con il suo sangue come suicide note:

Arrivederci, amico mio, arrivederci.

Mio caro, sei nel mio cuore.
Questa partenza predestinata
Promette che ci incontreremo ancora.

Arrivederci, amico mio, senza mano, senza parola
Nessun dolore e nessuna tristezza dei sopraccigli.
In questa vita, morire non è una novità,

ma, di certo, non lo è nemmeno vivere.

Indubbiamente bella. Ma io trovo ancora più bella questa, così russa, con le rape rosse e l’avena, con l’attaccamento alla nera zolla, con l’amore che che nel ricordo si decompone come una cosa viva e vegetale.

Non vagheremo più

Non vagheremo più, non schiacceremo più tra gli arbusti
le bietole rosse, non cercheremo più le tracce…
Col fascio dei tuoi capelli d’avena
per sempre sei svanita dai miei sogni.
Tenera, bella, e col vermiglio
colore delle bacche sulla pelle,
eri simile a un crepuscolo rosa.
E come neve, candida e abbagliante.
Sono appassiti i chicchi dei tuoi occhi,
il tuo nome s’è dissolto come una musica,
ma è rimasto tra le pieghe gualcite dello scialle
l’aroma di miele delle mani innocenti.
Nell’ora silenziosa, quando l’alba sul tetto
come un gatto con la zampa si lava la bocca,
odo dolcemente parlare di te
le canne acquatiche che conversano col vento.
Ah mi sussurri pure la sera blu
che tu eri una canzone e un sogno.
Chi inventò la tua flessibile figura
ha toccato con le mani un luminoso mistero.
Non vagheremo più, non schiacceremo più tra gli arbusti
le bietole rosse, non cercheremo più le tracce…
Col fascio dei tuoi capelli d’avena
per sempre sei svanita dai miei sogni.

La poesia di Esenin più nota in Italia è quella che, con qualche modifica, è stata musicata da Angelo Branduardi con il titolo Confessioni di un malandrino. La riporto qui sotto in una versione dal vivo del 1999 e con il testo della canzone e la traduzione dell’originale di Esenin.

Confessioni di un malandrino
Mi piace spettinato camminare
col capo sulle spalle come un lume
così mi diverto a rischiarare
il vostro autunno senza piume.

Mi piace che mi grandini sul viso
la fitta sassaiola dell’ingiuria,
l’agguanto solo per sentirmi vivo
al guscio della mia capigliatura.

Ed in mente mi torna quello stagno
che le canne e il muschio hanno sommerso
ed i miei che non sanno di avere
un figlio che compone versi

ma mi vogliono bene come ai campi,
alla pelle ed alla pioggia di stagione
raro sarà che chi mi offende scampi
dalle punte del forcone.

Poveri genitori contadini
certo siete invecchiati, ancor temete
il signore del cielo e gli acquitrini
genitor che mai non capirete

che oggi il vostro figliuolo è diventato
il primo fra i poeti del paese
ed ora con le scarpe verniciate
e col cilindro in testa egli cammina.

Ma sopravvive in lui la frenesia
di un vecchio mariuolo di campagna
e ad ogni insegna di macelleria
alla vacca s’inchina sua compagna.

E quando incontra un vetturino
gli torna in mente il suo concio natale
e vorrebbe la coda del ronzino
regger come strascico nuziale.

Voglio bene alla patria benché
afflitta di tronchi rugginosi
mi è caro il grugno sporco dei suini
e i rospi all’ombra sospirosi

son malato d’infanzia e di ricordi
e di freschi crepuscoli d’aprile.
Sembra quasi che l’acero si curvi
per riscaldarsi e poi dormire.

Dal nido di quell’albero le uova
per rubare salivo fino in cima
ma sarà la sua chioma sempre nuova
e dura la sua scorza come prima.

E tu mio caro amico vecchio cane
fioco e cieco ti ha reso la vecchiaia
e giri a coda bassa nel cortile
ignaro delle porte dei granai.

