John Williams – Stoner

Williams, John (1965). Stoner. New York: New York Review Books Classics. 2010. ISBN 9781590173930. Pagine 305. 8,61 €

Stoner

amazon.com

Quando ero molto più giovane di adesso, tra la fine del liceo e l’inizio dell’università, ho cominciato a scrivere un romanzo. Non penso fosse una cosa tanto rara o speciale: penso che molti di noi l’abbiano fatto, o almeno immaginato.

Poi non l’abbiamo nemmeno iniziato, o comunque non terminato: e sarà stato probabilmente un destino provvidenziale, per il pianeta e per noi stessi. Inevitabilmente, direi. Il Boris dell’epoca aveva vissuto fino ad allora una vita relativamente breve e priva di grandi eventi. La sua famiglia era una famiglia mediamente felice, e quindi poco interessante secondo il celebre incipit di Anna Karenina. Negli anni successivi sarebbe stata martoriata da una serie di perdite importanti, come se la morte giocasse agli Orazi e ai Curiazi; ma all’epoca, a parte una nonna amatissima, c’erano ancora tutti. Quanto a quello che sarebbero state persone importanti nella mia vita, non le avevo ancora incontrate. Insomma, non c’era abbastanza materia per scrivere un romanzo, tant’è che non lo scrissi.

Però una cosa l’avevo: il nome del protagonista e io narrante. Si chiamava Giobbe. Non conoscevo il romanzo di Joseph Roth (che sarebbe stato pubblicato anni dopo), ma conoscevo bene il personaggio biblico: paziente e rassegnato fino al grottesco, ma gigantesco nella sua calma resistenza a una divinità capricciosa, che lo tormenta per scommessa e poi è così arrogante da giustificarsi tirando in ballo la creazione, l’ippopotamo e il leviatano … Insomma, Giobbe doveva rappresentare secondo me la grandezza del flemmatico, di quello che si piega ma non si spezza: l’esatto opposto del giovane impetuoso e irascibile che ero (e che sono, nonostante tutto).

Ho ripensato a questo perché William Stoner, il protagonista dell’omonimo romanzo, è un Giobbe moderno. Il romanzo, riscoperto da poco, è bellissimo, ma una delle cose più disperatamente tristi che mi sia capitato di leggere.

È stato riscoperto alcuni anni fa dalla New York Review of Book, che l’ha ripubblicato nel 2006 (l’opera è del 1965):

William Stoner is born at the end of the nineteenth century into a dirt-poor Missouri farming family. Sent to the state university to study agronomy, he instead falls in love with English literature and embraces a scholar’s life, so different from the hardscrabble existence he has known. And yet as the years pass, Stoner encounters a succession of disappointments: marriage into a “proper” family estranges him from his parents; his career is stymied; his wife and daughter turn coldly away from him; a transforming experience of new love ends under threat of scandal. Driven ever deeper within himself, Stoner rediscovers the stoic silence of his forebears and confronts an essential solitude.
John Williams’s luminous and deeply moving novel is a work of quiet perfection. William Stoner emerges from it not only as an archetypal American, but as an unlikely existential hero, standing, like a figure in a painting by Edward Hopper, in stark relief against an unforgiving world.

Stoner ha avuto nel tempo molti autorevoli ammiratori – il New York Times ricorda Irving Howe su The New Republic nel 1966, C. P. Snow su The Financial Times nel 1973, Dan Wakefield su Ploughshares nel 1981 e Steve Almond su Tin House nel 2003 – senza aver mai goduto di grande successo: e non stento a crederlo, dal momento che la sua perfezione e la sua disperata tristezza sono una cosa sola. Se dovessi riassumerlo in una frase sarebbe questa:

He was forty-two years old, and he could see nothing before him that he wished to enjoy and little behind him that he cared to remember.

A me ha fatto pensare molto a James Joyce, quello di Portrait of the Artist as a Young Man: ogni breve capitolo di Stoner è costruito e scandito da un’epifania.

Morris Dickstein, recensendolo sul NYT (Sunday Book Review) del 17 giugno 2007 scriveva:

