Cavillo

Il significato è noto: “argomento sottile e capzioso, usato per trarre in inganno gli altri: ricorrere a cavilli, cercare cavilli | clausola capziosa: un contratto di vendita pieno di cavilli; cavillo burocratico, condizione o norma sottilmente congegnata che costituisce un impedimento, un impaccio”. Per estensione: “inganno, raggiro” (De Mauro online).

Quello che ho scoperto di sorprendente è che non ha nulla a che fare con capello (in fin dei conti, mi dicevo, c’entrerà con il modo di dire “fare il capello in quattro”). In latino cavillari significa “prendere in giro” e la parola ha radice greca e sanscrita (la stessa di calunnia).

Sospetto

Sospetto (Suspicion), 1941, di Alfred Hitchcock, con Cary Grant e Joan Fontaine.

Terzo DVD del cofanetto di Cary Grant (dopo Un amore splendido e Il visone sulla pelle).

Questo è un capolavoro. Mancato, come vedremo, ma un capolavoro.

ATTENZIONE: non leggete oltre se non volete rovinarvi la suspense.

Girato a Hollywood, ma inglese per tema, ispirazione (il romanzo Before the Fact di Francis Iles), attori (in particolare Joan Fontaine) e ambientazione (Hitchcock si lamentava della troppa luce degli esterni). La storia di una donna che sospetta che il marito (comunque bugiardo e fannullone) possa essere un assassino. La classica detective story inglese, in cui però l’investigatrice è la vittima potenziale. Il passaggio dal tema del libro (una donna si accorge di aver sposato un assassino e si lascia uccidere) a quello del film (una donna sospetta che il marito posssa essere un assassino e non sa se a torto o a ragione – e noi con lei) è il colpo di genio di Hitch (leggete in proposito il bel libro di Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock).

Cary Grant qui è cattivo. Si racconta che la RKO volesse tagliare tutte le scene in cui l’espressione di Cary Grant era minacciosa, ma il film così sarebbe durato 55 minuti invece di 1 ora e 40.

Racconta Hitchcock a Truffaut:

Non mi piace la fine del film, ne avevo pensata un’altra, diversa dal romanzo: quella che volevo, ma non ho mai realizzato, era: Cary Grant porta il bicchiere di latte avvelenato, Joan Fontaine è intenta a scrivere una lettera a sua madre: “Cara mamma, sono irrimediabilmente innamorata di lui, ma non voglio vivere. Sta per uccidermi e preferisco morire. Ma penso che la società dovrebbe essere protetta contro di lui”. Poi dice a Cary Grant che le ha appena dato il bicchiere di latte: “Caro, per favore, vuoi spedire alla mamma questa lettera per me?”. Egli risponde: “Sì”. Lei beve il bicchiere di latte e muore. Dissolvenza, apertura, breve scena: Cary Grant arriva fischiettando, apre una buca delle lettere e butta dentro la lettera.

Invece il film finisce ambiguamente, con l’inversione a U della macchina dei due lungo la corniche, dopo una colluttazione inverosimile e mal riuscita. Per questo il capolavoro è mancato.

Il film ha alcune invenzioni memorabili: la luce che filtra dalle finestre a riquadri proietta una ragnatela sul volto degli attori; i protagonisti giocano agli anagrammi con le tessere di Scarabeo e compondono la parola murder; ma soprattutto, il minaccioso bicchiere di latte che Cary Grant porta salendo le scale, che brilla di luce propria grazie a una lampadina nascosta al suo interno.

L’oggetto (l’arma del delitto) diventa protagonista, come le forbici di Dial M for Murder, e il film poteva finire qui.

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Deiscente

Deiscènte: “di frutto o altro organo vegetale, capace di aprirsi spontaneamente liberando semi, polline o spore” (De Mauro online).

Dal latino de (da, via da) e hiscere (spaccarsi in due, forma incoativa di hiare – la stessa radice di iato).

Si definiscono deiscenti i frutti che a maturità si aprono spontaneamente per far fuoriuscire i semi (per esempio sono deiscenti i frutti del castagno e del melograno). Si dicono indeiscenti i frutti che a maturità non si aprono spontaneamente per liberare i semi, e che permangono fino alla germinazione o si distruggono per marcescenza (Wikipedia).

Alcuni frutti deiscenti sono molto belli per la geometria dell’apertura: ad esempio, quello comunissimo del pitòsforo. Qui sotto vedete il frutto prima chiuso e poi aperto (i semi rossi sono appiccicosi, e il nome greco significa appunto “seme di pece”).

