Galileo – Giornale di Scienza | Una pioggia di dati ci sommergerà

Mathematics Awareness Month

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via Galileo – Giornale di Scienza | Una pioggia di dati ci sommergerà

di Giovanna Dall’Ongaro

Il messaggio della locandina è chiarissimo: mettetevi al riparo, o una violenta pioggia di dati vi sommergerà. Le quattro grandi associazioni di matematici statunitensi (American Mathematical Society, American Statistical Association, Mathematical Association of America, Society for Industrial and Applied Mathematics) che da qualche tempo hanno eletto aprile il “Mese della consapevolezza matematica” quest’anno hanno scelto di pubblicizzare le loro iniziative con l’immagine di un omino spaesato che tenta di proteggersi sotto l’ombrello da un incessante diluvio.

Si tratta della smisurata quantità di informazioni gestite dai social network, come Facebook e Twitter, dai motori di ricerca, dalle agenzie pubblicitarie che cercano visibilità sul web. Ma anche di tutti i risultati forniti dai dispositivi scientifici come satelliti, sensori, strumenti astronomici, congegni biometrici e così via. O delle tantissime tracce lasciate dalle nostre attività quotidiane, come i pagamenti con le carte di credito.

Per tutto il mese di aprile matematici e statistici americani sono invitati a riflettere sulla ineludibile questione: cosa farsene di tutti questi dati? La domanda, rimbalzata dall’altra parte dell’oceano, è stata riproposta agli esperti di casa nostra dalla Società Italiana di Matematica Applicata e Industriale che in questi giorni promuove iniziative parallele a quelle americane.

Trovare una soluzione non è facile, ma, come leggiamo sul sito della Simai, “la matematica può essere uno strumento decisivo per capire e organizzare questo diluvio di dati”. Vediamo quindi cosa hanno da dirci gli esperti di calcoli numerici. Sul sito sono pubblicati, tradotti nella nostra lingua, alcuni interventi di studiosi americani insieme a saggi originali di scienziati italiani. Tra questi ultimi troviamo un affascinante viaggio nel mondo del data mining, l’estrazione di informazione da un insieme di dati, di Paola Bertolazzi e Giovanni Felici, articolo già pubblicato su Sapere nell’ottobre 2011, un’analisi del ruolo della matematica nel sequenziamento massivo del genoma di Claudia Angelini e Italia De Feis.

Due analisti americani, Timothy C. Owen e William Kahn, riflettono sulle cifre da capogiro della pubblicità on line: 1 KB di dati rilevanti per ogni banner visualizzato, che vuol dire 1TB al mese nelle mani dei commercianti. Tre volte il volume di dati proveniente dal telescopio spaziale Hubble.

Un altro scienziato statunitense, Daniel Krasner, parla delle sfide lanciate ai matematici dai colossi del Web, come Google, Facebook, Twitter, Amazon, Netflix: ricavare da una massa informe di dati “intuizioni che possono portare a una comprensione del presente e a delle previsioni del futuro”.

E c’è chi parla di una vera e propria rivoluzione: “È una rivoluzione, dice Gary King dell’Università di Harvard di recente in un’intervista sul New York Times “il cammino della quantificazione … dilagherà attraverso il mondo accademico, delle imprese e politico. Non c’è area che non ne verrà coinvolta”.

Basterà un ombrello a ripararci?

Essere sé stessi nuoce alla carriera?

Lo dice un articolo di Murray Wardrop sul Daily Telegraph di oggi, 19 aprile 2012.

Il succo è questo: secondo i risultati di un’analisi fatta su un campione di 533 volontari, “essere sé stessi” nelle interazioni sociali con i partner, gli amici e i familiari è una buona idea. Infatti, essere “autentici” in queste relazioni è positivamente correlato con il proprio benessere e in generale con la soddisfazione sulla propria vita. Questa correlazione però non emerge quando si analizzano le interazioni sociali con i colleghi e i superiori nel lavoro.

While revealing your true character to a partner or friends is likely to make you happier, experts claim doing so at the office is not a recipe for promotion.
Scientists assessed levels of “authentic self expression” in 533 volunteers to see how far they opened up to people they interacted with socially.
The results showed that participants were more likely to “be themselves” with partners, followed by friends and then parents. However, they were much less likely to show their true self to work colleagues.
Those who opened up to their partners tended to have greater well-being and were more satisfied with life. But the same benefits were not seen from being authentic at work.
Dr Oliver Robinson, from the University of Greenwich in London, said: “You hear self-help gurus say that the secret of happiness is ‘being yourself’ or ‘expressing your true feelings’, but that doesn’t seem to apply in the workplace.
“So in some circumstances, it may be that a polite smile or tactfully keeping quiet may be more conducive to your well-being than saying what you actually think and feel to work colleagues.”
The results were presented at the annual meeting of the British Psychological Society, taking place in London.