John Williams’s “Stoner” is something rarer than a great novel — it is a perfect novel, so well told and beautifully written, so deeply moving, that it takes your breath away.
[…]
“Stoner” is a western in a more poignant sense. Its hero, the son of hard-working, dirt-poor farmers, inherits their taciturn stoicism, born of sheer adversity — their hardened accommodation to the whims of fate. William Stoner enters the state university in 1910 to study agriculture, but his life changes irrevocably when he comes upon literature in a sophomore survey course. His future mentor humiliates him by asking him to explain Shakespeare’s Sonnet 73, a poem about love and loss that foreshadows Stoner’s own future. Shakespeare’s aging speaker compares himself to “bare ruin’d choirs where late the sweet birds sang,” and adds: “In me thou see’st the glowing of such fire, / That on the ashes of his youth doth lie.” Following Stoner through two world wars, the novel captures both the fire of his inarticulate passion and the glowing embers it leaves behind.
Only two passions matter in Stoner’s life, love and learning, and in a sense he fails at both. His wife, his first love, turns cold and repellent almost from the moment he meets her. Their honeymoon, in which she submits to him with distaste, must be one of the grimmest ever recorded in fiction. Soon we learn, with a clang of inevitability, that “within a month he knew that his marriage was a failure; within a year he stopped hoping that it would improve. He learned silence and did not insist upon his love.” Stoner’s deeply ingrained reticence is a keystone of the novel. This is the story of an ordinary man, seemingly thwarted at every turn, but also of the knotty integrity he preserves, the deep inner life behind the impassive facade.
The man’s professional career could also be seen as a failure, though it gives him quiet satisfaction. He is neither a great teacher nor a noted scholar […]  A gifted but bitter colleague, touched by the same knowledge, turns against him in one of those toxic departmental feuds that bedevils the rest of his career. The one book Stoner produces is soon forgotten. His distrust of glib brilliance, his concern with ancient theories of grammar and rhetoric, make him look pedantic. Stoner’s cast of mind is monastic, unworldly. He is reduced to teaching menial courses to students who only dimly sense the warmth and conviction he brings to them.
The same quiet depth of feeling redeems his love life. Caught in an empty shell of a marriage, though too stoical to end it, he bonds deeply with his young daughter. But his resentful wife evicts him from his daughter’s life, as she evicts them both from the book-lined study where they often take refuge. Stoner responds with a helpless sense of resignation. But in his 40s he begins an affair with a talented scholar half his age, which leads to a precious interlude of unlooked-for happiness. Like his discovery of literature, this intimacy becomes an awakening to the possibilities of life. Their deep attraction, luminously described, combines love and learning as forms of passionate knowing — the true North Star of Williams’s fiction. “Day by day, the layers of reserve that protected them dropped away. … They made love, and talked, and made love again, like children who did not think of tiring at their play.” Though their affair is broken up by Stoner’s academic nemesis, who threatens scandal, it offers a hint of paradise that hovers dreamily over the rest of the novel.
Stoner’s physical decline is premature but inexorable, his death almost anonymous. Yet few stories this sad could be so secretly triumphant, or so exhilarating. Williams brings to Stoner’s fate a quality of attention, a rare empathy, that shows us why this unassuming life was worth living.

In italiano è stato pubblicato da poco da Fazi, nella traduzione di Stefano Tummolini. Irene Bignardi ne ha scritto una bellissima recensione su la Repubblica l’11 marzo 2012:

Riscoprendo Stoner l’uomo qualunque di una minitragedia

Se è vero che tutte le famiglie felici si assomigliano tra loro, e che ogni famiglia infelice è infelice a modo suo, l’infelicità dei singoli – l’infelicità senza eventi, l’infelicità senza ragioni, l’infelicità della gente mite, di chi non reagisce, non contrattacca – è più difficile da raccontare. Come quella di Stoner, protagonista e antieroe eponimo di un singolare romanzo di John Williams (Fazi). Singolare perché racconta una vita fallita. Perché racconta una storia che non si muove dal suo baricentro. Perché registra una vicenda umana così simile a tante da non essere, all’apparenza, interessante. E da esserlo proprio perché nella gentilezza e nella non reattività del protagonista riconosciamo le mille vite non avventurose, modeste, sbagliate, moderatamente infelici, ma senza lasciare traccia, che abbiamo incrociato. C’è più che un sospetto di autobiografismo, in Stoner. Anche il suo autore, John Williams, era nato in un ambiente contadino. Williams, come il suo Stoner, si era innamorato della letteratura e aveva cambiato il destino che gli era stato disegnato. Aveva fatto ogni possibile lavoro. Aveva combattuto in India e Birmania durante la guerra, per poi laurearsi al ritorno all’Università del Missouri, proprio quella di Stoner, anche se gli anni sono diversi. Avrebbe insegnato lì per trent’anni e scritto tre romanzi, per essere presto dimenticato – salvo riemergere grazie ai suoi ammiratori, tra cui C. P. Snow, e, recentemente, per essere riscoperto dalla New York Review of Books. E il fascino del libro sta proprio nel metterci attraverso Stoner e la sua storia dalla parte dei dimenticati, degli umiliati e offesi della vita, di chi vive un profondo masochismo da gentilezza, di chi non sa reagire, offendere per difendersi, cambiare le carte in tavola. Basterebbe il racconto della luna di miele di Stoner con la sua giovane moglie, che, quanto a sensazione di disagio, fa il paio solo con il disastro di cui fa la cronaca McEwan in Chesil Beach. O la progressione per cui, mano a mano, i suoi spazi a casa si restringono, senza che lui alzi mai la voce, fino a lasciargli per lavorare poco più che la superficie di un tavolino. O la mitezza con cui, consapevole delle proprie doti limitate, e tuttavia profondamente innamorato del suo lavoro di insegnante e delle gioie che gli dà la letteratura, accetta la guerra, inspiegabile e feroce, che gli fa un collega, umiliandolo di fronte al corpo insegnante del suo college e ai suoi allievi. Quello che David Lodge racconterebbe con irresistibile humour nella vita di Stoner diventa una malinconica minitragedia. E quando finalmente la vita gli offre l’incontro con un’occasione d’amore nella persona di una giovane studiosa, tutto gli si rivolta contro. Il ritorno alla solitudine è il suo destino, e la sua la tragedia di un uomo qualunque che non sa né vuole combattere, che di questa remissività, del fallimento che ne segue, è in qualche misura fiero. Williams registra questa vicenda umana con una prosa in minore, pudica e asciutta, attenta ai dettagli, distaccata e affezionata allo stesso tempo: per un ritratto (un autoritratto?) che ci mette a disagio e non si dimentica.