Mi sono cari i miei furti di monello
quando rubavo in casa un po’ di pane
e si mangiava come due fratelli
una briciola, all’uomo ed una al cane

io non sono cambiato,
il cuore ed i pensieri son gli stessi
sul tappeto magnifico dei versi
voglio dirvi qualcosa che vi tocchi.

Buonanotte, la falce della luna
si cheta mentre l’aria si fa bruna
dalla finestra mia voglio gridare
contro il disco della luna.

La notte è così tersa
qui forse anche morire non fa male
che importa se il mio spirito è perverso
e dal mio dorso penzola un fanale.

O pegaso decrepito e bonario
il tuo galoppo è ora senza scopo
e giunsi come un maestro solitario
e non canto e non celebro che i topi.

Dalla mia testa come uva matura
gocciola il folle vino delle chiome
voglio essere una gialla velatura
gonfia verso un paese senza nome.

Confessioni di un teppista
Non tutti son capaci di cantare
E non a tutti è dato di cadere
Come una mela, verso i piedi altrui.
È questa la più grande confessione
Che mai teppista possa confidarvi.
Io porto di mia voglia spettinata la testa,
Lume a petrolio sopra le mie spalle.
Mi piace nella tenebra schiarire
Lo spoglio autunno delle anime vostre;
E piace a me che mi volino contro
I sassi dell’ingiuria,
Grandine di eruttante temporale.
Solo più forte stringo fra le mani
L’ondulata mia bolla dei capelli.
È benefico allora ricordare
Il rauco ontano e l’erbeggiante stagno,
E che mi vivono da qualche parte
Padre e madre, infischiandosi del tutto
Dei miei versi, e che loro son caro
Come il campo e la carne, e quella pioggia fina
Che a primavera fa morbido il grano verde.
Per ogni grido che voi mi scagliate
Coi forconi verrebbero a scannarvi.
Poveri, poveri miei contadini!
Certo non siete diventati belli,
E Iddio temete e degli acquitrini le viscere.
Capiste almeno
Che vostro figlio in Russia
È fra i poeti il più grande!
Non si gelava il cuore a voi per lui,
Scalzo nelle pozzanghere d’autunno?
Adesso va girando egli in cilindro
E portando le scarpe di vernice.
Ma vive in lui la primigenia impronta
Del monello campagnolo.
Ad ogni mucca effigiata
Sopra le insegne di macelleria
Si inchina da lontano.
Ed incontrando in piazza i vetturini
Ricorda l’odore del letame sui campi,
Pronto, come uno strascico nuziale,
A reggere la coda dei cavalli.
Amo la patria. Amo molto la patria!
Pur con la sua tristezza di rugginoso salice.
Mi son gradevoli i grugni insudiciati dei porci,
E nel silenzio notturno l’argentina voce dei rospi.
Teneramente malato di memorie infantili
Sogno la nebbia e l’umido delle sere d’aprile.
Come a scaldarsi al rogo dell’aurora
S’è accoccolato l’acero nostro.
Ah, salendone i rami quante uova
Ho rubato dai nidi alle cornacchie!
È sempre uguale, con la verde cima?
È come un tempo forte la corteccia?
E tu, diletto,
Fedele cane pezzato!
Stridulo e cieco t’hanno fatto gli anni,
E trascinando vai per il cortile la coda penzolante,
Col fiuto immemore di porte e stalla.
Come grata ritorna quella birichinata:
Quando il tozzo di pane rubacchiato
Alla mia mamma, mordevamo a turno
Senza ribrezzo alcuno l’un dell’altro.
Sono rimasto lo stesso, con tutto il cuore.
Fioriscono gli occhi in viso
Simili a fiordalisi fra la segala.
Stuoie d’oro di versi srotolando,
Vorrei parlare a voi teneramente.
Buona notte! buona notte a voi tutti!
La falce dell’aurora ha già tinnito
Fra l’erba del crepuscolo.
Voglio stanotte pisciare a dirotto
Dalla finestra mia sopra la luna!
Azzurra luce, luce così azzurra!
In tanto azzurro anche morir non duole.
E non mi importa di sembrare un cinico
Con la lanterna attaccata al sedere!
Mio vecchio, buono ed estenuato Pégaso,
Mi serve proprio il tuo morbido trotto?
Io, severo maestro, son venuto
A celebrare i topi ed a cantarli.
L’agosto del mio capo si versa quale vino
Di capelli in tempesta.
Ho voglia d’essere la vela gialla
Verso il paese cui per mare andiamo.

