Pamuk, Orhan (1979). Il castello bianco. Torino: Einaudi. 2006.
La copertina, come potete vedere, è bellissima. Il romanzo molto meno.
In un momento di lucidità, o forse di autocompiacimento, l’autore scrive:
Eccomi giunto oramai all’epilogo. Probabilmente, gli accorti miei lettori hanno già da tempo intravveduto l’esito del mio racconto e hanno deciso di disfarsene buttandolo da qualche parte (p. 144).
Ecco, confesso di aver avuto questa tentazione, e di avere resistito un po’ per testardaggine (non mi piace non finire i libri, anche se da tempo – da quando sono consapevole del fatto che, per quanto a lungo viva, non sarò mai in grado di leggere tutto quello che vorrei, e nemmeno tutto quello che ho in casa! – mi dico che dovrei farlo) , un po’ per rispettare un impegno unilaterale assunto con chi legge questo blog. Non che il romanzo sia brutto. È, piuttosto, irrilevante.
L’istinto mi diceva di non leggere un “caso letterario” (Pamuk ha vinto il Nobel per la letteratura nel 2006), come non ne ho letti altri. In genere, preferisco aspettare che il polverone si posi e si cominci a capire se siamo in presenza di un autore “vero”. Ma poi è arrivato un consiglio di amici…
Il castello bianco è un’opera giovanile del nostro e non è uno dei suoi romanzi più noti. Forse gli dovrebbe essere concessa una prova d’appello. La lingua è un po’ faticosa, ma non sono in grado di dire quanto la responsabilità sia dell’autore e quanto del traduttore.
Al centro della storia – per esplicita dichiarazione di poetica nel romanzo stesso e nella postfazione del romanziere – c’è il tema dell’identità e del sosia: E.T.A. Hoffman, Edgar Allan Poe, Dostoevskij, Stevenson. Ma a me, nelle strampalate imprese del Maestro e del suo schiavo – dai fuochi d’artificio all’astrologia, dai racconti illustrati alle macchine da guerra – sono venuti in mente soprattutto Bouvard e Pécuchet. Temo che non sia un accostamento gradito all’autore.
Interessante, anche se anacronistica, l’analisi scientifica per comprendere i meccanismi dell’epidemia di peste. Mi dà comunque l’occasione di raccontare una storia vera:
John Snow (1813-1858) era un medico inglese. Nel 1849 pubblicò On the Mode of Communication of Cholera dove suggeriva che il “veleno del colera” si riproduceva nel corpo umano e si diffondeva con cibi o acqua contaminati (la teoria prevalente era quella dei “miasmi”, cioè che il contagio avvenisse per inalazione di vapori infetti). Il libro fu lodato, ma Snow non poteva provare la sua ipotesi.
Nel 1854 scoppiò una nuova epidemia di colera a Londra. Snow allora rappresentò su una mappa i decessi e giunse alla conclusione che il principale focolaio era dovuto a una fontanella contaminata dalle fogne, all’intersezione tra Cambridge Street e Broad Street. La chiusura della fontanella si rivelò una misura profilattica efficace. L’ipotesi di Snow poté dirsi dimostrata. La sua mappa è un esempio ormai classico dell’efficacia dell’analisi spaziale per comprendere e risolvere i problemi sociali ed economici.
Qui sopra una parte della mappa originale di Snow.
Secondo il De Mauro online ha tre accezioni:
Interessante l’etimologia. Il germanico bann significa “editto” (da cui il tardo latino bannum e il nostro bando) e sembra a sua volta collegato alla radice indoeuropea bha (“apparire, mostrare, divulgare” – la stessa radice di infante, colui che non parla ancora). Banale significherebbe dunque “secondo l’uso stabilito, passato in costume”. In francese banal significò dapprima chi era, dall’antico diritto feudale, costretto a prestazioni servili: e dato che la vita dei servi era per definizione priva di interesse per la classe dominante, ne derivò il significato attuale.