***

Il riferimento è come di consueto alle posizioni sul Kindle:

I’m too bright for the world, and I won’t keep my mouth shut about it; it’s a disease for which there is no cure. [582]

Like many men who consider their success incomplete, he was extraordinarily vain and consumed with a sense of his own importance. [1012]

He had come to that moment in his age when there occurred to him, with increasing intensity, a question of such overwhelming simplicity that he had no means to face it. He found himself wondering if his life were worth the living; if it had ever been. […] He took a grim and ironic pleasure from the possibility that what little learning he had managed to acquire had led him to this knowledge: that in the long run all things, even the learning that let him know this, were futile and empty, and at last diminished into a nothingness they did not alter. [2888-2894]

He was forty-two years old, and he could see nothing before him that he wished to enjoy and little behind him that he cared to remember. [2914]

“I am not ill,” she said. And she added in a voice that was calm, speculative, and almost uninterested, “I am desperately, desperately unhappy.” [3094]

In his forty-third year William Stoner learned what others, much younger, had learned before him: that the person one loves at first is not the person one loves at last, and that love is not an end but a process through which one person attempts to know another. [3121]

In his extreme youth Stoner had thought of love as an absolute state of being to which, if one were lucky, one might find access; in his maturity he had decided it was the heaven of a false religion, toward which one ought to gaze with an amused disbelief, a gently familiar contempt, and an embarrassed nostalgia. Now in his middle age he began to know that it was neither a state of grace nor an illusion; he saw it as a human act of becoming, a condition that was invented and modified moment by moment and day by day, by the will and the intelligence and the heart. [3130]

He aged rapidly that summer, so that when he went back to his classes in the fall there were few who did not recognize him with a start of surprise. His face, gone gaunt and bony, was deeply lined; heavy patches of gray ran through his hair; and he was heavily stooped, as if he carried an invisible burden. […] he attended faithfully all departmental meetings. He did not speak often at these meetings, but when he did he spoke without tact or diplomacy, so that among his colleagues he developed a reputation for crustiness and ill temper. [3510-3517]

He had wanted love; and he had had love, and had relinquished it, had let it go into the chaos of potentiality. [4427]

Mandarino

Ho sempre pensato che il primo significato di questa parola fosse il frutto, e il secondo il dignitario cinese. Forse perché questo è l’ordine in cui io – come immagino la maggior parte di voi – ha appreso i significati di questa parola. Invece scopro oggi che è l’esatto contrario. Una di quelle sorprese che ti illuminano la giornata.

Facciamoci aiutare come al solito dal Vocabolario Treccani:

Termine usato un tempo dagli stranieri per designare i funzionarî civili e militari dell’Impero cinese: la casta dei mandarini. Per estensione, con riferimento ad altri paesi e in senso per lo più spregiatovo, personaggio potente e influente, e in particolare alto funzionario che vorrebbe conservare e far valere a ogni costo i privilegi più esclusivi della sua carica.

Quanto all’etimologia, ci viene dal portoghese mandarim, che l’ha presa in prestito dal malese mantri, che deriva a sua volta dal sanscrito mantrin– «consigliere».

Mandarino cinese

wikipedia.org

Il frutto del mandarino è derivato dalla prima accezione, in modo scontato ma curioso (Vocabolario Treccani):

[Probabilmente dalla voce precedente, per allusione al colore giallo oro e alla provenienza dall’Oriente].

  1. Pianta arbustiva delle rutacee (Citrus deliciosa), proveniente per alcune specie dalla Cina, dalla Cocincina e dalle isole della Sonda, per altre forse dalle isole Mascarene nell’Oceano Indiano, introdotta in Europa nella prima metà del sec. 19° e oggi largamente coltivata nella regione mediterranea per i suoi frutti o, in vaso, come pianta ornamentale: alta non più di 4 m, ha foglie piccole, lanceolate, aromatiche, fiori bianchi, frutti globoso-depressi con buccia sottile e profumata, e polpa gialla, succosa, molto zuccherina, suddivisa in spicchi.
  2. Il frutto del mandarino, usato fresco per l’alimentazione e anche nella fabbricazione di marmellate e canditi: uno spicchio di mandarino; essenza di mandarino. Olio essenziale di mandarino, liquido giallo dorato, leggermente fluorescente, con odore gradevole, che si estrae per pressatura o sfumatura dalle bucce del mandarino.

Con il che si scopre anche che sono soltanto 200 anni che ci mangiamo questo profumato frutto.

Mandarino

wikipedia.org

A questo punto, forse è venuta anche a voi la curiosità di sapere perché l’ibrido di mandarino e arancio si chiama correntemente clementina. Vi prevengo (Vocabolario Treccani):

[Dal francese clémentine, dal nome di un padre Clemente (Clément Rodier – nota mia), che nei primi anni del sec. 20° ne individuò la pianta nella missione di Misserghin presso Orano in Algeria]. – Ibrido di mandarino e di arancio amaro, detto anche mandarancio; è un albero molto simile a quello del mandarino, con sviluppo maggiore e fogliame più ampio e di colore più scuro; il frutto, che matura da novembre a gennaio, ha le dimensioni del mandarino comune, ma forma sferica come una piccolissima arancia, a buccia sottile e polpa dolce.

Clementina

wikipedia.org

INPS: dati, metadati e esodati | Saperi PA

A complemento del mio intervento di ieri (Fornero e l’Inps: quale accountability senza libertà d’informazione?) riporto, senza aggiungere altro, l’editoriale di Carlo Mochi Sismondi, presidente di ForumPA.

Carlo Mochi Sismondi

flickr.com / © 4ITGroup

INPS: dati, metadati e esodati. | Saperi PA

Sul pasticciaccio dei dati relativi ai cosiddetti “esodati” è difficile aggiungere parole che non alimentino un’ulteriore confusione, mi pare però necessario che anche qui sfruttiamo l’occasione per imparare dall’esperienza. Voglio quindi ribadire alcuni concetti fondamentali che sono alla base dei nostri valori e del nostro impegno per l’open government e per la trasparenza. Provo a dirvi i miei punti chiave, che riguardano per prima cosa la proprietà dei dati, poi il diritto di accesso e il dovere della trasparenza, poi la cultura del dato e l’obbligo della chiarezza, infine i rapporti istituzionali tra amministrazione e politica. Attendo vostri commenti.