Bohumir Hrabal – Opere scelte

Hrabal, Bohumir. Opere scelte. Milano: Mondadori. 2003.

I Meridiani di Mondadori sono una bellissima collana, curata (anche se oggi molto meno che agli inizi), stampata su carta sottile, maneggevole, dotata di ricchi apparati critici. Però le raccolte di opere, e ancora di più le opere complete, mi mettono sempre di fronte a un problema: se non sei un vero appassionato dell’autore o uno studioso, sei costretto (costretto perché, come è noto, mi sono dato l’imperativo di leggere i libri dalla prima all’ultima pagina, sottoponendomi di buon grado all’imperio implicito dell’autore o del curatore: un libro è informazione in formato sequenziale, e che diamine!), costretto, dicevo, a sorbirti anche gli stentati primi passi giovanili e i balbettamenti senili dell’autore, insieme alle suo opere più celebri e celebrate.

Questo accade anche con il povero Hrabal. I suoi grandi romanzi sono un piacere. Ma le prime e le ultime cose, ancorché interessanti, non reggono il confronto.

I praghesi (in realtà, Lenka, un amica de Il barbarico re, l’unica praghese che possa dire di conoscere un po’) considerano Hrabal lo scrittore nazionale (Kafka scriveva in tedesco). Tutti i grandi “romanzi” (non sono scare quotes, è che in Hrabal il concetto di romanzo è veramente tirato da tutte le parti) sono molto belli: Treni strettamente sorvegliati, Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare, Ho servito il re d’Inghilterra, La tonsura, Una solitudine troppo rumorosa.

Nel primo c’è una scena ironica e toccante – la più bella e sensuale descrizione di un orgasmo che abbia mai letto e al tempo stesso la descrizione di uno dei disastri più atroci della seconda guerra mondiale. L’essenza di Hrabal, per me, è riassunta in queste poche righe.

