L’eretico

Altieri, Alan D. (2005). L’eretico. Milano: TEA. 2007.

Un’immonda porcata. Non leggetelo. Oppure leggetelo (sono libertario) ma poi non prendetevela con me.

Un libro veramente sgradevole. Come se al mondo (o almeno nel mondo del 1630) non ci fosse altro che sangue interiora merda e altri liquami. La ricerca puntigliosa dello sgradevole. Un’attenta opera di editing dedicata a farcire ogni pagina del massimo di sgradevolezza. Apro a caso (ma veramente a caso!), giusto per darvi un’idea:

La gola di Hans Ruther va in eruzione, aperta lungo l’intera arcata sottomandibolare. Sorella Renate riceve l’intera pompata in piana faccia. Il sangue l’acceca, le schizza dentro la gola. La cosa dalle tenebre strappa via una dentata di polpa gocciolante dal basso ventre di Hans Ruther. Dietro di lui, sorella Renate barcolla, urla, vomita. Crolla sul pavimento viscido [p. 156].

Così per 396 pagine. Non scherzo.

Ho aperto ancora a caso: “s’inarcò, emise un gorgoglio, vomitò una boccata di fetida aria ventrale…” [p. 276] (e non è che le pagine dispari siano meglio).

Dove non ci si dedica allo splatter, la ricostruzione storica è piena di errori.

Ultima fregatura: il romanzo non giunge a nessuna conclusione, perché è soltanto la prima parte di una trilogia. Intere vicende (Laura Farnese e Alessandro Colonna, per esempio) non hanno alcuna funzione nell’economia di questa storia! Ma non corro certo a cercare gli altri 2 volumi…

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Cristo informa

Fotografata ieri su un muro di Genova, a Piazza Principe. In pieno Festival della scienza!

OK, parliamone. Nascere, vivere, morire. E dopo, nulla?

Sì, nulla. Io e molti altri pensiamo che, dopo, non ci sia nulla. Pensiamo che il nostro destino sia che gli atomi, le molecole, la materia di cui siamo composti ritornino nel grande vortice del possibile.

E che in realtà, anche nel corso di quello che chiamiamo “la nostra vita”, il ricambio tra quello che chiamiamo il nostro corpo e il grande vortice del possibile sia continuo.

E allora dove sta la differenza? La differenza sta nel fatto che un insieme organizzato di materia sia cosciente di sé. Questo è quello davanti al quale provo la meraviglia e lo sgomento che altri provano per un dio al di fuori di sé.

Qui si capisce anche dove il manifesto, secondo me, è un imbroglio. Nascere e morire sono due istanti; vivere è una durata.

Nascere e morire sono l’approssimazione dell’inizio e della fine del sé, dell’autocoscienza (o meglio della consapevolezza del sé – in inglese conscience e consciousness sono due parole diverse). Ne facciamo un feticcio, e ne discende tutto il dibattito sull’aborto e l’eutanasia. Ma in realtà, quello che vogliamo approssimare sono due “momenti”, o forse due “fasi” : quello in cui iniziamo a percepirci come “noi stessi” e quello in cui cessiamo di farlo. Ero Boris anche prima di essere cosciente di me come soggetto del mio primo agire e percepire? Lo sarò ancora quando avrò perso il lume della ragione?

Vivere è durata. Vivere è quello per cui vale la pena di essere qui. Ha uno scopo, altro da quello che gli attribuisco giorno per giorno, costruendolo? Penso di no. Ma quello che ho è comunque ricchissimo. Sgomento e meraviglia, appunto. E se il presente è una finzione della coscienza, tanto meglio. Bella finzione. Bella invenzione dilatare il presente, la dimensione dell’esserci.

Del vivere, di tutto quello che sta in mezzo tra il nascere e il morire, mi prendo tutto, buono e cattivo. Me lo centellino anche quando è amaro come il fiele. Me lo godo, quando posso e come posso, come dice il poeta. Di quello che c’è al di là del confine non mi interesse se non per la curiosità, scientifica e infantile insieme, che dedichiamo al “fuori di noi”. Mi auguro solo che il passaggio della seconda frontiera sia dolce, o destinato all’oblio, come il passaggio della prima…