I quaranta giorni del Mussa Dagh

Werfel, Franz (1933). I quaranta giorni del Mussa Dagh. Milano: Corbaccio. 2007.

Ho comprato questo vecchio romanzo il 27 gennaio, giorno della memoria, per ricordare il genocidio armeno.

Nell’impero ottomano, verso la fine dell’Ottocento, vivevano circa 2 milioni di armeni, in parte nella loro terra d’origine, l’Armenia, e in parte dispersi nel territorio imperiale dove (cristiani tra i musulmani) si occupavano di agricoltura, artigianato e commercio. Preoccupati di una possibile espansione russa nel Caucaso, il governo ottomano del sultano Abdul-Hamid II incoraggiò tra i curdi (che abitavano una parte dell’Armenia) l’odio anti-armeno. L’inevitabile rivolta armena del 1894 fu repressa nel sangue dall’esercito regolare ottomano e dalle milizie irregolari curde. I villaggi armeni furono distrutti e nel pogrom morirono oltre 50.000 armeni.

Nel 1915, temendo di nuovo un’alleanza tra armeni e russi (nella I guerra mondiale turchi e russi erano avversari) il partito dei Giovani turchi al potere giustiziò 300 nazionalisti armeni e diede l’ordine di deportazione del resto della minoranza armena.

Scrive Enver Pascià (leader dei Giovani turchi) a Taalat Bey (altro leader): “Non dobbiamo preoccuparci di quanto ci verrà chiesto fra tre o quattro anni. Se agiamo con raziocinio e decisione fra tre o quattro anni un problema armeno non ci sarà. Non ci saranno più armeni”.

300.000 armeni vennero trucidati con sciabole e baionette. 1.200.000 persone (uomini, donne, vecchi e bambini) vennero avviati a piedi, accompagnati dai loro aguzzini turchi e curdi, con poca acqua e cibo, verso la meta finale del deserto al sud dell’Iraq. Era una tragica finzione. Taalat Bey, quando il segretario gli chiese cosa scrivere alla voce destinazione sui documenti che ordinavano quella migrazione senza ritorno rispose: “La destinazione non esiste. Scrivi nulla”. E nulla fu, per la stragrande maggioranza dei deportati.

Il governo turco, anche quello attuale, è ferocemente negazionista. La magistratura turca punisce con l’arresto e la reclusione fino a tre anni il nominare in pubblico l’esistenza del genocidio degli armeni in quanto gesto anti-patriottico. Vi è incappato recentemente il premio Nobel Ohran Pamuk. Lo storico turco Taner Akçam nel 1976 fu condannato a 10 anni di carcere per aver usato il termine genocidio (poi, per sua fortuna, è fuggito all’estero). Questo è uno dei motivi (ma ce ne sono altri) per cui sono contrario all’accessione della Turchia nell’Unione europea.

Franz Werfel (a sua volta ebreo e perseguitato) scrisse questa storia ampiamente romanzata di un episodio di eroica resistenza armena nel 1933. Il romanzo porta il peso degli anni, e la traduzione, un po’ arcaica, non aiuta.

Ci sono comunque alcuna pagine molto belle.

Ed avvenne che Gabriele sentisse l’esile figura accanto a sé diventar sempre più greve. No, non il corpo della fanciulla, ma che cosa? Gli pareva che accanto a lui camminasse non solo la Iskuhí di quel giorno, mezza visibile, mezza invisibile, ma Iskuhí con la sua origine eterna e il suo eterno avvenire. Non una giovanissima e graziosa creatura, ma un’anima magnificamente incarnata, nella sua totalità senza tempo da Dio a Dio. E chi potrebbe esprimere il momento fra tutti più raro e delicato, quando un uomo è fatto degno di toccare, attraverso la fugace attrattiva del sesso, un altro essere nella sua esistenza emanante da Dio, temporale ed eterna, quando in un solo respiro egli accoglie in sé tutta la storia di quest’anima sorella dal principio sino alla fine del mondo? (p. 501)

Ci sono due sorta di uomini. Gli uni sono gli animali umani, miliardi! Gli altri, gli angeli umani, saranno mille, o nel migliore dei casi diecimila. Agli animali umani appartengono anche i grandi del mondo, i re, i politici, i ministri, i generali, i pascià, così come i contadini, gli artigiani, gli operai. […] Hanno in mille forme una sola occupazione: fabbricare fango! Perché la politica, l’industria, l’agricoltura, l’arte militare, tutto questo è forse altro che fabbricazione di fango, per quanto essa possa essere necessaria? Se tu togli il fango all’animale umano, nella sua anima rimane la cosa più terribile, la noia. Egli non regge più con se stesso. E da questa noia viene tutto il male, l’odio politico e la carneficina. Negli angeli umani invece vive l’entusiasmo! […] L’entusiasmo degli angeli umani è la stessa cosa che il cantico degli angeli veri […]. Ci sono angeli umani che tradiscono se stessi, che vengono meno a se stessi. Ma per questi non c’è misericordia, non c’è grazia. Ogni ora si vendica su di loro… (p. 702)

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2 marzo – Kurt Weill

Nato il 2 marzo 1900 in Germania, è famoso soprattutto per il suo sodalizio con Bertolt Brecht, che durò dal 1927 al suo trasferimento negli Stati Uniti nel 1935. Era stato allievo di Ferruccio Busoni a Berlino e aveva frequentato le avanguardie musicali dell’epoca. Berg, Zemlinsky, Milhaud, Stravinsky e Schönberg (dopo un’iniziale incomprensione) furono ammiratori della sua opera. Dopo essersi trasferito in America, si dedicò con molto successo al teatro musicale (scrisse una quindicina di musical).

L’amore della sua vita fu la grande attrice Lotte Lenya (qui la sentite cantare Surabaya Johnny), che incontrò nel 1924 e sposò due volte, nel 1926 e di nuovo nel 1937 (dopo un divorzio nel 1933).

Qui mettiamo altre due versioni di Surabaya Johnny, una di Milva e una di Laura Betti.

E dato che è domenica, mettiamo anche due versioni di Alabama Song, quella stranota dei Doors e una un po’ più rara di David Bowie.

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