Refugees

Vorrei suggerirvi di (ri)ascoltare una vecchia canzone dei Van der Graaf Generator (1969), magari leggendo le parole, che sono anch’esse bellissime:

North was somewhere years ago and cold:
Ice locked the people’s hearts and made them old.
South was birth to pleasant lands, but dry:
I walked the waters’ depths and played my mind.
East was dawn, coming alive in the golden sun:
the winds came, gently, several heads became one
in the summertime, though august people sneered;
we were at peace, and we cheered.
We walked alone, sometimes hand in hand,
between the thin lines marking sea and sand;
smiling very peacefully,
we began to notice that we could be free,
and we moved together to the West.

West is where all days will someday end;
where the colours turn from grey to gold,
and you can be with the friends.
And light flakes the golden clouds above all;
West is Mike and Susie,
West is where I love.

There we shall spend our final days of our lives;
tell the same old stories: yeah well, at least we tried.
Into the West, smiles on our faces, we’ll go;
oh, yes, and our apologies to those
who’ll never really know the way.

We’re refugees, walking away from the life
that we’ve known and loved;
nothing to do or say, nowhere to stay; now we are alone.
We’re refugees, carrying all we own
in brown bags, tied up with string;
nothing to think, it doesn’t mean a thing,
but we’ll be happy on our own.
West is Mike and Susie;
West is where I love,
West is refugees’ home.

Non sono riuscito a trovare un video con questo brano, ma un’idea di cosa facevano i VDGG nel 1969-70 potete vederlo e sentirlo qui.

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The Undercover Economist

Tim Harford. The Undercover Economist. New York: Random House. 2007.

Tim Harford, economista e giornalista, cura sul Financial Times una rubrica con lo stesso titolo del libro e un’altra (Dear Economist) in cui risponde ai lettori su quesiti che riguardano l’economia e la vita quotidinana. Spesso, quest’ultima rubrica viene ripresa e tradotta in Italia da Internazionale, il settimanale di Giovanni De Mauro (che colgo l’occasione per raccomandare vivamente: è il più bel settimanale in circolazione).

Il libro non è una raccolta o una rielaborazione degli articoli comparsi sul Financial Times, ma potrebbe esserlo — e questo è il suo difetto principale. Anche se toccano argomenti quasi sempre interessanti, i dieci capitoli non seguono un filo logico stringente. Per alcuni, il carattere contingente — e dunque l’origine quale articolo o commento giornalistico — è evidente: è il caso della valutazione del successo delle aste UMTS nel Regno Unito, ma anche quello della spiegazione delle ragioni della crescita economica in Cina o del sottosviluppo in Camerun (quest’ultimo capitolo è francamente imbarazzante, mescolando “saggezza economica”, luoghi comuni e un po’ di razzismo). Altri capitoli sono più stimolanti. Il mio preferito resta il secondo (What Supermarkets Don’t Want You to Know), ma anche il primo non è male (Who Pays for Your Coffee?).

Una critica più stringente emerge dal confronto con un altro bestseller in materia di divulgazione economica grosso modo coevo: Freakonomics di Steven Levitt (S. Levitt-S. Dubner. Freakonomics: A Rogue Economist Explores the Hidden Side of Everything. New York: HarperCollins. 2005). Il punto mi sembra questo: Harford è un economista mainstream, Levitt è un economista briccone. Harford tende a essere apologetico, a ripetere — anche se con indubbia eleganza e capacità di rendere semplici e appetibili concetti e modi di ragionare considerati (non del tutto a torto) intrinsecamente pallosi — argomenti noti, ad applicarli a contesti certo rilevanti per la vita quotidiana, ma comunque “economici”. Levitt invece ci sorprende applicando i metodi e i modi di ragionare dell’economista — i metodi e i modi di ragionare, non necessariamente le lezioncine del catechismo economico! — a contesti a cui non viene per nulla immediato applicarli, come le premesse e le conseguenze economiche dei nomi che i genitori attribuiscono ai bambini, o il rischio comparato di tenere in casa una pistola o di avere una piscina in giardino!

Un altro modo di vedere la differenza tra i due. Harford applica ai problemi quotidiani la teoria economica, ed è attraverso la teoria che arriva alla radice del metodo, soprattutto con riferimento al ruolo degli incentivi, alla necessità di ragionare in termini relativi e comparativi, e all’argomentazione “al margine”. Levitt applica ai problemi quotidiani un approccio solidamente quantitativo, con l’analisi dei dati statistici e la formulazione di modelli, e per questa via ci scuote dalla comoda abitudiune di dare per scontata una visione delle cose e di accettare acriticamente l’opinione degli “esperti” e ci invita a usare il nostro senso critico e a “disintermediare” il nostro accesso ai fatti e ai dati. In questo modo, Levitt ci impartisce una lezione più profonda di quella di Harford: una lezione di metodo che va al di là dell’economia per investire il complesso delle “scienze sociali”. Applicare il metodo scientifico alle scienze sociali — ci suggerisce Levitt — significa mettere tra parentesi tutte le ideologie: non soltanto quelle che vorrebbero sottrarre alcuni oggetti “moralmente sensibili” all’indagine scientifica, ma le stesse componenti ideologiche della teoria economica.

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