La quaresima delle iene di Macallé

Ho trovato questa bellissima storia su una rubrica della rivista Discover (In run-up to Easter, fasting Ethiopians force hyenas to kill donkeys | Not Exactly Rocket Science | Discover Magazine).

Iena

discovermagazine.com

L’arrivo della Pasqua per i cristiani ortodossi di Macallè (città dell’Etiopia del nord con oltre 200.000 abitanti) significa la fine delle privazioni della quaresima, per le iene della città e del suo hinterland significa la fine della stagione della caccia all’asino.

Le iene maculate non sono schizzinose e hanno uno stomaco di ferro. Mangiano di tutto: carne putrida, carogne infestate dall’antrace, sterco e immondizie di ogni tipo. Dopo essere passata per il loro apparato digerente, di questa dieta variata (e avariata) residuano, nelle feci: peli, zoccoli e un po’ di polvere biancastra (tutto quello che resta delle ossa, la loro parte inorganica). Con queste premesse, non sorprende che se la cavino piuttosto bene in ambiente urbano, dove la popolazione umana le rifornisce di avanzi e carcasse di bestiame. Le iene prosperano come spazzini e gli abitanti di Macallè le chiamano scherzosamente “addetti del Comune”. Le si può sentire ogni notte, ma non attaccano mai gli umani, preziosa fonte del loro cibo. Invece, le bestiole svuotano le pattumiere domestiche, i cassonetti, le discariche del macello e persino quella della facoltà di veterinaria della locale università.

Questi comportamenti, che si dispiegavano praticamente sotto i suoi occhi, hanno suscitato la curiosità scientifica di Gidey Yirga, un biologo dell’Università di Macallè, che ha raccolto nel 2010 oltre 550 campioni di cacca di iena (ognuno ha i suoi hobby) e li ha analizzati (soprattutto i residui di pelo) per studiare la dieta delle iene di Macallè. Scoprendo che per la maggior parte dell’anno si nutrono di carogne e rifiuti, ma che c’è un periodo in cui tornano a essere i letali cacciatori che sono e sterminano soprattutto gli asini presenti nei villaggi e nelle fattorie.

Sì, perché la religione cristiano-ortodossa professata dalla popolazione di Macallè prevede un rigido periodo di quaresima (Abye Tsome o Hudade, nelle lingue locali), della durata di 55 giorni, in cui l’astinenza dalla carne (e da altri prodotti di origine animale) è totale. Quindi i macelli restano inattivi e nell’immondizia non si trovano più residui appetibili per le iene, che si trovano letteralmente costrette – pena la morte per inedia – a tornare a cacciare (nel resto dell’Africa le iene maculate, nonostante la loro cattiva fama di mangia-carogne, uccidono personalmente tra il 60 e il 95% del loro cibo).

Virga ha però scoperto, con sorpresa, che nella quaresima ortodossa le iene mangiano meno pecore e capre che di solito, e moltissimi asini: pecore e capre sono tenute al sicuro nei recinti (quello che le iene riescono a mangiare, nel resto dell’anno, è soltanto ciò che avanza dal consumo umano), ma gli asini no, e per loro non c’è scampo, sia che siano stati abbandonati a sé stessi quando troppo vecchi o malati per lavorare, sia che siano una facile preda, legati a un palo o a un muro durante la notte.

Ecco il riferimento all’articolo:

Yirga, de Iongh, Leir, Gebrihiwot, Decker & Bauer. 2012. “Adaptability of large carnivores to changing anthropogenic food sources: diet change of spotted hyena (Crocuta crocuta) during Christian fasting period in northern Ethiopia”. Journal of Animal Ecology http://dx.doi.org/10.1111/j.1365-2656.2012.01977.x

Statistici per caso

Gli statistici sono considerati, non del tutto immeritatamente, persone noiose. Secondo un prezioso libretto pubblicato alcuni anni fa da Statistics Denmark [Hermann, Anne ed. StatisTics. Copenhagen: Statistics Denmark. 2005):

A statistician is … someone who doesn’t have the personality to be an accountant. [Unknown]

Nondimeno, anche gli statistici hanno le loro mitologie, i loro padri fondatori, i loro grandi uomini.