In alcuni casi la deiscenza è spettacolare, come nel cocomero asinino (Ecballium elaterium):

È una pianta tipica dei paesi mediterranei, originaria dalle regioni aride dell’Africa settentrionale. In antichità è stata usata da Egizi, Greci e Romani come purgante drastico. Chiamata anche elaterio o sputaveleno, è alta 20-40 cm e cresce nei terreni incolti, ai margini dei campi, un po’ ovunque nelle regioni peninsulari litoranee e nelle isole. È una pianta erbacea perenne, strisciante, dotata di un fusto prostrato, coperto di pelli ruvidi. I fiori di color giallastro, venati di verde, simili a quelli del melone, sono situati all’ascella delle foglie. È molto caratteristica per questa pianta la modalità con cui avviene il distacco del frutto. A maturazione avvenuta, infatti, i gas presenti all’interno del frutto raggiungono una pressione critica ed il frutto stesso, simile ad una grossa ghianda verde, si stacca bruscamente dal pedunculo, spontaneamente o al minimo contatto; i semi e la sostanza mucillaginosa in cui sono contenuti vengono spruzzati a distanza, mentre la capsula vuota viene lanciata in direzione opposta per reazione.
Il quadro tossicologico, causato sia dalla ingestione che dal contatto cutaneo con la pianta, è costituito dai sintomi di una violenta gastroenterite: nausea vomito e diarrea muco-sanguinolenta.

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Brucia Troia

Veronesi, Sandro (2007). Brucia Troia. Milano: Bompiani. 2007.

Cominciamo dlla fine, e poi facciamo un flashback. Brucia Troia è un romanzo brutto e inutile. Peggio, se mi avessero invitato a una lettura cieca (come quando ti fanno degustare un vino dalla bottiglia avvolta nella stagnola, e devi dirne tipo, paese d’origine e produttore), non avrei indovinato che l’aveva scritto Veronesi se non – forse – perché avrei riconosciuto Prato…

E dire che sono un estimatore di Veronesi, e che non più di 10 giorni fa ho detto (suscitando qualche scherno) che è il più grande giovane romanziere italiano (Veronesi è quasi mio coetaneo, e mi accorgo di avere ormai il patetico vezzo dei vecchi di chiamare giovani tutti quelli più giovani di me).

Il primo libro di Veronesi che ho letto è stato Gli sfiorati (1990), che mi è piaciuto moltissimo fin dalle prime pagine. Anzitutto per la descrizione della generazione che dà il titolo al romanzo, quella che ha avuto tutto senza dover chiedere niente (decisamente una generazione successiva alla mia, con cui ho evidentemente identificato l’autore: per questo, più seriamente di quello che ho detto prima, da me percepito come giovane). Per l’ironia. Per alcune scene memorabili (la prima descrizione narrativa della realtà della comunità filippina; il paradosso della Feltrinelli di via del Babuino, più vicina a piazza del Popolo se vieni da piazza di Spagna, e viceversa; le visite all’amico morto al cimitero di Prima Porta, in realtà motivate da una coltivazione di cannabis sulla tomba; le interferenze della Radio Vaticana). Per la scrittura a tratti sperimentale. E anche per la foto della quarta di copertina, l’autore seduto sulla tomba di Belinda Lee al cimitero acattolico di porta San Paolo (si chiama Belinda anche la protagonista del romanzo).

Il secondo è stato Venite, venite B-52 (1997). I B-52 erano le fortezze volanti della guerra del Vietnam, andate in pensione dopo la guerra del Golfo nel 1991; adesso ci bombarda B-16, il pastore tedesco. Ennio Miraglia, il protagonista, è ispirato a un imbonitore televisivo (che seguivo con delizia sulle private, e di cui non ricordo più il nome); Viola è la figlia della singolare preghiera. Ancora più sperimentale, ambientato tra Versilia e Alpi Apuane.

Nel 2000 esce La forza del passato. Veronesi è diventato grande, e comincia a fare i conti con se stesso. Lo sperimentalismo è passato, ma la capacità di inventare, narrare e osservare resta. Restano anche l’ironia e la capacità di schizzare ritrattini memorabili. Mi è forse piaciuto un po’ meno degli altri: quando passo sull’Ostiense ci penso spesso, il protagonista abitava lì, ma il ricordo è sfocato.