La materia non è banale e lo spazio di un editoriale è poco, quindi mi scuserete se sarò un po’ tranchant, partendo da quattro asserzioni da cui poi discenderà qualche considerazione:

  • I dati non sono dell’INPS, non sono del Ministro, non sono del Parlamento: i dati pubblici sono dei cittadini. Questo vuol dire che nessuno può essere accusato, a meno che non violi le regole della privacy, perché mette a disposizione dell’opinione pubblica dati pubblici in suo possesso. La parola “fuga di notizie” in questo caso è impropria e fuorviante: si tratta infatti di “notizie” che tornano ai legittimi proprietari.
  • La trasparenza non è un optional, è un diritto dei cittadini ed un obbligo delle amministrazioni sancito dalla legge. Vale la pena di rileggere l’art. 11 della legge delega 15 del 2009: La trasparenza è intesa come accessibilità totale (…) delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità. Essa costituisce livello essenziale delle prestazioni erogate dalle amministrazioni pubbliche ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione.
  • I dati però non bastano: perché la trasparenza sia reale bisogna che siano forniti con una adeguata descrizione che ne aiuti la comprensione [su questo consiglio l’intervento del Presidente Giovannini a FORUM PA 2012]. Io ho letto quasi tutti gli articoli che sono usciti sui mezzi di informazione, ma confesso che non ho le idee chiare su cosa c’è dentro i 390.200 “esodati” o simili indicati dall’INPS. Probabilmente è perché non abbiamo la possibilità di leggere la relazione completa. Sarebbe però nostro diritto, se vogliamo farci un’opinione, se vogliamo esercitare un controllo, se vogliamo essere partecipi democraticamente di scelte così importanti avere insieme ai dati una loro precisa definizione.
  • Una pubblica amministrazione non è proprietà del Governo né tantomeno di uno dei suoi ministri, alcune considerazioni sul fatto che in un’azienda privata i vertici dell’INPS, colpevoli di aver diffuso dati pubblici importanti per un tema politico a cui l’opinione pubblica è così sensibile, sarebbero stati sostituiti sono anche qui improprie e fuorvianti. Un’azienda ha un padrone, il cui arbitrio è per altro ben contenuto dalla legge, una pubblica amministrazione è proprietà dei cittadini. I suoi vertici giurano fedeltà non al Governo, ma alla Repubblica, alla Costituzione, alla legge. Veramente dopo tanti anni dal decreto legislativo 29 del ’93 non credevo ci fosse ancora bisogno di ricordarlo.

Come avete visto non ho parlato del merito: guarda caso non posso farlo … perché non ho i dati. Mi limito quindi a suggerirvi due letture. La prima è il bell’articolo del mio amico Marco Rogari che su Il Sole24Ore fa il punto sui numeri, almeno su quelli che si sanno. La seconda è la relazione annuale dell’INPS così è stata presentata da un grande manager pubblico, e a cui va tutta la mia stima e tutto il mio incoraggiamento, Antonio Mastrapasqua.

Fornero e l’Inps: quale accountability senza libertà d’informazione?

Non sono molto interessato a discutere il merito delle polemiche tra ministro Fornero e vertici dell’Inps sulla questione del numero degli “esodati” (orrendo neologismo) e sulle modalità di divulgazione delle diverse stime. Va da sé che ho una mia personale opinione, ma se la esprimessi distrarrei me e voi da quello che considero il punto di maggiore sostanza della vicenda.

Che secondo me è questo: il documento redatto dall’Inps deve essere pubblico o no?

Elsa Fornero

wikipedia.org

Provo a riassumere la vicenda, per quello che sono riuscito a ricostruirla:

  1. l’11 giugno 2012, alle 17:27, l’ANSA “apprende” che l’INPS stima il numero degli “esodati” in 390.200 e – poiché è una notizia-bomba – la pubblica:
    «I lavoratori esodati che potrebbero avere diritto ad andare in pensione sulla base delle vecchie regole secondo il decreto Salva Italia e il Milleproroghe sono 390.200: è quanto emerge – secondo quanto apprende l’ANSA – dalla Relazione INPS al ministero del Lavoro inviata prima della firma del decreto che fissa a 65.000 la quota dei salvaguardati.»
  2. Nella giornata di ieri (12 giugno) si è registrata la reazione di Elsa Fornero (si va dalla semplice “irritazione” al “forte disappunto”) per la divulgazione del documento dell’Inps, di cui si dice – ma è evidente la contraddizione – che non avrebbe dovuto essere diffuso sia perché “parziale e non spiegato” (Fornero su tutti i quotidiani e su questo lancio ANSA), sia perché qualche regola o procedura lo vietava («Se fossimo in un settore privato questo sarebbe un motivo per riconsiderare i vertici. Siamo in un settore pubblico, ci sono le leggi e c’è il parlamento e tutte queste procedure vanno rispettate». Così secondo un articolo del Corriere della sera di oggi, 13 giugno 2012).

La prima delle motivazioni mi sembra veramente debolissima. Sul numero degli esodati si discute da quando è stato varato il decreto SalvaItalia, cioè da dicembre dell’anno scorso. La relazione incriminata dell’INPS ~ a quanto è dato sapere – è datata 22 maggio 2012 ed è stata trasmessa, oltre che al Ministero del lavoro, anche alla Presidenza del consiglio dei ministri, al Ministero dell’economia e alla Ragioneria generale dello Stato. L’esecutivo avrebbe avuto, secondo me, tutto il tempo di spiegare e di completare le stime del documento INPS, se davvero lo riteneva “parziale e non spiegato”.