Uno di questi è lo statistico inglese George E. P. Box (le iniziali stanno per Edward Pelham), nato il 18 ottobre 1919 e (a quanto mi risulta) tuttora vivente. Se parlassi dei suoi contributi alla scienza statistica vi annoierei certamente. Ma Box è famoso anche al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, per avere scritto un frase profondissima nella sua apparente scanzonatezza:

Essentially, all models are wrong, but some are useful [Box, George E. P.; Norman R. Draper (1987). Empirical Model-Building and Response Surfaces, Wiley, p. 424]

George E. P. Box

wikipedia.org

Non che Box avesse mostrato fin dai tempi della scuola una spiccata vocazione per la statistica. Allo scoppio della 2ª guerra mondiale era studente di chimica, ma si arruolò volontario ed entrò nel genio. Come divenne statistico è lui stesso a raccontarlo, in un articolo scritto 70 anni dopo e intitolato, appunto, An Accidental Statistician:

[…] I was moved to a highly secret experimental station in the south of England. At the time they were bombing London every night and our job was to help to find out what to do if, one night, they used poisonous gas.
Some of England’s best scientists were there. There were a lot of experiments with small animals, I was a lab assistant making biochemical determinations, my boss was a professor of physiology dressed up as a colonel, and I was dressed up as a staff sergeant.
The results I was getting were very variable and I told my colonel that what we really needed was a statistician.
He said “we can’t get one, what do you know about it?” I said “Nothing, I once tried to read a book about it by someone called R. A. Fisher but I didn’t understand it”. He said “You’ve read the book so you better do it”, so I said, “Yes sir”.

Ma il caso non aveva ancora finito di giocare con Box, e di fargli incontrare i più grandi statistici dell’epoca: ancora dopo la guerra i suoi superiori la mandano a Cambridge a sottoporre un problema statistico a Ronald A Fisher.

Ronald Fisher

wikipedia.org

Dopo la guerra si lauera all’University College di Londra con Egon S.  Pearson.

Egon Pearson

swlearning.com

Nel 1956 John Tukey lo invita a Princeton per formare e dirigere lo Statistical Techniques Research Group (STRG).

John Tukey

wikipedia.org

Per complicare l’albero genealogico della statistica del 20º secolo, Box sposò la seconda delle 5 figlie di Ronald A Fisher (autrice anche di una biografia del padre, R.A. Fisher: The Life of a Scientist).

Joan Fisher Box

amazon.com

Egon Sharpe Pearson

Dirigere l’orchestra: una guida visiva

Conducting Demystified

flowingdata.com

Per molti di noi, suppongo, Fantasia di Walt Disney è stato uno dei primi incontri con un direttore d’orchestra: un signore vestito in modo buffo (in Fantasia era Leopold Stokowski, un direttore leggendario) che muovendo le mani e una bacchetta (sicuramente magica) dominava cento persone e ne faceva un’orchestra, una macchina meravigliosa per produrre suoni. Mentre scrivo, con un brivido sento ancora quella fascinazione.

Fantasia

wikipedia.org

Ora il New York Times, in collaborazione con il Movement Lab della New York University, ha realizzato un video in cui disvela – senza nulla togliere alla magia – l’arte della direzione d’orchestra. Dirige (e si fa intervistare) Alan Gilbert, direttore musicale della New York Philharmonic Orchestra, l’orchestra che fu (tra gli altri: non dimentichiamo Mitropoulos e Toscanini e lo stesso Stokowski) di Lenny Bernstein.

Ho trovato la notizia su FlowingData, per l’esattezza qui: Conducting Demystified.

Il video realizzato dal NYT e pubblicato il 6 aprile 2012 lo trovate qui (vi consiglio vivamente di andarlo a guardare).

Questo invece è il “The Making of” realizzato dal Movement Lab:

Italo Calvino cantautore, Fabrizio De André debitore e la creatività combinatoria

Francesco Cevasco pubblica su Il club de La lettura del Corriere della sera un interessante articolo (Italo Calvino cantautore Indie Pop) sul Cantacronache di Sergio Liberovici, Michele Straniero e Fausto Amodei. Nell’invitarvi a leggerlo per conto vostro, mi vorrei soffermare su un aspetto marginale (ovviamente, non marginale per me).

Liberovici, Amodei, Straniero e Margot

Liberovici, Amodei, Straniero e Margot / wikipedia.org

Ma prima, almeno qualche canzone di Fausto Amodei.

Cominciamo dalla mia preferita, Il tarlo (dedicata a Giovanni B., che ha compiuto 62 anni qualche giorno fa).

In una vecchia casa,
piena di cianfrusaglie,
di storici cimeli,
pezzi autentici ed anticaglie,
c'era una volta un tarlo,
di discendenza nobile,
che cominciò a mangiare
un vecchio mobile.

 Avanzare con i denti
 per avere da mangiare
 e mangiare a due palmenti
 per avanzare.
 Il proverbio che il lavoro
 ti nobilita, nel farlo,
 non riguarda solo l'uomo,
 ma pure il tarlo.

Il tarlo, in breve tempo,
grazie alla sua ambizione,
riuscì ad accelerare
il proprio ritmo di produzione:
andando sempre avanti,
senza voltarsi indietro,
riuscì così a avanzar
di qualche metro.

 Farsi strada con i denti
 per mangiare, mal che vada,
 e mangiare a due palmenti
 per farsi strada.
 Quel che resta dietro a noi
 non importa che si perda:
 ci si accorge, prima o poi,
 ch'è solo merda.

