Tim Harford. The Undercover Economist. New York: Random House. 2007.
Tim Harford, economista e giornalista, cura sul Financial Times una rubrica con lo stesso titolo del libro e un’altra (Dear Economist) in cui risponde ai lettori su quesiti che riguardano l’economia e la vita quotidinana. Spesso, quest’ultima rubrica viene ripresa e tradotta in Italia da Internazionale, il settimanale di Giovanni De Mauro (che colgo l’occasione per raccomandare vivamente: è il più bel settimanale in circolazione).
Il libro non è una raccolta o una rielaborazione degli articoli comparsi sul Financial Times, ma potrebbe esserlo — e questo è il suo difetto principale. Anche se toccano argomenti quasi sempre interessanti, i dieci capitoli non seguono un filo logico stringente. Per alcuni, il carattere contingente — e dunque l’origine quale articolo o commento giornalistico — è evidente: è il caso della valutazione del successo delle aste UMTS nel Regno Unito, ma anche quello della spiegazione delle ragioni della crescita economica in Cina o del sottosviluppo in Camerun (quest’ultimo capitolo è francamente imbarazzante, mescolando “saggezza economica”, luoghi comuni e un po’ di razzismo). Altri capitoli sono più stimolanti. Il mio preferito resta il secondo (What Supermarkets Don’t Want You to Know), ma anche il primo non è male (Who Pays for Your Coffee?).
Una critica più stringente emerge dal confronto con un altro bestseller in materia di divulgazione economica grosso modo coevo: Freakonomics di Steven Levitt (S. Levitt-S. Dubner. Freakonomics: A Rogue Economist Explores the Hidden Side of Everything. New York: HarperCollins. 2005). Il punto mi sembra questo: Harford è un economista mainstream, Levitt è un economista briccone. Harford tende a essere apologetico, a ripetere — anche se con indubbia eleganza e capacità di rendere semplici e appetibili concetti e modi di ragionare considerati (non del tutto a torto) intrinsecamente pallosi — argomenti noti, ad applicarli a contesti certo rilevanti per la vita quotidiana, ma comunque “economici”. Levitt invece ci sorprende applicando i metodi e i modi di ragionare dell’economista — i metodi e i modi di ragionare, non necessariamente le lezioncine del catechismo economico! — a contesti a cui non viene per nulla immediato applicarli, come le premesse e le conseguenze economiche dei nomi che i genitori attribuiscono ai bambini, o il rischio comparato di tenere in casa una pistola o di avere una piscina in giardino!
Un altro modo di vedere la differenza tra i due. Harford applica ai problemi quotidiani la teoria economica, ed è attraverso la teoria che arriva alla radice del metodo, soprattutto con riferimento al ruolo degli incentivi, alla necessità di ragionare in termini relativi e comparativi, e all’argomentazione “al margine”. Levitt applica ai problemi quotidiani un approccio solidamente quantitativo, con l’analisi dei dati statistici e la formulazione di modelli, e per questa via ci scuote dalla comoda abitudiune di dare per scontata una visione delle cose e di accettare acriticamente l’opinione degli “esperti” e ci invita a usare il nostro senso critico e a “disintermediare” il nostro accesso ai fatti e ai dati. In questo modo, Levitt ci impartisce una lezione più profonda di quella di Harford: una lezione di metodo che va al di là dell’economia per investire il complesso delle “scienze sociali”. Applicare il metodo scientifico alle scienze sociali — ci suggerisce Levitt — significa mettere tra parentesi tutte le ideologie: non soltanto quelle che vorrebbero sottrarre alcuni oggetti “moralmente sensibili” all’indagine scientifica, ma le stesse componenti ideologiche della teoria economica.
sabato, 24 marzo 2007 alle 14:32
forse dovrei leggere quello che i supermercati non vogliono che io sappia, visto che ci vado quasi tutti i giorni e lasciar perdere il resto. Indubbiamente avevo trovato quasi sempre un po’ vaghe le rubriche tradotte su Internazionale: ancorché impostate in modo comprensibile non giungevano quasi mai a una conclusione univoca.
sabato, 24 marzo 2007 alle 16:29
Quanto all’univocità degli economisti: Reagan, in un discorso, disse che c’era un’edizione speciale di trivial Pursuit per economisti, con 300 domande e 3.000 risposte! Lo racconta Harford stesso.
lunedì, 26 marzo 2007 alle 15:55
A proposito di sociologia (che sempre scienza sociale è…almeno secondo alcuni) e metodo:
“Occorre quindi associare una visione costruttivista della scienza a una visione costruttivista dell’oggetto scientifico: i fatti sociali sono socialmente costruiti e ogni agente sociale, come lo scienziato, costruisce bene o male, e mira a imporre, con maggiore o minore forza, la sua particolare visione della realtà. (…) Per essere in grado di applicare alla loro stessa pratica le tecniche di oggettivazione che essi applicano alle altre scienze, i sociologi devono convertire la riflessività in una disposizione costitutiva del loro ‘habitus’ scientifico, cioè in una riflessività riflessiva, capace di non reagire non ex-post, sull’opus operatum, ma a priori, sul modus operandi, disposizione che vieterà per esempio di analizzare le differenze apparenti nei dati statistici a proposito di diverse nazioni senza interrogare le differenze nascoste tra le categorie di analisi o le condizioni della raccolta dei dati, che possono essere responsabili di quelle differenze o della loro assenza.” (…) “La scienza è più costitutiva che descrittiva”
Bourdieu P. 2003 Il mestiere di scienziato (ed.or.fr. 2001) Feltrinelli, Milano
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lunedì, 27 Maggio 2019 alle 9:18
[…] Jerry Muller“). Stimo Tim Harford (ne ho parlato più volte su questo blog, recensendo il suo The Undercover Economist e citando spesso suoi articoli, soprattutto su temi controversi come la creazione di ricchezza dei […]