Una scomoda verità

Una scomoda verità (An Inconvenient Truth), 2006, di Davis Guggenheim, con Al Gore.

Il tema è d’attualità e il documentario è in alcune parti molto bello. Sono pienamente d’accordo con molte delle analisi e anche delle proposte presentate nel documentario. Ma…

Ma durante il film mi agitavo un po’ sulla sedia e guardavo l’orologio; alla fine ero insoddisfatto. Penso di poter dire il perché in 4 punti:

  1. Ci sono lunghe parti del film in cui non si parla del tema principale (la crisi del clima e il riscaldamento globale) e nemmeno di quello che il documentario documenta (lo slide show che Al Gore ha portato in giro per il mondo negli ultimi anni), ma di Al Gore stesso, della sua famiglia, delle sue esperienze da bambino e da studente universitario, di suo padre, di sua sorella morta di cancro al polmone, di suo figlio e del grave incidente che ha subito a 6 anni… A me la cosa ha semplicemente infastidito come perdita di tempo e distrazione dal tema principale (il mio leggendario quantomenesbattòmetro era inchiodato sullo zero); ma suppongo che se fossi un elettore americano mi sarei detto che non c’è da fidarsi di un uomo dall’ego così smisurato e dei suoi spin doctor.
  2. Il secondo punto ha a che fare con lo slide show stesso. La scelta cinematografica del documentario è – per la maggior parte del film e con le eccezioni citate sopra – quella di accettare la struttura dello slide show come filo conduttore e di commentarla con sequenze filmate sul campo. Il problema è che lo slide show è, appunto, uno show, uno spettacolo teatrale, un monologo. Al Gore lo recita – abbastanza bene, in realtà – ma recita e si vede: la voce impostata, le espressioni, i gesti, le battute. Sempre gli stessi, città dopo città, sera dopo sera. E poiché il suo scopo non è soltanto quello di illustrare con risultati scientifici i diversi aspetti di un problema, ma anche quello di incitare all’azione, politica e morale (dice più volte: “This is a moral issue“, e non gli crediamo del tutto perché è altrettanto evidentemente e ancora di più a political issue), ecco che si trasforma in uno di quei predicatori televisivi americani che cercano di venderti la loro verità.
  3. D’altro canto, le presentazioni con slide – ormai onnipresenti (si usano nelle riunioni aziendali, nei convegni, nelle lezioni universitarie; mi aspetto ormai che qualche prete moderno le introduca nelle omelie domenicali) – sono criticate perché trasferiscono meno informazione rispetto ad altri mezzi e ottundono la capacità di elaborazione e il senso critico degli astanti. La critica più convincente e rigorosa è quella di Edward Tufte, The Cognitive Style of Powerpoint: “ In corporate and government bureaucracies, the standard method for making a presentation is to talk about a list of points organized onto slides projected up on the wall. For many years, overhead projectors lit up transparencies, and slide projectors showed high-resolution 35mm slides. Now ‘slideware’ computer programs for presentations are nearly everywhere. Early in the 21st century, several hundred million copies of Microsoft PowerPoint were turning out trillions of slides each year. Alas, slideware often reduces the analytical quality of presentations. In particular, the popular PowerPoint templates (ready-made designs) usually weaken verbal and spatial reasoning, and almost always corrupt statistical analysis. What is the problem with PowerPoint? And how can we improve our presentations?” (il corsivo è mio). Al Gore usa KeyNote sul suo Mac (d’altra parte, siede nel consiglio d’amministrazione della Apple), ma la sostanza non cambia.
  4. Il problema di fondo – per la mia sensibilità, quanto meno – è: come fare divulgazione scientifica? fino a che punto è lecito e onesto, sotto il profilo deontologico, introdurre interpretazioni dei dati? e formulare giudizi di valore? e proporre soluzioni (politiche o morali che siano)? Non sono così ingenuo da pensare che esista una presentazione neutrale dei dati. I dati sono sempre il risultato di un processo in cui giocano un ruolo fondamentale il modello prescelto, il quadro di riferimento dei metadati, le ipotesi formulate dai ricercatori. Non ho una soluzione definitiva su questo punto, ma una possibile strategia è quella di “lasciare in vista l’impalcatura e gli impianti tecnologici” (come fa Renzo Piano al Centre Pompidou). Quanto alle interpretazioni, sono inevitabili – è banale ma vero affermare che anche “nessuna interpretazione” è una interpretazione – e quindi doverose. I Fundamental Principles of Official Statistics dell’ONU stabiliscono che “To facilitate a correct interpretation of the data, the statistical agencies are to present information according to scientific standards on the sources, methods and procedures of the statistics” (3° principio) e che “The statistical agencies are entitled to comment on erroneous interpretation and misuse of statistics” (4° principio). Il problema dei giudizi di valore si fa delicato quando sono occultati all’interno della presentazione e dell’interpretazione – come, purtroppo, accade spesso nel film. Anche qui, lo vedo come un problema di trasparenza: è diverso affermare che i dati mettono in luce un aumento della temperatura media dell’atmosfera, che il consenso dei ricercatori rileva un’associazione tra questo aumento e l’aumento della concentrazione di anidride carbonica, che esso è l’effetto dell’attività umana e che la soluzione è la riduzione delle emissioni. Ognuna di questa affermazioni va argomentata e corroborata a sé, in piena trasparenza e segnalando il passaggio cruciale dall’analisi dell’esistente alla proposta dell’agire. Il politico ha il diritto di passare a questo secondo piano, ma il dovere di segnalare il passaggio. Anche perché questo passaggio implica di scegliere: se non ci fosse scelta, non ci sarebbe politica.

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