Per legge di mercato,
assunse poi, per via,
un certo personale,
con contratto di mezzadria:
di quel che era scavato,
grazie al lavoro altrui,
una metà se la mangiava lui.

 Avanzare, per mangiare
 qualche piccolo boccone,
 che dia forza di scavare
 per il padrone.
 L'altra parte del raccolto
 ch'è mangiato dal signore
 prende il nome di "maltolto"
 o plusvalore.

Poi, col passar degli anni,
venne la concorrenza
da parte d'altri tarli,
colla stessa intraprendenza:
il tarlo proprietario
ristrutturò i salari
e organizzò dei turni
straordinari.

 Lavorare a perdifiato,
 accorciare ancora i tempi,
 perché aumenti il fatturato
 e i dividendi.
 Ci si accorse poi ch'è bene,
 anziché restare soli,
 far d'accordo, tutti insieme,
 dei monopoli.

Si sa com'è la vita:
ormai giunto al traguardo,
per i trascorsi affanni
il nostro tarlo crepò d'infarto.
Sulla sua tomba è scritto:

PER L'IDEALE NOBILE
DI DIVORARSI TUTTO QUANTO UN MOBILE
CHIARO MONITO PER I POSTERI
QUESTO TARLO VISSE E MORI'.

In ordine crescente di notorietà, Se non li conoscete:

LA sua più famosa, Per i morti di Reggio Emilia:

Ed ecco l’incipit dell’articolo di Cevasco:

Italo Calvino cantautore Indie Pop

Primo maggio 1958. Italo Calvino fa il suo esordio come «cantautore». Ma cantautore per davvero. E aveva pure la voce da baritono, finto baritono, quello da troppe sigarette. Al corteo della Cgil a Torino gli altoparlanti gracchiano la canzone Dove vola l’avvoltoio, scritta da Calvino, musicata da Sergio Liberovici. È una canzone con i partigiani buoni, o perlomeno dalla parte giusta, e i nazisti-avvoltoi cattivi. E contro la guerra. E per dire che non era, quella «canzonetta», una divagazione ludica di un già grande scrittore (aveva ormai pubblicato Il barone rampante e Il visconte dimezzato) leggete il confronto tra i versi del più grande cantautore italiano, Fabrizio De André, e quelli di Calvino.

De André, La guerra di Piero, 1964: «Lungo le sponde del mio torrente/ Voglio che scendano i lucci argentati/ Non più i cadaveri dei soldati/ Portati in braccio dalla corrente».

Calvino, Dove vola l’avvoltoio, 1958: «Nella limpida corrente/ Ora scendon carpe e trote/ Non più i corpi dei soldati/ Che la fanno insanguinar».

Ecco, io non penso che sia una coincidenza. Penso, anzi so, anzi ho sempre saputo che De André non esitava a “copiare”. Quando, in quegli anni, ascoltavamo le canzoni di De André, i miei amici e io faticavamo a distinguere, in De André, le canzoni “originali” dalle traduzioni di Brassens, dalle riprese e dagli adattamenti di canzoni popolari o di melodie medievali o medievaleggianti. Ce ne importava ben poco. Alcune ci piacevano e altre no. Su molte avevamo dubbi musicali (a me, almeno, piaceva ben altra musica) ma le parole erano belle e si cantavano bene insieme. Poi de André ha cominciato a collaborare con altri, alla musica e agli arrangiamenti (da Piovani a Mauro Pagani). E non sono mai cessate le libere ispirazioni, da Dylan a Leonard Cohen. Poi è arrivata la santificazione, e l’impossibilità di dubitare di una singola nota o di una singola parola.

Soltanto adesso, forse , siamo abbastanza maturi per sapere che la creatività è sempre combinatoria: le spalle dei giganti e la fame di realtà.

Non sono riuscito a trovare Dove vola l’avvoltoio? (parole di italo Calvino, musica di Sergio Liberovici) cantata dallo stesso Calvino, e non so neppure se esista. In Cantacronache 2 la cantava Pietro Buttarelli:

Un giorno nel mondo
  finita fu l'ultima guerra,
  il cupo cannone si tacque
  e più non sparò,
  e privo del tristo suo cibo
  dall'arida terra,
  un branco di neri avvoltoi
  si levò.

 Dove vola l'avvoltoio?
 avvoltoio vola via,
 vola via dalla terra mia,
 che è la terra dell'amor.

L'avvoltoio andò dal fiume
ed il fiume disse: "No,
avvoltoio vola via,
avvoltoio vola via.
Nella limpida corrente
ora scendon carpe e trote
non più i corpi dei soldati
che la fanno insanguinar".

 Dove vola l'avvoltoio...

