Ings, Simon (2007). The Weight of Numbers. New York: Black Cat (Grove/Atlantic). 2007.
Ings, Simon (2007). Il peso dei numeri. Milano: Il Saggiatore. 2007.
Non un capolavoro, ma un’interessante sorpresa. Simon Ings non scrive in modo brillante o travolgente, e il libro ha dei momenti morti. Ma la storia che racconta, e come la racconta è molto interessante. Lo consiglio.
Quello che è difficile è raccontare di che parla il libro. Quello che c’è scritto sulla copertina, ma anche gran parte di quello che ho letto in giro, porta fuori strada, secondo me. Proverei a metterla così: ci crediamo, noi umani voglio dire, i padroni del mondo e del nostro destino. Quanto al secondo aspetto, l’idea è stata ridicolizzata molte volte, ed è la trama segreta di moltissimi bei romanzi. Basti per tutti uno dei più antichi che conosciamo, Gilgamesh, dove l’eroe eponimo – dopo essere arrivato letteralmente ai confini del mondo ed essersi immerso nell’abisso più profondo per recuperare la pianta dell’immortalità (è la pianta dell’irrequietezza!) – si addormenta sfinito sulla spiaggia e ne viene derubato da un serpente (morale: i serpenti, cambiando pelle, sono immortali, e noi no). Ma il destino di cui parla Ings non è quello confezionato da un dio benevolo o maligno, né da qualche sua versione immanente (la storia, lo spirito del mondo…); il destino di Ings è quello del peso dei numeri: siamo sospinti nella vita e nelle nostre azioni da innumerevoli piccoli eventi, dall’interazione di persone che non conosciamo e che ci cambieranno la vita, da incontri e circostanze casuali. Un moto browniano, in cui noi siamo i granelli di polline mossi dagli urti con le molecole del fluido in cui siamo immersi. Tutto è profondamente casuale.
Forse c’è anche qualcosa di più, che fa riferimento al primo aspetto: siamo i padroni del mondo? Anche qui, c’è un’idea di progresso che è stata ridicolizzata (Voltaire batte Hegel 1-0). Anche il mio amato Leibniz (almeno quello dell’armonia prestabilita) non sta benissimo. Il progresso che è stato ridicolizzato è quello fondato sul presupposto che noi siamo il fine della storia. Ma c’è un’altra accezione in cui l’idea di progresso non è tanto peregrina: il nostro mondo si è mosso verso la complessità informativa.
Per gran parte del XX secolo, l’idea ottocentesca di progresso, applicata alle società umane, è stata screditata. Mentre le teorie evoluzionistiche di Darwin applicate alla biologia – anche grazie a Mendel prima, e alla scoperta del Dna negli anni Cinquanta – si sono progressivamente affermate nel corso del Novecento, la convinzione che inevitabili forze storiche fossero alla base di un progresso sostanzialmente lineare nell’organizzazione della società umana, pur condivisa da pensatori distanti tra loro come Karl Marx, John Stuart Mill e Herbert Spencer, è stata a lungo considerata non soltanto infondata, ma ideologicamente pericolosa. Più di recente, il dibattito sulla “direzionalità” della storia umana si è riaperto, su basi nuove, grazie a Nonzero. The Logic of Human Destiny, un fortunato libro di Robert Wright (1999): Wright associa il concetto di evoluzione culturale a quello di crescita della complessità e vede nell’esistenza di giochi a somma non-nulla il meccanismo propulsore.
Partendo da qui, possiamo ipotizzare che il progresso che apparentemente ha condotto fino a noi (una versione debole del principio antropico? – ma questa è una digressione che ci porterebbe lontano) possa proseguire lasciandoci indietro. Lo intuisce Anthony Burden – uno dei protagonisti – a pagina 398 dell’edizione americana:
“The net has been cast. Anthony Burden can see this. […] He knows about these places and how they work: how the till talks to the stock control computer, which talks to the email generator, which talks to the supplier’s mainframe, and on and on and on. He can see, as though it was etched on the air, the self-stitching net that has been thrown over the world. He can see the struggles of people trapped within that net. He knows where the dreams of his youth have led.
As the boy struggles through his robot day, Anthony Burden realizes it has been given him, in this final years of his much-travelled and impecunious life, to witness something important. Here now, in a Portsmouth burger bar, he is witnessing the birth struggles of a world he has always dreamed of: a pre-wired, pre-fabricated world that has no need of peolpe. A world already in control of itself”.
martedì, 8 Maggio 2007 alle 22:05
[…] Il principio antropico Una digressione che avevo promesso nella recensione di The Weight of Numbers. […]