All’inizio del suo fortunato libro sulla saggezza delle folle (The Wisdom of Crowds, New York: Doubleday, 2004), James Surowiecki racconta un aneddoto su Francis Galton, uno dei padri fondatori della statistica. Nell’autunno del 1906 Galton, ormai 85enne, visitò una fiera zootecnica a Plymouth, attratto dai suoi interessi in tema di eugenetica. Le sue convinzioni in materia – non limitate al bestiame, ma estese all’ereditarietà nelle società umane – erano che soltanto pochi individui avessero i caratteri necessari a mantenere una popolazione in buona salute. Aveva inventato due discipline, l’antropometria e la psicometria, per misurare le caratteristiche fisiche e mentali, pervenendo alla conclusione che “la stupidità di molti uomini e donne era così grande da non credersi” e che soltanto se il controllo del potere restava saldamente nelle mani dei pochi migliori la società poteva prosperare.
Al centro di una piccola folla era esposto un bue, e per sei pence si poteva scommettere sul suo peso, una volta macellato; chi si fosse avvicinato di più al peso effettivo avrebbe vinto un premio in danaro. Galton notò, con la consueta acutezza, che la situazione si prestava a un esperimento scientifico: non c’era la possibilità che le scommesse fossero influenzate dall’oratoria di un imbonitore; il costo del biglietto scoraggiava i burloni e la prospettiva del premio spingeva ciascuno a fare del suo meglio. Soprattutto, la composizione degli scommettitori era assai varia: accanto ad allevatori e macellai esperti, c’era un gran numero di curiosi e di visitatori occasionali (“lo scommettitore medio – commentò Galton – non era probabilmente più competente a giudicare il peso del bue, di quanto non sia l’elettore medio nel giudicare il merito di una proposta politica, e anche la varietà dei gruppi era analoga”).
A questo punto, Galton chiese agli organizzatori della riffa di poter disporre per qualche giorno dei biglietti e – dopo averne eliminati tredici illeggibili – tabulò in ordine crescente le 787 stime e calcolò un insieme di misure statistiche. Sulla base del principio democratico “un voto, un valore” – osservò Galton nel resoconto dell’esperimento (“Vox populi”, Nature, No. 1949, Vol. 75, March 7, 1907) – il valore centrale rappresentava la scelta della maggioranza, cioè la vox populi, perché tutti gli altri valori sarebbero stati respinti come troppo elevati o troppo bassi da una maggioranza dei votanti. Il valore centrale stimato dai partecipanti risultò essere di 1.207 libbre, a fronte di un valore vero, misurato dopo la macellazione dell’animale, di 1.198 libbre. La stima di un’accozzaglia piuttosto casuale di visitatori della fiera zootecnica, in altre parole, si era avvicinata molto al peso reale, con un’approssimazione inferiore all’1 per cento!
Questo non era quello che Galton, sulla base delle sue convinzioni, si sarebbe aspettato; ma poiché nell’uomo la deontologia scientifica prevaleva sulle opinioni, per quanto radicate e radicali, la conclusione dell’articolo riconosce i meriti della democrazia: “Questo risultato, ritengo, va a merito dell’attendibilità di un giudizio democratico più di quanto ci si potesse aspettare”.
Questo punto d’arrivo richiama quello attribuito a un altro grande conservatore, Winston Churchill: “It has been said that democracy is the worst form of government except all the others that have been tried”.
Tutto bene, quindi? Sulla base dell’esperimento di Galton, ci possiamo aspettare che il giudizio formulato da 787 visitatori di una fiera zootecnica, o da 945 deputati e senatori, per quanto incompetenti sull’oggetto di deliberazione, si avvicini alla scelta migliore? Non c’è modo di migliorare la democrazia?
In realtà, non è del tutto chiaro se Galton stabilisca un parallelismo tra i partecipanti alla lotteria zootecnica e il corpo elettorale, o i suoi rappresentanti. Nella prima ipotesi, il ragionamento si applicherebbe soltanto ai casi di democrazia diretta, in cui l’insieme degli elettori sia chiamato a “giudicare il merito di una proposta politica”. Questo caso è abbastanza raro in Italia, dove l’istituto del referendum è regolamentato piuttosto restrittivamente (non accade così in altri paesi europei, come la Svizzera, in cui gli elettori sono chiamati spesso a esprimersi in materia legislativa).
Nelle democrazie rappresentative, invece, il corpo elettorale sceglie un certo numero di rappresentanti, cui delega il compito di assumere, in sua vece, le decisioni politiche. In questa seconda ipotesi, il ragionamento di Galton dovrebbe applicarsi ai membri eletti del parlamento. Tuttavia, i 945 deputati e senatori italiani non sembrano avere i requisiti necessari: la circostanza che le scelte siano influenzate dall’oratoria fa parte delle regole del gioco democratico; non vi sono costi espliciti tali da scoraggiare i burloni o gli irresponsabili; non ci sono forti incentivi a fare del proprio meglio (salvo quello della rielezione, che, però, non è legato alla singola valutazione politica). Soprattutto, i 945 parlamentari non hanno la necessaria “varietà”: non si tratta certo di un’accozzaglia di esperti, curiosi e visitatori occasionali, quanto di un contingente di persone che – quale che ne sia la motivazione – hanno fatto della politica la loro professione.
In questo caso, dunque, le premesse statistiche dell’applicabilità del ragionamento di Galton vengono meno. Per migliorare la democrazia si apre piuttosto la possibilità di sorteggiare i membri del parlamento, in modo che siano al tempo stesso rappresentanti e rappresentativi del corpo elettorale.