Maruzza Musumeci

Camilleri, Andrea (2007). Maruzza Musumeci. Palermo: Sellerio. 2007.

Molti anni fa, dopo aver letto Il Gattopardo, mi capitò di leggere anche i Racconti di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che avevo trovato nella biblioteca dei miei (lo dico per spiegare perché adesso non ne posso parlare più diffusamente). Tra tutti, uno me ne era piaciuto in modo particolare (degli altri non ricordo nulla!): si chiamava Lighea (il titolo voluto dalla vedova), ma ora si chiama La sirena. Siamo nei luoghi di Camilleri, la costa meridionale della Sicilia. Il vecchio professor La Cura (o La Ciura, non ricordo), che ha conosciuto da giovane l’amore della sirena, non ne ha più potuto provare altri. Lo trovai bellissimo e conturbante. Mi piacerebbe rileggerlo.

È per questo che – in una sera in cui, lo devo confessare, mi ero dimenticato di portarmi qualcosa da leggere – mi è bastato trovare nel risvolto di copertina un riferimento al racconto di Tomasi di Lampedusa per farmi accalappiare. Anche il nudo sulla copertina, pervaso della stessa sensualità che ricordavo nel racconto di Tomasi, ha fatto la sua parte.

Il romanzo è esile, come lo sono spesso i romanzi di Camilleri. Meglio la lenta prima parte che l’accelerazione dei tempi negli ultimi capitoli. La lingua, per me padano (in senso zavattiniano, non leghista) è abbastanza ostica.

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Mille anni di piacere

Nakagami, Kenji (1982). Mille anni di piacere. Torino: Einaudi. 2007.

La tentazione di una recensione alla Paolo Villaggio, o alla Carlo Vanzina, è forte (“Nakagami? ‘na cagata”), ma forse ingiusta.

Il problema di questo libro è che non è un capolavoro, e che se non ci fossero in gioco il fascino dell’esotismo nipponico, un titolo pruriginoso e una brava studiosa (Antonietta Pastore) non sarebbe stato tradotto neppure dopo 25 dalla pubblicazione dell’originale.

Perché l’ho comprato io, allora? Mah. Era poco prima di Natale, anch’io subisco il fascino dell’esotismo nipponico e del titolo pruriginoso, il colore della copertina è bellissimo e il cartoncino un po’ ruvido è piacevole al tatto… Più seriamente, mi ha incuriosito scoprire dal risvolto che in Giappone esisteva una sorta di “casta di intoccabili”, come in India, gli eta, emancipati soltanto nel 1871. Dopo quella data, proibito il termine antico, furono chiamati burakumin, ma le discriminazioni e, in alcuni casi, le persecuzioni e i pogrom continuarono, fino ai nostri giorni.

Purtroppo, questo interessante sfondo sociologico non basta a fare un bel romanzo (o una bella serie di racconti – nemmeno questo si capisce bene): l’autore è incerto tra un tono favolistico alla sudamericana, un realismo magico alla García Márquez o una crudezza alla Céline. E allora il lettore rimpiange i modelli. È uno di quei casi in cui viene da esclamare: “Ma con tutto lo yogurt che c’è, c’era proprio bisogno di Yoplait?”

Salviamo almeno una pagina:

Una volta zia Oryu fece questa riflessione: più della primavera amava l’estate, quando tutto ciò che aveva vita si espandeva in tutta la sua forza e raggiungeva la piena fioritura e il pieno sviluppo; più dell’estate amava l’autunno che conosceva il limite delle cose, che vedeva la debolezza espandersi in silenzio e tante vene chiudere gli occhi impallidendo, il verde diventare a poco a poco argenteo e i fiori rossi color del ferro; più dell’autunno amava l’inverno tutto rinsecchito e più dell’inverno la primavera gonfia di germogli (p. 199).

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Ma con tutto lo yogurt che c’è, c’era proprio bisogno di Yoplait?

1992. L’Italia si avviava verso la svalutazione e la crisi finanziaria. Tangentopoli impazzava. DC, socialisti e il triumvirato del CAF (Craxi, Andreotti, Forlani) stavano per abbandonare (temporaneamente) le scene. La mafia assassinava clamorosamente Falcone, Borsellino e le loro scorte.

Gli italiani mangiavano lo yogurt. Dominavano il mercato Danone, Parmalat e Yomo (e la pubblicità dello Yomo la faceva Beppe Grillo, che non era ancora diventato razzista). Nel resto del mondo, molti mangiavano invece lo yogurt Yoplait (sul mercato di 50 paesi Yoplait è lo yogurt leader).

Nel 1992, dunque, la società francese Sodiaal (che controlla Yoplait) si allea con la società tedesca Kraft (“cose buone dal mondo” – 130.000 punti-vendita). La joint-venture vuole affermarsi sul mercato italiano e inizia una campagna pubblicitaria costosa (20 miliardi dell’epoca, nel solo 1993) e martellante.

Ma con tutto lo yogurt che c’è, c’era proprio bisogno di Yoplait?

Alla fine del 1993 Yoplait ha conquistato (!) una quota del mercato degli yogurt del 2,5%. Il fatturato di quell’anno è di 30 miliardi (contro spese in pubblicità di 20 ed entry fee nella grande distribuzione per altri 8).

Nell’autunno del 1993 Kraft si ritira dalla joint-venture, anche se mantiene un ruolo come distributore. La Sodiaal annulla gli investimenti pubblicitari.

Dal 1999 il prodotto non è più presente sul mercato italiano.

Ma con tutto lo yogurt che c’è, c’era proprio bisogno di Yoplait?

Evidentemente no. Gli studiosi di marketing ne hanno fatto un caso di studio. Ma a noi (a me almeno) è rimasta una frase memorabile, con la forza di un proverbio.