Il giorno della memoria – Namibia

Pochi sanno che il primo genocidio del XX secolo ebbe luogo in Africa, in Namibia.

All’inizio del secolo l’attuale Namibia era una colonia tedesca (Deutsch-Südwestafrika). La politica coloniale tedesca nella regione incoraggiava i coloni bianchi a occupare i pascoli degli indigeni (il territorio era abitato dai Khoikhoi, cacciatori e raccoglitori, e da vari gruppi di allevatori bantu, di cui gli Herero e i Nama). Oltre all’occupazione delle terre manu militari (operavano sul territorio le Schutztruppe imperiali), i neri erano spesso ridotti in schiavitù r avviati al lavoro coatto.

Nel 1903 e 1904 si succedettero due sollevazioni: prima i Nama sotto la guida di Hendrik Witbooi (60 tedeschi uccisi) e poi gli Herero di Samuel Maharero (120 tedeschi uccisi). Nell’ottobre del 1904 Berlino inviò un contingente di 14.000 soldati, al comando del generale Lothar von Trotha per risolvere la crisi:

Io, il grande generale dell’esercito tedesco, invio questa lettera al popolo Herero […] Tutti gli Herero devono lasciare questa terra […] Ogni Herero sorpreso entro i confini tedeschi, con o senza armi, con o senza bestiame, sarà passato per le armi. Non accoglierò più donne o bambini: li accompagnerò fuori dai confini [cioè nel deserto del Kalahari] o sparerò. Questa la mia decisione sugli Herero.

Quando, alla fine dell’anno, il Kaiser ritirò l’ordine, il peggio era compiuto. Le condizioni del deserto erano proibitive e i più morirono di sete (si racconta di scheletri trovati nel fondo di buche profonde fino a 20 metri, scavate nel disperato tentativo di trovare l’acqua).

I sopravvissuti, in prevalenza donne e bambini, furono internati in campi di concentramento (si presero a modello quelli creati dai britannici nella guerra boera). Le autorità tedesche diedero un numero di matricola a ogni internato e ne registrarono meticolosamente la morte, nel campo o durante i lavori forzati. Quando i campi furono chiusi nel 1908, tra il 50 e l’80% degli internati era morto di fame, fatica o malattia.

Secondo il rapporto Whitaker (ONU 1985), tra il 1904 e il 1907 morirono 65.000 Herero (l’80% della popolazione originaria) e 10.000 Nama (la metà della popolazione originaria).

Nel 2005, Channel Four della BBC ha dedicato un ampio documentario al genocidio della Namibia. Lo potete vedere qui sotto.

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Il mio paese, di Daniele Vicari

Vicari, Daniele (2007). Il mio paese. Milano: Rizzoli. 2007.

Il mio paese, 2006, di Daniele Vicari.

Mi sono imbattuto in questo documentario (in vendita nelle librerie in cofanetto libro+DVD) quasi per caso: sto lavorando a una breve ricostruzione dell’evoluzione del nostro paese dagli anni Cinquanta a oggi, utilizzando informazioni statistiche e concentrandomi soprattutto sugli aspetti che influenzano l’assetto urbano e territoriale. Mi ha attirato, sulla copertina, il riferimento al documentario “fantasma ” di Joris Ivens, L’Italia non è un paese povero: commissionato da Enrico Mattei e girato nel 1959-1960, con la collaborazione dei fratelli Taviani, di Enrico Maria Salerno come narratore e di Alberto Moravia per i testi, il documentario fu massacrato in sede di montaggio dalla produzione (non si potevano far vedere le miserie nazionali), tanto che il regista ne disconobbe la paternità. Va ascritto a Tinto Brass, che aveva lavorato come aiuto regista e addetto alle riprese della seconda unità, il merito di aver salvato il positivo del montaggio originale di Ivens, di averlo portato in Francia con la valigia diplomatica e infine pubblicato nel 1999. La vicenda è raccontata da un documentario (Quando l’Italia non era un paese povero) e da un sito.

Vicari ripercorre la strada di Ivens 45 anni dopo, ma a ritroso, da sud a nord. E l’Italia è cambiata: la miseria estrema è meno diffusa, ma manca quel senso di speranza che pervadeva (forse anche un po’ strumentalmente, data la committenza ENI) l’Italia del boom.

Qui c’è molta tristezza, molta rassegnazione (e la sensazione che chi ancora spera lo faccia più con l’ottimismo della volontà che con gli strumenti culturali, tecnici, sociali e politici che sarebbero necessari per concepire un progetto di futuro e per realizzarlo). Vengono in mente, soprattutto in questi giorni post-prodiani e post-mastelliani, un sacco di domande e qualche battuta amara:

  • L’Italia non è un paese povero, è un povero paese (trovato su un blog)
  • L’Italia è il paese più sviluppato del terzo mondo (citato da Giovanni De Mauro su Internazionale)
  • Al di là della lodevole intenzione di “contrattare l’alternativa sociale sul tavolo di governo” (Gabriele Polo), quale era il progetto di Italia del governo Prodi e della sua coalizione? Dove lo trovo nelle 282 pagine del programma (largamente inattuato)? Quali risposte diamo agli abitanti di una Gela devastata, agli operai di Termini Imerese che emigrano di nuovo, agli abitanti della Val Basento e di Melfi (un sogno infranto e uno ancora attivo), ai ricercatori della Casaccia precari a 43 anni, ai piccoli imprenditori di Prato (un modello economico e sociale che nel 1960 non era ancora nato e che nel 2006 era già agonizzante), alle contraddizioni di Marghera?

Un film da vedere, da meditare, da discutere.

Il film ha un sito e un progetto web 2.0.

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