L'avvoltoio andò dal bosco
ed il bosco disse: "No
avvoltoio vola via,
avvoltoio vola via.
Tra le foglie in mezzo ai rami
passan sol raggi di sole,
gli scoiattoli e le rane
non più i colpi del fucil".

 Dove vola l'avvoltoio...

L'avvoltoio andò dall'eco
e anche l'eco disse "No
avvoltoio vola via,
avvoltoio vola via.
Sono canti che io porto
sono i tonfi delle zappe,
girotondi e ninnenanne,
non più il rombo del cannon".

 Dove vola l'avvoltoio...

L'avvoltoio andò ai tedeschi
e i tedeschi disse: "No
avvoltoio vola via,
avvoltoio vola via.
Non vogliam mangiar più fango,
odio e piombo nelle guerre,
pane e case in terra altrui
non vogliamo più rubar".

 Dove vola l'avvoltoio...

L'avvoltoio andò alla madre
e la madre disse: "No
avvoltoio vola via,
avvoltoio vola via.
I miei figli li dò solo
a una bella fidanzata
che li porti nel suo letto
non li mando più a ammazzar"

 Dove vola l'avvoltoio...

L'avvoltoio andò all'uranio
e l'uranio disse: "No,
avvoltoio vola via,
avvoltoio vola via.
La mia forza nucleare
farà andare sulla Luna,
non deflagrerà infuocata
distruggendo le città".

 Dove vola l'avvoltoio...

  Ma chi delle guerre quel giorno
  aveva il rimpianto
  in un luogo deserto a complotto
  si radunò
  e vide nel cielo arrivare
  girando quel branco
  e scendere scendere finché
  qualcuno gridò:

 Dove vola l'avvoltoio?
 avvoltoio vola via,
 vola via dalla testa mia...
 ma il rapace li sbranò.

Dove abitava J. D. Salinger nel 1940?

Secondo la normativa statunitense, trascorsi 72 anni il Census Bureau può pubblicare i dati individuali. Di conseguenza, il 2 aprile 2012 ha pubblicato i dati individuali del Censimento del 1940.

I dati individuali dei censimenti sono molto richiesti dagli americani, soprattutto per ricostruire la storia e la genealogiadelle famiglie, in un Paese d’immigrazione. Infatti, soltanto nel primo giorno di pubblicazione dei dati del 1940, il sito 1940census.archives.gov è stato visitato più di 37 milioni di volte, costringendo il Governo americano a potenziare il server.

Ad esempio, si può sapere che Salinger, l’autore di Il giovane Holden, abitava a Manhattan, a Park Avenue 1133.

Ancora su Piazza Fontana: Corrado Stajano e Goffredo Fofi

Intervengo di nuovo sull’argomento, non con parole mie ma con 2 interventi comparsi sulla stampa, che riproduco per comodità dei lettori del blog e perché ho visto che non è poi così semplice trovarli in rete.

I funerali

cinquantamila.corriere.it

Il primo è di Corrado Stajano, un cronista “storico” delle vicende di quegli anni. Condivido appieno il suo punto di vista e mi rammarico di non poter leggere che cosa scriverebbero Marco Nozza, Giorgio Bocca e Camilla Cederna, che furono anch’essi protagonisti della battaglia civile di quegli anni (e mi immagino Stajano lì a fare gesti apotropaici!).

Dalle due bombe a Lotta Continua. Su Piazza Fontana buchi e forzature

CORRADO STAJANO – Corriere della Sera | 28 Marzo 2012

Nel film di Giordana episodi non verificabili. E manca la passione di quegli anni