Ma a me preoccupa molto di più la seconda. Non so se esistano davvero norme o procedure che facciano divieto all’INPS di divulgare documenti tecnici, anche se su materie delicate. Penso piuttosto che ci sia qualche prassi in questo senso: è noto che nella culla del diritto le norme sono state soffocate dalla prassi, come i passerotti gettati fuori dal nido dal piccolo cuculo).

Se è così, come purtroppo temo, questa è un’occasione da cogliere: per dire al ministro Fornero e a tutto il governo che quello che vogliamo è la trasparenza, non la tutela. Che i cittadini non sono sudditi ignoranti, e non devono essere protetti da nessuna informazione, neppure da un dato giudicato “parziale e non spiegato”. Vogliamo tutte le informazioni e gli strumenti per poterne valutare l’attendibilità da soli: o meglio, con l’aiuto della discussione pubblica e aperta degli esperti e delle parti in causa.

Il movimento degli open data va in questa direzione. Il manifesto degli open data (l’articolo di Robinson,Yu, Zeller e Felten del 2008] affermava che l’obiettivo primario del governo come editore online avrebbe dovuto essere di pubblicare dati facili da (ri)usare per tutti, piuttosto che di aiutare i cittadini a usare i dati in un modo particolare o in un altro. Questo obiettivo, però, negli Stati Uniti è raggiungibile (e in buona parte raggiunto, grazie all’Open Government Initiative dell’amministrazioe Obama e all’Open Government Directive dell’8 dicembre 2009) perché lì vige dal 4 luglio 1966 (!) il Freedom of Information Act (FOIA), che «impone alle amministrazioni pubbliche una serie di regole per permettere a chiunque di sapere come opera il Governo federale, comprendendo l’accesso totale o parziale a documenti classificati. Il Freedom of Information Act ha aperto a giornalisti e studiosi l’accesso agli archivi di Stato statunitensi, a molti documenti riservati e coperti da segreto di Stato, di carattere storico o di attualità. Il provvedimento è un punto importante che garantisce la trasparenza della pubblica amministrazione nei confronti del cittadino (nello spirito di considerarlo quanto tale e non quanto suddito), e il diritto di cronaca e la libertà di stampa dei giornalisti.» [Wikipedia].

Due precisazioni:

  1. Il FOIA è stato emendato per normare l’accesso ai documenti elettronici (Electronic Freedom of Information Act – E-FOIA).
  2. Il principio generale è quello della libertà di informazione, mentre le esclusioni (che sono soltanto 9) sono specificate dettagliatamente.

Molti Paesi, oltre agli Stati Uniti, hanno una legislazione sulla libertà d’informazione. Trovate qui un quadro completo e aggiornato. Per il caso italiano (limitato all’accesso agli atti amministrativi) vi rinvio qui.

Per questo ritengo essenziale, proprio per dare realtà al movimento open data, che anche l’Italia si doti di un suo FOIA e per questo ho aderito a una campagna in tal senso. Chi fosse interessato la trova qui.

Vi segnalo anche l’articolo scritto da Valentino Larcinese e Riccardo Puglisi su LaVoce, Per un “Freedom of Information Act” italiano.

Bipartisan

Lo si sente pronunciare in molti modi, ma il Vocabolario Treccani non ha dubbi: ognuno fa un po’ come diavolo gli pare, in uno spirito sinceramente bipartisan.

bipartisanbaipàrtisän› agg. ingl. [comp. di bi- e partisan partigiano; propr. «partigiano di entrambe le parti in contrasto»] (in ital. pronunciato comunem. ‹bipàrtisan›). – Nel linguaggio politico e giornalistico, di persona, istituzione, movimento, ecc., che è accettato da entrambe le parti politiche in contrasto o che è disposto ad assumere le difese dell’una e dell’altra.

Il sito americano αlphadictionary ci informa su qualche altro punto rilevante:

  1. La pronuncia è questa.
  2. La “s” va pronunciata [z]: per questo un errore di spelling comune è scrivere “bipartizan”.
  3. La parola è stata introdotta nel linguaggio politico americano all’inizio del XX secolo, aggiungendo il prefisso bi- alla parola esistente partisan.
  4. Partisan è arrivata all’inglese a metà del XVI secolo (ci informa l’OED) attraverso il francese dall’italiano partigiano. Questa parola viene prevedibilmente dal latino pars, che a sua volta deriva – un po’ più imprevedibilmente – dal sanscrito purtam “ricompensa” e dalla radice ittita parshiya- “frazione, parte”.

Nell’uso italiano, secondo l’Accademia della crusca, la parola è attestata per la prima volta nel 1994:

Il termine bipartisan rivela la sua origine anglosassone non soltanto nella forma, accolta fedelmente in italiano, ma anche nel significato che rimanda al tradizionale sistema bipartitico di stampo anglosassone. In italiano è comparso quando si è cominciato a delineare un sistema politico bipolare favorito dal passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario.

Escrementi commestibili: l’ambra grigia

L’ambra grigia è stata a lungo una sostanza misteriosa, e come tale soggetta a innumerevoli leggende. Come l’ambra, la si ritrovava spinta a riva dalla risacca. Ma a differenza dell’ambra comune – sostanza dura e giallo dorata (di colore ambrato, appunto) – qui si parla di una massa grigiastra e tenera, che si scioglie al calore della mano.