Di Caos calmo (2005) è stato detto e scritto moltissimo. C’è continuità d’introspezione autobiografica (sì, lo so, se fossi l’autore m’incazzerei!) con La forza del passato, ma anche una maggiore complessità di registri. Il gioco del “purtroppo” con il navigatore è diventato per me una grande distrazione nei viaggi. Poi, c’è la presenza di Roccamare, ormai un luogo letterario della narrativa italiana (Palomar di Italo Calvino, che c’è morto; Enigma in luogo di mare di Fruttero e Lucentini; e ora Caos calmo) e che per me è il luogo di alcuni dei ricordi più belli (le passeggiate nella pineta a studiare le piante e le impronte, il moletto Anacleto, l’arcobalegno, Celso e le corse all’ospedale di Grosseto hanno scandito il crescere dei miei figli…). La vita corre insieme a te, poi tu ti fermi e il resto continua, e quando riesci a muoverti di nuovo tutto è cambiato (sogno spesso di non riuscire più a camminare, e che ogni passo mi costa uno sforza enorme e vano…).

OK, penso di aver dato un’idea del mio amore per Veronesi e dei motivi per raccomandare i suoi romanzi. Brucia Troia (il titolo è quello di una canzone di Vinicio Capossela) non ha nulla di tutto questo: nessuna ironia, nessuna osservazione personale, nessun coinvolgimento emotivo (mi sembra). Irriconoscibile. Era stato iniziato nel 1987 ed è stato ripreso e completato vent’anni dopo. Forse il cigno Veronesi era ancora un brutto anatroccolo, e la cosa è d’interesse per chi ci vorrà fare una tesi di laurea. Perché pubblicarlo ora? Non riesco a capirlo, se non sospettando una pressione dell’editore per sfruttare il successo di Caos calmo (“prossimamente un film interpretato da Nanni Moretti”…), ma è un’ipotesi che non fa onore a Veronesi. D’accordo, il 1970 (oltre che della stramaledettissima partita Italia-Germania 4-3, di cui sinceramente ne abbiamo pieni i mediatici coglioni) è l’anno di transizione dalla provincia sonnacchiosa alla modernità (o alla post-modernità) della Prato d’oggi, e forse dell’Italia intera, ma il romanzo non riesce a convincerci della sua rilevanza. E penso che il peggio che si possa dire di un romanzo sia: “e allora?”

Veronesi: amici come prima, spero. Ma dacci un romanzo vero. Possiamo aspettare anche 4-5 anni: l’abbiamo già fatto.

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La squadra 8 (5)

Ci sarebbe moltissimo da dire, ma mi limiterò a un aspetto solo: la storia di Walter Battiston e della bella vedova del sarto. S’era intravisto qualcosa nel trailer della settimana scorsa e c’ero cascato anch’io.

Per chi non l’avesse visto, Battiston ha una sorpresa – e tutti noi con lui. E reagisce malissimo – forse molti di noi l’avrebbero fatto – cacciandola in malo modo dalla macchina.

Ma l’episodio solleva un importante interrogativo morale (ma sì, usiamola questa parola, senza scare quotes): ci si innamora di una persona o di una femmina (o di un maschio)?

Mi piacerebbe rivedere l’episodio, ma mi pare che poco prima di baciarla e di infilarle le mani sotto la gonna, Battiston dica: “Ho voglia di baciarti… Da tempo aspettavo di incontrare una donna come te”. E se avesse detto “una persona come te”? Avrebbe fatto una grossa differenza?

Battiston ha scoperto che si può essere sessualmente attratti da un uomo – travestito quanto si vuole, ma indubbiamente ambiguamente mascolino (o femminile, secondo i punti di vista) – senza essere omosessuale. E noi con lui. Almeno, io non ho paura a dirlo: l’ho trovata bella e intrigante fin dalla prima volta che è comparsa nella sartoria. E ne parlo al femminile a ragion veduta, anche se dopo averci pensato un po’. (Mi resta però la curiosità di saperer se il personaggio è interpretato da un attore o da un’attrice.)

Avrei reagito come Battiston? Può darsi, ma non credo. Mi è difficile dire a priori quanto nell’attrazione sessuale giochi il comun denominatore del sesso “in sé e per sé” e quanto la voglia di quella specifica persona (qui le scare quotes servono a dire che in realtà non penso che possa esistere il sesso in sé e per sé, ma che sia semmai il sostrato di un’attrazione che è sempre personale). Non mi sono mai trovato nella situazione di Battiston, ma mi è capitato di innamorarmi e di fare l’amore con donne che, a priori e in astratto, non rispondevano ai miei canoni di bellezza e di sex appeal. Eppure.