Furono anni torbidi, furono anche anni fervidi. La strage di piazza Fontana, per Milano e per l’intero Paese, fu una ferita profonda. Ma la città seppe resistere rivelando il meglio di se stessa. Basta guardare ancora una volta le immagini dei funerali delle vittime, in piazza del Duomo, tre giorni dopo la bomba nel salone della Banca nazionale dell’agricoltura che aveva lo scopo di distruggere le fondamenta della Repubblica e della Costituzione. La piazza, quella mattina, era color del piombo fuso, la copriva una cappa di nebbia, rotta soltanto dalla fioca luce dei lampioni che rischiaravano un poco la marea di donne e di uomini sgomenti di dolore. Dalle fabbriche di Sesto San Giovanni arrivarono a migliaia le tute bianche della Pirelli, le tute blu della Breda, della Magneti Marelli, della Falck che fecero da servizio d’ordine. La borghesia consapevole e la classe operaia formarono allora, con la serietà dei momenti gravi, un corpo unico nella città affratellata. Il possibile golpe, si può dire, fallì quel giorno.
Non deve esser stato facile per Marco Tullio Giordana, il regista dei Cento passi e della Meglio gioventù, rappresentare, quasi mezzo secolo dopo, con il suo Romanzo di una strage, quel che avvenne in quei giorni e in quegli anni, la macelleria dei corpi, il sangue, le trame eversive, le collusioni e i tradimenti di chi aveva il dovere di tutelare la Repubblica e complottò invece per abbatterla e dar vita a uno Stato autoritario.
12 dicembre 1969, la strage. 15 dicembre 1969, l’arresto di Pietro Valpreda e la morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, la diciottesima vittima. Il commissario Luigi Calabresi è nel film il vero protagonista; un eroe, è stato detto, l’uomo che aveva capito la verità. Nel 1972 sarà la vittima innocente dello spirito di violenza, ma quella notte in Questura, davanti a cinque giornalisti, il suo comportamento non fu diverso da quello dei suoi superiori.
La stanza del questore Guida sembrava più un morbido salotto che un ufficio di polizia. Esordì così, Guida, che nel 1942 era stato direttore del confino politico fascista di Ventotene: «Gravemente indiziato di concorso in strage, Pinelli aveva gli alibi caduti. Un funzionario gli aveva rivolto contestazioni e lui era sbiancato in volto. Il dottor Calabresi aveva allora momentaneamente sospeso l’interrogatorio per andare a riferire. Nella stanza si stava parlando d’altro, una pausa, quando il Pinelli ebbe uno scatto improvviso, si gettò verso la finestra socchiusa perché il locale era pieno di fumo e si slanciò nel vuoto. Il suicidio è una evidente autoaccusa».
Un giornalista chiese chi era Pinelli. Rispose Calabresi: «Sembrava un uomo incapace di ricorrere alla violenza, un uomo tranquillo, ma i suoi rapporti, le sue implicazioni politiche dovevano rivelare il contrario». Chiese un altro giornalista qual era stata l’ultima domanda a Pinelli, quali le ultime cose dette e se esistevano i verbali. Nessuno rispose, senza mostrare imbarazzo. Il giornalista ripeté la domanda, Guida disse allora che l’interrogatorio non comprometteva altre persone. «Era stato convalidato dalla magistratura il fermo che durava da 72 ore?» domandò un altro giornalista. Il questore rispose impudentemente di sì, poi parlò d’altro. Uno dei cinque giornalisti chiese a Calabresi come mai non era sceso in cortile a vedere Pinelli. Di nuovo silenzio.
A colpire, in quella notte difficile da dimenticare, era la percezione che quegli uomini dello Stato non mostrassero neppure un moto di amarezza e di dolore per la morte di un uomo entrato da libero cittadino in Questura e uscito morto. Erano responsabili della sua vita: cinque uomini, in una piccola stanza, non riuscirono a impedirgli di buttarsi dalla finestra lasciata aperta?
Calabresi è stato giudicato innocente dalle inchieste della magistratura. Ma esiste soltanto la responsabilità penale? Si avvertiva quella notte una sottile euforia: la pratica Pinelli era chiusa e con quella morte poteva chiudersi anche la pratica più grossa, la strage.
La città, la società, nel film di Giordana, sono assenti, come le atmosfere di allora. Non c’è traccia del conflitto tra innocentisti e colpevolisti, profondo, e neppure dei tentativi appassionati dell’altra Italia alla ricerca della verità, diversa da quella ufficiale. Ci sono molti buchi nel racconto. Non si sa quasi nulla di Pietro Valpreda, il predestinato capro espiatorio della tragedia. Non sono sufficienti, poi, quei ritagli del giornale e poche scritte sui muri per rendere l’ossessiva campagna denigratoria di Lotta Continua contro Calabresi accusato di essere l’assassino di Pinelli.
Il film gioca di continuo, pericolosamente, tra realismo e finzione. È «liberamente tratto» dal librone di Paolo Cucchiarelli, Il segreto di Piazza Fontana, ambiguo, con fonti non verificabili.
Moro, il ministro degli Esteri di allora, impeccabilmente interpretato da Fabrizio Gifuni, ha una parte sovrabbondante, un jolly utile per raccontare ciò che serve, ma chi visse il dramma della strategia della tensione non fu mai a conoscenza di quella scelta così progressista di Moro, del suo misterioso dossier che svelava il carattere golpista e neofascista della strage, mostrato a Saragat.
Nel film, Federico Umberto D’Amato, a capo degli Affari riservati, offre a Calabresi di diventare il suo braccio destro al Viminale e fa assurde rivelazioni che ancora una volta stravolgono quel che si sa dagli atti dei processi, dalle inchieste, non poche, di quegli anni. Un altro scoop, poi: furono due i taxi e due le bombe scoppiate in quel tragico buco della banca. Una rossa, gentile, solo per spaventare un po’, portata da Valpreda; e una nera, per uccidere e dare avvio allo stato di emergenza, portata da Sottosanti, il sosia. La fonte? Cucchiarelli, a pag. 641 del suo libro. Di nuovo i doppi estremismi, le piste rosse e quelle nere.
Un gran garbuglio reso ancor più fosco mezzo secolo dopo, tra mister X, legionari e spioni, trafficanti di armi e di esplosivi, la Grecia dei colonnelli, gli infiltrati ovunque, i partiti, tutti, informati e silenti, gli uomini dello Stato dal doppio o triplo gioco.
I ragazzi che non sanno cosa sia successo nel pomeriggio di tanti anni fa in quella banca di Milano, vicina all’Arcivescovado, non avranno da questo film lumi per capire.
Giustizia non è stata fatta. Lo Stato non ha avuto la forza e il coraggio di processare se stesso. Dopo 11 processi di condanna, 4 giudizi in Cassazione, apposizioni del segreto politico-militare, la serranda della legge è calata il 3 maggio 2005: tutti assolti, strage senza colpevoli, i parenti delle vittime condannati a pagare le spese di giudizio.
La verità storica e politica, a ogni modo, è chiara. Sono ben documentati, con le responsabilità della destra neofascista veneta, le complicità e i depistaggi dei servizi di sicurezza e soprattutto dell’Ufficio Affari riservati.
Peccato, bisogna dirlo con amarezza, che in questo smisurato film un po’ asettico non si ritrovino né la passione né le emozioni di quegli anni infuocati.

