Il 7 settembre 1812, 195 anni fa, si combatté la battaglia di Borodino, a 125 km da Mosca, tra la Grande Armée di napoleone e l’esercito imperiale russo agli ordini del generale Mikhail Kutusov. Fu la più grande battaglia campale combattuta in un sol giorno di tutta la campagna di Russia e di tutte le guerre napoleoniche: vi parteciparono oltre 250.000 uomini. Fu anche la più sanguinosa: le vittime delle due parti sono stimate in almeno 70.000, il che ne farebbe la battaglia più sanguinosa di tutti i tempi. L’esito della battaglia fu incerto sotto il profilo tattico, ma la vittoria strategica arrise ai francesi che dopo pochi giorni entrarono a Mosca.
La battaglia è famosa – o, meglio, è nota a me – per la narrazione di Tolstoj in Guerra e pace. Il principe Andrej vi è ferito a morte.
Il principe Andrej restava in piedi, indeciso. La granata, come una trottola, roteava fumando fra lui e l’aiutante disteso, al confine tra il campo e il prato, presso un cespuglio d’artemisia.
“Possibile che questa sia la morte? – pensava il principe Andrej, e con occhio del tutto nuovo, pieno d’invidia, guardava quell’erba, quell’artemisia, quel filo di fumo che spirava su su da quella turbinante palla nera. – Non posso, non voglio morire: amo la vita, amo quest’erba, quest’aria.” Pensava così e, nello stesso tempo, aveva presente che su lui erano puntati gli sguardi.
“Vergogna signor ufficiale!” si rivolse all’aiutante. “Che modo…”
Non terminò la frase. In uno stesso istante, si sentì un’esplosione, un fischio di schegge, come d’una finestra sfondata, un soffocante odore di polvere, e il principe Andrej si avventò da un lato e, alzando in aria le braccia, cadde bocconi.
La ferita del principe Andrej nella battaglia di Borodino, che si rivelerà mortale, è il corrispettivo della ferita che il medesimo principe aveva ricevuto, 7 anni prima, nella battaglia di Austerliz, ferita che avrebbe potuto essere mortale e non lo fu. Purtroppo, on-line è disponibile soltanto la traduzione inglese di Guerra e pace, e quindi vi dovrete accontentare (il brano che precede l’ho trovato fortunosamente).
“What’s this? Am I falling? My legs are giving way,” thought he, and fell on his back. He opened his eyes, hoping to see how the struggle of the Frenchmen with the gunners ended, whether the red-haired gunner had been killed or not and whether the cannon had been captured or saved. But he saw nothing. Above him there was now nothing but the sky–the lofty sky, not clear yet still immeasurably lofty, with gray clouds gliding slowly across it. “How quiet, peaceful, and solemn; not at all as I ran,” thought Prince Andrew – “not as we ran, shouting and fighting, not at all as the gunner and the Frenchman with frightened and angry faces struggled for the mop: how differently do those clouds glide across that lofty infinite sky! How was it I did not see that lofty sky before? And how happy I am to have found it at last! Yes! All is vanity, all falsehood, except that infinite sky. There is nothing, nothing, but that. But even it does not exist, there is nothing but quiet and peace. Thank God!…”
È per me un brano memorabile. Nel febbraio del 1970 (avevo 17 anni e Guerra e pace non l’avevo letto da molto) mi ruppi una gamba in montagna. Mentre aspettavo che una barella che mi venisse a prendere, guardavo il cielo sereno di quel primo pomeriggio d’inverno (“quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace”) e mi tornava in mente l’episodio del principe Andrej. Nemmeno io provavo dolore: quando l’osso s’era spezzato, con un rumore secco, avevo pensato si fossero rotti gli sci. La gamba era contorta in una posizione innaturale e non potevo alzarmi: ma finché non provavo a muovermi non sentivo nulla. Guardavo il cielo e ascoltavo le grida dei bambini. Il cielo era davvero alto e maestoso, una cupola immensa. Per un attimo anch’io pensai che dovevo essere grato per quello: un momento, una rivelazione, un privilegio concessi soltanto a me.
“Non esiste nulla, nulla di certo, tranne la vanità di tutto ciò ch’io posso comprendere, e la grandezza di qualche cosa che mi è incomprensibile, ed è più importante di tutto”.
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