So bene che non è la stessa cosa. Ma in questi tempi di certezze e di crociate, ringrazio La squadra per averci insinuato un dubbio.

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Brontofobia

Secondo il De Mauro on line, “paura morbosa dei tuoni e dei temporali”.

Un’altra fobia riportata nella lista ufficiale alla voce Brontophobia (“fear of thunder and lightning”).

Ne soffriamo un po’ tutti, e ragionevolmente, direi.

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La rivolta del ghetto di Varsavia

Il 16 maggio 1943 la rivolta del ghetto di Varsavia fu considerata conclusa, con l’atto simbolico della distruzione della sinagoga.

Il comandante tedesco Jürgen Stroop stilò un rapporto finale, in cui affermava tra l’altro: “180 ebrei, banditi e subumani sono stati distrutti. Il quartiere ebreo di Varsavia non esiste più. L’azione principale è stata terminata alle ore 20:15 con la distruzione della sinagoga di Varsavia… Il numero totale degli ebrei spacciati è di 56.065, includendo sia gli ebrei catturati che quelli del quale lo sterminio può essere provato.”

L’ordine di distruggere il ghetto di Varsavia era stato impartito il 1° febbraio. Gli abitanti avevano costruito bunker e passaggi sotterranei, utilizzando le fogne e i condotti per l’acqua. La battaglia era iniziata il 19 aprile quando, in coincidenza con la Pesach, la pasqua ebraica, 2.000 soldati tedeschi (821 appartenenti alle micidiali Waffen-SS) invasero il ghetto. Al fuoco delle armi leggere e alle granate dei difensori, i tedeschi opposero il cannoneggiamento e l’incendio delle case. La carenza d’ossigeno prodotta dagli incendi provocò la morte di 6.000 persone. Altre 7.000 furono uccise nella battaglia. 50.000 vennero deportate, per lo più a Treblinka, e sterminate.

Le case superstiti vennero rase al suolo e il luogo – coerentemente con l’osceno senso del teatro dei nazisti – venne destinato alle esecuzioni di prigionieri e ostaggi polacchi. In seguito vi venne costruito il campo di concentramento di Varsavia.

Testimone della rivolta del ghetto e della successiva rivolta di Varsavia del 1944 (un’azione della resistenza polacca terminata altrettanto tragicamente) fu il pianista Wladyslaw Szpilman. La sua autobiografia è diventata un bel film di Roman Polanski, Il pianista.

Estivazione

Stato di quiescenza che si manifesta in alcuni animali durante la stagione calda (De Mauro online). Anche di alcune piante, aggiungo io, ed è forse il fenomeno più facile da osservare: quando, in luglio-agosto, ci capita di vedere campi d’erba secca oscillare al vento, non è sempre il caso di maledire il riscaldamento globale o l’abbandono delle coltivazioni, ma è un modo delle piante di proteggersi dal caldo e dalla disidratazione.

Quindi, “estivazione” è il contrario (l’antonimo) di “ibernazione” (stato di quiescenza che si manifesta in alcuni organismi animali o vegetali durante la stagione fredda” – chissà perché il De Mauro si ricorda delle piante a proposito d’ibernazione e non di estivazione).

Quello che non sapevo è che il latino aestas (estate) condivide l’etimologia con l’inglese heat (caldo).

La cerniera lampo (2)

DNA molecule zipping unzipping

Gideon Sundback non lo poteva sapere, nel 1913, ma la cerniera lampo era già stata “inventata” dall’evoluzione, nella struttura del DNA.

Il visone sulla pelle

Il visone sulla pelle (That Touch of Mink), 1962, di Delbert Mann, con Cary Grant e Doris Day.

Secondo DVD del cofanetto di Cary Grant.

È un filmetto, ma si vede volentieri. La commedia è leggera leggera, e per capirla bisogna tuffarsi nei primi anni Sessanta, in cui una trentacinquenne nubile (Doris Day aveva 38 anni!) poteva ancora farsi un problema a passare una vacanza alle Bermuda con un miliardario.

La battuta più carina di Cary Grant: “The Four Horsemen now have a riding companion. There’s War, Famine, Death, Pestilence, and Miss Timberlake”.

La battuta più carina di Doris Day – completamente ubriaca, a stento si regge in piedi: “Do you like the way I walk? I learned when I was a baby, been walking for years”. E poi cade dalla finestra.

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