Il secondo è di Goffredo Fofi (che in quegli anni scriveva su Quaderni piacentini feroci recensioni cinematografiche, poi raccolte – mi pare di ricordare – nell’ormai quasi introvabile Il cinema italiano: servi e padroni).

Il cinema italiano: servi e padroni

hobbylibri.com

Il Sole 24 ore 1 aprile 2012

Il telefilm della bomba
Marco Tullio Giordana non è riuscito a fare, nonostante i mezzi, un lavoro decente su Piazza Fontana.

Un male comune…

di Goffredo Fofi

Rimando volentieri alla più saggia delle possibili stroncature politiche del film di Marco Tullio Giordana, scritta qualche giorno fa da Corrado Stajano sul «Corriere della sera». Le incongruenze e gli opportunismi che segnano la ricostruzione della strage di piazza Fontana e i suoi retroscena, operata dal regista con i suoi due sceneggiatori (già autori con lui di un film non eccelso ma onesto su illusioni e sconfitte della generazione del ’68, La meglio gioventù) a partire da un libro dove le illazioni dominano, vi sono elencati con ferma convinzione e non scivolano nell’opinione ma si attengono al concreto dei fatti dimostrati e dimostrabili. Piuttosto che lanciarci nelle diatribe sul vero e sul falso e sul probabile che il film sta scatenando, per la maggior parte opinabili, diciamo subito che il film in sé non merita molta attenzione né molto riguardo e che a noi preme, da critici, rilevarne i limiti in quanto film, e più che i limiti la sostanza e l’idealità della fattura.

Invece che di “romanzo” e di film bisognerebbe, per cominciare, parlare di «docufiction» o di «telefilm» dei più rozzi, nonostante i mezzi a disposizione. E bisognerebbe anzitutto fare il paragone con le altre ventate non di televisione ma di cinema detto politico presenti nella nostra tradizione. Il neorealismo e la commedia o tragedia degli anni del boom e successivi furono in presa diretta su un presente da raccontare scavare discutere, e quando fu possibile, dal 1959 in avanti, vennero tentate anche operazioni di ricostruzione storica di grande portata (dopo La grande guerra, dopo Tutti a casa) dettate dal bisogno di spiegarsi e spiegare le radici del presente. Ho visto più volte un film su un episodio di estrema delicatezza nella nostra storia, Il processo di Verona, diretto da Lizzani e scritto da Pirro, ammirandone ogni volta di più la precisione e la misura. E ho visto, anche questo con il massimo interesse, il lavoro televisivo francese in più puntate di Olivier Assayas sul terrorista Carlos, e cioè su argomenti almeno altrettanto difficili di piazza Fontana, più vicini a noi e perfino più scabrosi da raccontare. Ci si chiede dunque come mai il cinema e la televisione italiana non siano in grado di proporre altro che panettoni da povero pamphlet giornalistico, al posto di un buon cinema e -perché no, se altrove è possibile? – di una buona televisione. E duro è individuare colpe che riguardano alla fine un po’ tutti – una complicità molto diffusa, benché diversificata – ma in primo luogo i nostri media maggiori. Il cinema politico non è servito, in Italia e, mi pare, neanche altrove, a migliorare la coscienza civile degli spettatori, ma semmai, a seconda delle parti, a sollecitare le loro false coscienze di “buoni” in un mondo di “cattivi”. Ma come è stato possibile che, quindici-vent’anni dopo i fatti (una dittatura, una guerra mondiale, due anni di guerra civile…) il nostro cinema riuscisse a dare dei grandi film civili, e che a più di quarant’anni dagli anni più caldi della nostra storia democratica non sia ancora possibile raccontare la crisi espressa e provocata dal ’68 con uno sguardo sufficientemente limpido, sia pure non di maggioranza? Non ponendosi, come pretende ipocritamente la televisione, e come è impossibile fare, «al di sopra delle parti». Com’è che artisti, intellettuali e profe ssionisti delle comunicazioni di massa, dei settori più ufficiali di esse, non riescano mai 0 quasi mai a raccontare degnamente il tempo passato e a essere all’altezza dei problemi di questo, che dei primi ha ereditato il peggio? Com’è possibile che ci si possa accontentare di parodie di ricostruzione storica come questa, da opera dei pupi, da filodrammatica e da sceneggiata, da museo delle cere, da gara paesana di imitatori, tra santini e macchiette e tra opposti buoni e i  morti non possono più parlare, i vivi che sanno tacciono, i “servizi” – nazionali e internazionali – continuano, come hanno sempre fatto, a insabbiare, a inquinare, a manovrare, i politici a preferire la retorica alla persuasione. E i giornalisti e gli sceneggiatori a scrivere, i registi a filmare, perché, si sa, lo spettacolo deve andare avanti.