Gli arabi la ritennero la concrezione prodotta dai sali disciolti nelle sorgenti del fondo marino o l’escremento del leggendario uccello Rokh.

Rokh

wikipedia.org

I cinesi, invece, ritenevano si trattasse di sputo di drago coagulato dall’acqua marina. In occidente, più prosaicamente, fu descritto come vomito di capodoglio.

Capodoglio sì, ma non vomito: escremento. Non propriamente le feci ordinarie, ma una sostanza escreta dallo stomaco per proteggerne le pareti dall’azione irritante dei becchi di calamaro, che i capodogli ingurgitano in grande quantità. La secrezione ingloba i taglienti becchi e poi si solidifica. Resta a lungo nello stomaco e nell’intestino del cetaceo, ma prima o poi viene espulsa. Galleggia sulle onde finché non giunge a riva, dove – seccandosi – libera il suo gradevole profumo.

Ambra grigia

smithsonianmag.com

Non sto scherzando: il profumo gradevole è la principale caratteristica della sostanza e il motivo dell’interesse commerciale che la circondava in passato, soprattutto per i suoi usi in cosmetica e in profumeria. Ora che il capodoglio è specie protetta, l’ambra non può più essere estratta dall’intestino di un animale ucciso all’uopo, ma si deve contare sulle minime quantità che giungono a riva. Un tempo, invece, il commercio della sostanza aveva enorme importanza economica (era, ad esempio, una delle principali esportazioni della colonia italiana della Somalia). Hermann Melville dedica all’ambra grigia il capitolo 92 di Moby Dick:

Now this ambergris is a very curious substance, and so important as an article of commerce, that in 1791 a certain Nantucket-born Captain Coffin was examined at the bar of the English House of Commons on that subject. For at that time, and indeed until a comparatively late day, the precise origin of ambergris remained, like amber itself, a problem to the learned. Though the word ambergris is but the French compound for grey amber, yet the two substances are quite distinct. For amber, though at times found on the sea-coast, is also dug up in some far inland soils, whereas ambergris is never found except upon the sea. Besides, amber is a hard, transparent, brittle, odorless substance, used for mouth-pieces to pipes, for beads and ornaments; but ambergris is soft, waxy, and so highly fragrant and spicy, that it is largely used in perfumery, in pastiles, precious candles, hair-powders, and pomatum. […]
Who would think, then, that such fine ladies and gentlemen should regale themselves with an essence found in the inglorious bowels of a sick whale! Yet so it is. By some, ambergris is supposed to be the cause, and by others the effect, of the dyspepsia in the whale. How to cure such a dyspepsia it were hard to say, unless by administering three or four boat loads of Brandreth’s pills, and then running out of harm’s way, as laborers do in blasting rocks.
I have forgotten to say that there were found in this ambergris, certain hard, round, bony plates, which at first Stubb thought might be sailors’ trowsers buttons; but it afterwards turned out that they were nothing more than pieces of small squid bones embalmed in that manner.
Now that the incorruption of this most fragrant ambergris should be found in the heart of such decay; is this nothing? Bethink thee of that saying of St. Paul in Corinthians, about corruption and incorruption; how that we are sown in dishonour, but raised in glory. […]

Capodoglio

wikipedia.org

L’odore gradevole e pungente dell’ambra grigia è dovuto «al grande contenuto di feromone, analogamente ad altre sostanze aromatiche di origine animale (castoreo, muschio).» [Wikipedia]

Pertanto, oltre a essere utilizzata in profumeria (ove la sostanza è apprezzata anche come fissatore, cioè come «composto che può abbassare il tasso di evaporazione delle sostanze più volatili di una composizione di essenze, oppure dare una nota particolare o, ancora, amalgamandosi con gli altri ingredienti, esaltarli e renderli più incisivi»), l’ambra grigia ha avuto fama di potente afrodisiaco. Secondo Melville, i musulmani la portavano alla Mecca (allo stesso modo in cui i pellegrini portavano incenso a San Pietro a Roma) ma non disdegnavano di usarlo in cucina, mentre alcuni mercanti di vino ne aggiungevano qualche grano al chiaretto per esaltarne il sapore. Nel Medioevo veniva usato nelle tinture medicinali, Insieme ad acqua, zucchero e limone, compariva nella ricetta tradizionale persiana del sorbetto. Casanova l’aggiungeva alla mousse au chocolat (come tonico e afrodisiaco, naturalmente).

Paradise regained

wikipedia.org

Anche John Milton ne parla, nel suo Paradise Regained, quando Satana tenta Gesù Cristo con un banchetto luculliano:

He spake no dream; for, as his words had end,
Our Saviour, lifting up his eyes, beheld,
In ample space under the broadest shade,
A table richly spread in regal mode,
With dishes piled and meats of noblest sort
And savour—beasts of chase, or fowl of game,
In pastry built, or from the spit, or boiled,
Grisamber-steamed; all fish, from sea or shore,
Freshet or purling brook, of shell or fin,
And exquisitest name, for which was drained
Pontus, and Lucrine bay, and Afric coast. [vv. 337-347]

Brillat-Savarin

openlibrary.org

Il grande Jean Anthelme Brillat-Savarin – patriarca e vate di tutti noi gastronomi intellettuali – raccomandava di sostituire il caffè (che aveva l’effetto collaterale di rendere nervosi e insonni) con un tonico a base di zucchero e cioccolato con un pizzico d’ambra grigia:

C’est ici le vrai lieu de parler des propriétés du chocolat à l’ambre, propriétés qui j’ai vérifiées par un grand nombre d’expériences, et dont je suis fier d’offrir le résultat à mes lecteurs.
Or donc, que tout homme qui aura bu quelques traits de trop à la coup de la volupté; que tout homme qui aura passé à travailler une portion notable du temps qu’on doit employer à dormir; que tout homme d’esprit qui se sentira temporairement devenu bête; que tout homme qui trouvera l’air humide, le temps long, et l’atmosphère difficile à porter; que tout homme qui sera tourmenté d’une idée fixe qui lui ôtera la liberté de penser; que tous ceux-là, disons-nous, s’administrent un bon demi-litre de chocolat ambré, a raison de soixante à soixante-douze grains d’ambre par demi-kilogramme, et ils verront merveille.
Dans ma manière particulière se spécifier les choses, je nomme le chocolat à l’ambre chocolat des affligés, parce que, dans chacun des divers états que j’ai désigné, on éprouve je ne sais quel sentiment qui leur est commun, et qui ressemble à l’affliction. [Physiologie du gout; ou, Méditations de gastronomie transcendante, pp. 225-226]

Sulla storia dell’ambra grigia ha scritto un libro (che mi sono appena affrettato a comprare) il biologo molecolare Christopher Kemp, Floating Gold: A Natural (and Unnatural) History of Ambergris. Risparmiamoci pure la scontata ironia sulla coprofagia coatta di chi voglia fare ricerca seriamente, in questo e in altri paesi: resta il fatto che Kemp la sua brava ambra grigia se l’è cucinata:

It crumbles like truffle. I fold it carefully into the eggs with a fork. Rising and mingling with curls of steam from the eggs, the familiar odor of ambergris begins to fill and clog my throat, a thick and unmistakable smell that I can taste. It inhabits the back of my throat and fills my sinuses. It is aromatic — both woody and floral. The smell reminds me of leaf litter on a forest floor and of the delicate, frilly undersides of mushrooms that grow in damp and shaded places.

Il primo spunto per questo post l’ho trovato sul blog dello Smithsonian Food & Think: A heaping helping of food news, science and culture, nel post A Taste of Edible Feces, pubblicato il 4 giugno 2012.

Le password più diffuse

Mark Burnett è il massimo esperto di uso delle password. È l’autore di Perfect Passwords, un libro del 2005. In quell’occasione pubblicò una lista delle 500 password più diffuse (e quindi peggiori).

Il suo database ne contiene ormai 6 milioni e Burnett ha appena pubblicato la lista aggiornata delle 10.000 più diffuse. Di seguito le prime 10:

  1. password
  2. 123456
  3. 12345678
  4. 1234
  5. qwerty
  6. 12345
  7. dragon
  8. pussy
  9. baseball
  10. football

Anche da noi si è parlato di questa classifica: lo ha fatto Linkiesta con questo articolo, in cui si scherza sulla posizione e il significato di pussy.

Mark Burnett

Mark Burnett

La notizia vera, però, mi pare quella che, rispetto al precedente studio di Mark Burnett del 2005, “pussy” sia crollata dalla quinta all’ottava posizione. Che sia un effetto indiretto della caduta del berlusconismo? O è l’universale calo della libido?

Perché l’American Community Survey è importante

Negli Stati Uniti, il partito repubblicano sta combattendo una battaglia per l’abrogazione dell’American Community Survey, una rilevazione del Census Bureau che produce a cadenza annuale dati con un buon dettaglio territoriale.

L’American Community Survey è considerato universalmente (repubblicani esclusi, naturalmente) un grande successo e un modello da seguire. Se ne è discusso anche in Italia, come una prospettiva da adottare dopo il Censimento generale del 2011.

In questo video, il professor William Frey dell’Università del Michigan spiega perché abrogare l’American Community Survay sarebbe un errore.

Chi siede davanti? Shotgun!

Ogni bambino (qualche che sia la sua età anagrafica) sa che il posto più ambito per un viaggiatore su un’auto è quello davanti, vicino al guidatore. E sa anche che conquistarsi quel privilegio è difficilissimo: non solo ci si deve scontrare con gli altri rivali tra i coetanei (spesso con la tentazione o la necessità di passare alle vie di fatto), ma spesso si deve subire l’ingiustizia che un adulto pretenda di avere una specie di diritto acquisito a quel posto.

Una delle tecniche più importanti per evitare la violenza del conflitto che il processo di civilizzazione ci ha insegnato (ne parla diffusamente Steven Pinker nel suo The Better Angels of Our Nature, che ho recensito qui, e soprattutto Norbert Elias) è quello di stabilire delle regole. In questo modo, l’eventuale conflitto viene portato a un livello superiore, quello della definizione delle fattispecie cui le regole si dovranno applicare, piuttosto che a quello dei casi concreti. E poiché i casi concreti sono più numerosi e più frequenti, il livello della conflittualità scema. Almeno nella maggior parte dei casi, quelli situati nella “parte centrale” dell’insieme cui le regole si applicano, perché le regole soffrono dello stesso problema di fuzziness dei confini di cui soffrono i metadati (di cui abbiamo parlato più volte, e da ultimo qui).

Ecco allora che qualcuno ha pensato di codificare queste regole e chi le va a cercare sul web ne trova almeno 2 formulazioni rivali: quella proposta da shotgunrules.com (The Official Shotgun Rules) e quelle proposte da bored.com (Shutgun Rules).

Io manterrò un approccio eclettico, ma poiché le seconde mi sembrano presentate in modo più ordinato mi atterrò sostanzialmente alle regole di bored.com (certamente tra le 2 scuole di pensiero ci saranno dissidi insanabili e in questo preciso momento mi starò facendo una barca di nemici).