«Miloš Hrma» mi presentai.
«Viktoria Freie» fece un inchino e mi porse la mano.
«Viktoria Freie?» si meravigliò Hubička.
E io sapevo che questo era il messaggio, lo riconobbi, sapevo che Viktoria Freie era quella mano che consegnava il messaggio e l’informazione, ma questa notizia per ora non aveva fatto piacere al capomanovra Hubička, anzi era ancor più impallidito, quell’apparizione l’aveva proprio scombussolato, vidi che non aveva il minimo desiderio, addirittura a questa bella donna non aveva guardato né il sedere né il petto, come aveva l’abitudine di fare spogliando le donne con gli occhi. E questa tirolese, ora che guardavo, era contemporaneamente un culone e un tettone. E uscii sul marciapiede a dare il segnale a un treno merci perché passasse, lo aspergevo di luce verde. E poi, quando ritornai dentro e comunicai alla stazione seguente l’ora in cui il treno era passato dalla stazione mia, il pacchetto era sparito. E Viktoria sbadigliava e si stirava e mi faceva gli occhi dolci e io a un tratto sentii fiducia in lei, sicché quando disse che si sarebbe volentieri stesa per un’oretta aprii la porta dell’ufficio del capostazione, come aveva fatto a Dobrovice il capomanovra Hubička prima di strappare quel sofà incerato, e lei entrò e io portai il mio mantello e lo distesi sul sofà, il paralume verde spandeva una luce dolce, sentivo come nella colombaia i colombi erano tutti inquieti, addirittura più di quando il capostazione era andato via, come se si fosse infilata da loro una donnola o una faina, con tanto spavento tubavano e sbattevano le ali.
«Mi chiamo Miloš Hrma» balbettai, «sapete, mi sono tagliato le vene perché soffro di eiaculatio praecox. Ma non è vero. È vero che con la mia signorina sono sfiorito come un giglio ma detto tra noi io sono maschio davvero…»
«Voi non siete andato ancora con nessuna?» si meravigliò Viktoria,
«No, ci ho soltanto provato, e per questo vi prego di consigliarmi…»
«Davvero voi non siete ancora andato con nessuna?» era sempre più meravigliata.
«Nessuna, perché Máša, come s’infilò accanto a me dallo zio Noneman a Karlín, Máša si è messa accanto a me, ma non ci sono andato perché, come dicevo, sono sfiorito come un giglio.»
«Sicché voi davvero non siete andato con nessuna» disse e sorrise e aveva le fossette, come le aveva Máša, e i suoi occhi si ammorbidirono come se si meravigliasse per una fortuna o se avesse trovato una cosa rara, e con le dita cominciò a scarmigliarmi i capelli, come se fossi un pianoforte, e poi guardò la porta chiusa dell’ufficio e si chinò sopra il tavolo, tirò giù il lucignolo e spense con un soffio sonoro la lampada e mi cercò con le mani e in­detreggiò con me fino al sofà del capostazione e si rovesciò e mi tirò a sé, e dopo fu tenera con me, come quan­do ero piccolo e la mamma mi vestiva e svestiva, mi permise di aiutare anche lei ad alzarsi la gonna, e poi sentii come sollevò e aprì le gambe, poggiò le sue scarpe tirolesi sul sofà del capostazione, e poi di colpo ero incollato a Viktoria, così come ero incollato nella fotogra­fia col vestitino da marinaretto alla fotografia di Máša, e mi inondò una luce che incessantemente cresceva, salivo sempre più in alto, la terra intera tremava, risuonava un rombo e un fragore, avevo l’impressione che non uscisse né da me né dal corpo di Viktorka, ma da fuori, che l’intero edificio tremasse nelle fondamenta, le finestre tin­tinnavano, udii che in onore di questo mio glorioso e vittorioso ingresso nella vita si erano messi a tintinnare anche i telefoni, i telegrafi cominciarono da soli a battere i segnali Morse, come accadeva negli uffici ferroviari durante i temporali, mi sembrava che anche quei colombi del capostazione tubassero a una voce sola, addirittura anche l’orizzonte si sollevava e fiammeggiò coi colori degli incendi, ora l’edificio della stazione tremò ancora, si mosse un poco nelle fondamenta… E poi sentii come il corpo di Viktorka si tese ad arco, udii come le sue scarpe chiodate si piantarono dentro il sofà di tela cerata, udivo come quella stoffa si strappava, non cessava di strapparsi e da qualche punto dalle unghie delle mani e dei piedi mi convergeva nel cervello uno spasmo di gioia, d’improvviso tutto fu bianco, poi grigio, poi scuro, come se dell’acqua calda calasse e si mutasse in fredda, e nella schiena sentii un dolore piacevole, come se qualcuno mi ci avesse infilato un raffio da muratore.
Aprii gli occhi, Viktorka continuava a scarmigliarmi I capelli e ansimava. E io vidi attraverso una fessura nella finestra che all’orizzonte si sollevava il colore rosso e ambra di un fuoco lontano, come se lampeggiassero i tempi buoni. E i colombi del capostazione tubavano spauriti, svolazzavano per la colombaia, urtavano contro le pareti e il soffitto e cadevano in terra e sbattevano spauriti le ali.
Viktorka Freie si era seduta e ascoltava. Si accarezzò i capelli e disse:
«Da qualche parte c’è un terribile bombardamento.»
Aprii la finestra e tirai la tenda di oscuramento, che fu risucchiata in su. Lontano oltre le colline scoppiavano senza sosta nuovi incendi, l’orizzonte era scarlatto e ripiegato oltre le colline, verso il centro di un qualche disastro.
«Sarà Dresda» disse e si alzò e si pettinò i capelli e il pettine faceva uno strano suono nei capelli. Mi ricordai del suo corpo flessibile, che d’improvviso vidi volare su un trapezio.

Se siete curiosi, questa era la voce di Hrabal. Se sapete il ceco, capirete anche di che parla.