I manager a lezione di programmazione

Il Financial Times del 28 marzo 2012 racconta di un’iniziativa di formazione continua inconsueta: i top executive della City londinese vanno a lezione di programmazione per capire meglio la tecnologia, come un tempo erano invitati ad apprendere una seconda lingua.

A lezione di programmazione

ft.com

Qui il link all’articolo: Coding as a second language – FT.com.

Alliott Cole sees a large number of tech start-ups in his work as principal in the early-stage investment team of private equity firm Octopus. The trouble is that he often struggles to comprehend what those writing the software that underpins those companies are talking about.

“For several years I have worked hard to understand how new infrastructure, products and applications work together to disrupt markets,” he says, explaining why he recently decided to take a course that claims to be able to teach even the most IT-illiterate person how to create a software application, or app, in just a day.

“While [I am] conversant in many of the trends and the – often confusing – array of terminology, it troubled me that I remained an observant passenger rather than an active driver, particularly in the realms of computer programming.”

Mr Cole is not alone, which is why eight executives and I are sitting in a penthouse apartment perch­ed on top of a 1930s office block in London’s trendy Clerkenwell having our turn on the same course.

The programme is run by Decoded, a training business created by three former advertising executives – Steve Henry, Kathryn Parsons and Richard Peters – and Alasdair Blackwell, an award-winning web designer and developer.

They appear to have tapped into a widely felt, but rarely discussed, problem. Tech talk is increasingly commonplace in business and life. Many of us rely on smartphones and the web for work, but most people, including senior executives, find the language used by software engineers, social media professionals and the “digital natives” for whom modern technology is intuitive, baffling.

Previsioni e caffè

Disclaimer preventivo: non è un pesce d’aprile.

Infatti non sto parlando dell’antica arte divinatoria della caffeomanzia (ma in realtà ignoro se e quanto sia antica, ma certamente scrutare i fondi di caffè è meno schifoso che analizzare le interiora degli animali come facevano etruschi e romani).

Le tecnica che vi propongo è dotata di un certo fondamento scientifico e, comunque, di una certa utilità pratica (ammesso che tu sia privo di copertura internet ma dotato di caffettiera e fornelletto). La previsione è però limitata alle previsioni atmosferiche.

Originariamente la tecnica è stata illustrata sulla rivista americana Backpacker, ma io l’ho trovata qui: Predict weather with a cup of coffee.

Si comincia con la preparazione del caffè (l’autore afferma che il metodo funziona anche con la cioccolata e il tè bollente, e che i risultato migliori si ottengono con il caffè macchiato e zuccherato).

A questo punto, osservate le bollicine più grossolane. Se migrano abbastanza rapidamente verso il bordo della tazzina, il tempo nelle 12 ore successive sarà bello.

Bel tempo si spera

instructables.com

Se invece le bollicine più grossolane restano al centro della tazza, il tempo sarà brutto.

Maltempo in vista

instructables.com

Il tempo incerto, ma tendente al miglioramento, è segnalato da una migrazione molto lenta delle bollicine verso il bordo della tazzina.

Il fondamento scientifico della previsione sarebbe l’effetto della pressione atmosferica sulla dinamica della schiuma.

Sospendo il giudizio.

Certo è che il Farmer’s Almanac presenta la medesima tecnica, ma giunge a conclusioni opposte:

What does coffee have to do with the weather?

by Peter Geiger | Friday, September 21st, 2007

According to weather lore, coffee supposedly can foretell what type of weather is in store for you. There is a belief that if the bubbles of coffee collect in the center of your cup, you can expect fair weather. If they adhere to the cup, forming a ring, you should expect rain. If they separate without assuming any fixed pattern, changeable weather should be on its way.