Titolo I – Regole generali

  1. La prima persona che grida “SHOTGUN” si siede davanti.
  2. I posti posteriori restanti possono essere assegnati allo stesso modo chiamando “posteriore destro” e così via.
  3. La parola “shotgun” deve essere pronunciata a voce abbastanza alta da essere udita da almeno un testimone. Se non ci sono testimoni, o se 2 persone hanno chiamato “shotgun” simultaneamente, l’ultima parola spetta al conducente: probabilmente la macchina è la sua [nota: se la macchina non è sua, e il proprietario è presente, l’ultima parola è la sua, a patto che sia sobrio; in caso contrario la decisione finale spetta al conducente].
  4. Sono vietate le prenotazioni. Prima che si possa chiamare “shotgun” tutti gli occupanti del veicolo (incluso il conducente) devono essere fuori e diretti alla macchina. Chiamare “shotgun” dentro un edificio è severamente vietato. Per semplicità, parcheggi e garage sono considerati “fuori” anche se sotterranei.
  5. Si può chiamare “shotgun” soltanto per una tratta del viaggio. È vietato chiamare “shotgun” all’interno del veicolo o quando si è ancora tecnicamente in viaggio per la prima destinazione. Ad esempio, non si può uscire un momento da veicolo e chiamare “shotgun” per il viaggio di ritorno.
  6. In base al principio di eguaglianza (“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”), gli uomini hanno gli stessi diritti delle donne quanto al posto anteriore del passeggero; in altre parole, le donne non hanno il privilegio di quel posto.
  7. Ognuno può sedere al posto anteriore del passeggero tutte le volte che ha chiamato “shotgun” con successo. Questo diritto è strettamente personale e non cedibile: non si può chiamre “shotgun” a favore di un amico più lento, a meno che questi abbia un conclamato svantaggio mentale o di fonazione che gli impedisce di chiamare “shotgun”.
  8. Il conducente ha l’ultima parola in caso di chiamate simultanee o dispute, l’ultima parola spetta al conducente (salve le eccezioni di cui all’art. 1). Il conducente può anche sospendere o rimuovere i privilegi di “shotgun” da uno o più partecipanti.

Titolo II – Casi speciali

Le eccezioni alle regole generali presentate nel seguito devono essere considerate in ordine; il caso presentato per primo prevale su tutti i casi sottostanti, qualora applicabili; e così via.

  1. Nel caso in cui il regolare conducente del veicolo sia ubriaco o comunque temporaneamente incapace di svolgere i suoi doveri di conducente, gli spetta di diritto di sedere al posto anteriore del passeggero.
  2. Nel caso in cui il proprietario del veicolo non stia guidando, gli spetta di diritto di sedere al posto anteriore del passeggero, salvo rinuncia esplicita.
  3. Nel caso in cui nel gruppo sia presente il/la sposo/a, compagno/a, partner o escort temporaneo/a del conducente del veicolo, al/la sposo/a, compagno/a, partner o escort temporaneo/a spetta di diritto di sedere al posto anteriore del passeggero, salvo rinuncia esplicita.
  4. Nel caso in cui uno dei passeggeri abbia un attacco di mal d’auto tale da far temere una crisi di vomito, gli è concesso di sedere al posto anteriore del passeggero.
  5. Nel caso in cui soltanto uno dei passeggeri conosca la strada per raggiungere la meta del viaggio e lo stesso conducente ne sia ignaro, allora viene designato navigatore del gruppo e come tale gli spetta di diritto di sedere al posto anteriore del passeggero, salvo rinuncia esplicita.
  6. Nel caso in cui uno dei passeggeri sia troppo alto o grasso per sedere confortevolmente dietro, il conducente ha facoltà di provare pietà per questo “scherzo di natura” e concedergli di sedere al posto anteriore del passeggero. Qualora non eserciti questa pietosa facoltà, lo “scherzo di natura” starà seduto dietro e gli altri passeggeri potranno tormentarlo a loro piacimento.

Titolo III – Casi bastardi: la sopravvivenza del più forte

  1. Il conducente ha facoltà di dichiarare in vigore la regola della sopravvivenza del più forte. In tal caso tutte le regole dei Titoli I e II sono sospese, salvo l’art. I.8 e il posto anteriore del passeggero può essere preso con la forza.
  2. Il conducente deve annunciare l’entrata in vigore della regola della sopravvivenza del più forte con ragionevole anticipo, al fine di contenere i danni al veicolo e lo spargimento di sangue.
  3. Per eventuali fattispecie non coperte dalle regole seguenti, fate ricorso alle previsioni dell’art. I.8.

Seguono alcune norme transitorie e finali, che non mette conto di riportare.

Vale la pena di segnalare quale sarebbe l’origine del termine shotgun. Pare sia questa: nelle carovane del Far West, il conducente teneva le redini del tiro di cavalli sedendo su una panca fissata sulla parte anteriore esterna del carro. Accanto a lui, di norma, sedeva un uomo armato di fucile a canne mozze (shotgun) come deterrente per eventuali imbvoscate e rapine. Lo stesso accadeva per le diligenze, dove anzi l’assenza dell’uomo armato era un segnale che avvertiva trattarsi di un veicolo per passeggeri, privo di cassaforte portavalori.

Le pagelle d’epoca fascista in un articolo di Salon.com

Salon riprende oggi, 8 giugno 2012, un articolo di Steven Heller originariamente pubblicato su Imprint.

Belle e curiose le immagini, che per noi italiani di una certa età sanno soprattutto di vecchia burocrazia: le nostre pagelle non erano poi tanto diverse, a parte le icone della propaganda.

Fascist report cards – Salon.com

 

Pagella 2

Pagella 4