Zelig, 1984, di e con Woody Allen.
Un capolavoro, un po’ compiaciuto – come è spesso Woody Allen – ma un capolavoro di ironia, di battute fulminanti, di nostalgia. Il tutto in 79 minuti.
Ma non è questo che volevo dire. Volevo dire che io sono un po’ Leonard Zelig. Ed essere un po’ Zelig è essere Zelig al quadrato, se ci riflettete. Sono Zelig perché (come tutti voi) – e in questo Zelig è un personaggio universale, un simbolo del nostro tempo come il miglior Chaplin – sono disposto a cambiarmi per essere assimilato, accolto: non riesco (ancora) a trasformarmi del tutto fisicamente, ma riesco a mimetizzarmi nel linguaggio, nei tic, nell’atteggiamento mentale di chi mi circonda. Non per conformismo, ma per timore di non essere accettato. E per non mettermi troppo in vista.
Lo zeligismo è però anche una forma di empatia: mettersi nei panni degli altri aiuta a capirli, a capirne le ragioni. Per questo, uno Zelig nazista è incongruo e il Ku-Klux-Klan vede in Zelig un triplice nemico (negro, indiano ed ebreo). Per questo, c’è anche uno zeligismo dell’amore: quando ci innamoriamo ci sentiamo trasformati (è l’inizio del processo) e ,via via che il processo si compie, le coppie di lunga data si trasformano fino a sembrarci un po’ autosimili, più fratelli che sposi, più famiglia che amanti.