Carofiglio, Gianrico (2007). L’arte del dubbio. Palermo: Sellerio. 2007.
Gianrico Carofiglio è un magistrato e scrittore. In quest’ultima veste, è famoso per i 3 casi dell’avvocato Guerrieri, tutti pubblicati da Sellerio e anche trasposti in una serie televisiva. Io ho letto, prima di questo libro, Il passato è una terra straniera, romanzo che non appartiene alla serie dell’avvocato Guerrieri.
Questo invece è un saggio, anche se un saggio sui generis, che trae origine su un manuale di tecnica del contro-interrogatorio, arricchito e vivacizzato da molti esempi tratti dai verbali di alcuni dibattimenti.
L’ho trovato molto interessante soprattutto per le considerazioni iniziali e finali, dove la riflessione di Carofiglio si sposta su temi rilevanti per chiunque faccia ricerca, soprattutto nell’ambito delle scienze sociali. Per questo la mia recensione sarà lunga, e chi non è interessato mi abbandoni qua. Non mi offenderò.
Carofiglio muove da premesse in qualche misura post-moderne, di costruttivismo radicale (il testo di riferimento è La realtà della realtà di Paul Watzlawick), che condivido soltanto in parte:
«Per capire che una risposta è sbagliata non occorre una intelligenza eccezionale, ma per capire che è sbagliata una domanda ci vuole una mente creativa».
La riflessione sia teorica che pratica su qualsiasi professione che preveda la proposizione di domande e includa la prerogativa di attendere, o addirittura pretendere, delle risposte deve tenere conto della verità custodita in questa massima.
Ottenere date risposte piuttosto che altre, in molteplici campi dell’agire umano, dipende non solo e non tanto dal substrato di informazioni e conoscenze in possesso dell’interrogato e dal suo livello di sincerità, ma anche dai modi e dai contesti in cui la domanda è posta.
Per comprendere in pieno il senso di questa affermazione è necessario spendere qualche parola sul funzionamento della comunicazione umana e sul rapporto, per certi aspetti misterioso, che esiste fra comunicazione e realtà.
I meccanismi della comunicazione non sono entità neutre rispetto al loro oggetto, vale a dire rispetto ai fatti, alle informazioni, alle conoscenze, insomma, complessivamente, rispetto a ciò che siamo soliti chiamare realtà. La comunicazione non è semplicemente uno strumento per rappresentare oggetti da essa separati o in essa contenuti; essa invece condiziona costitutivamente la struttura stessa dei fatti e delle conoscenze. Come è stato provocatoriamente affermato da un celebre studioso del comportamento umano: «la comunicazione crea quella che noi chiamiamo realtà».
Questa affermazione, dall’apparenza paradossale, prende le mosse dalla constatazione del carattere illusorio delle nostre idee tradizionali sulla realtà. Metafisicamente illusoria in particolare, è la fiducia nell’esistenza di un’unica realtà, quando «in effetti esistono molte versioni diverse della realtà, alcune contraddittorie, ma tutte risultanti dalla comunicazione e non riflessi di verità oggettive, eterne». Nel film Rashomon del regista giapponese Kurosawa questo concetto è sviluppato meglio che in qualsiasi riflessione teorica.
L’opera cinematografica narra di un samurai assassinato mentre, con la moglie, attraversa una foresta. L’episodio viene raccontato da diversi soggetti e cioè il brigante autore dell’omicidio, la moglie del samurai, lo stesso samurai (evocato da una maga) e un boscaiolo testimone oculare del fatto. Ognuno di questi personaggi racconta una storia totalmente diversa per cui «tutte le versioni appaiono al tempo stesso vere e false; ognuna è dominata dagli interessi di chi la racconta». Dai racconti emergono tante verità quanti sono i protagonisti della vicenda.
La storia di Rashomon mostra come gli angoli visuali incidano in modo determinante sulla rappresentazione, sulla narrazione e, in un senso peculiare, sulla creazione stessa della realtà di soggetti diversi (pp. 13-15).
In realtà, mi sembra di capire che Carofiglio condivida le affermazioni radicali secondo le quali “la comunicazione crea quella che noi chiamiamo realtà” e “in effetti esistono molte versioni diverse della realtà, alcune contraddittorie, ma tutte risultanti dalla comunicazione e non riflessi di verità oggettive, eterne” soltanto con riferimento “all’individuazione di verità accettabili nella prospettiva dell’adozione di decisioni preferibili” (p. 207).
Verso la fine del libro ci sono considerazioni illuminanti.
La vicenda processuale è […] caratterizzata da una molteplicità di interazioni soggettive e momenti di comunicazione. […]
Abbiamo in primo luogo quella che potremmo definire interazione esplicativa. Essa intercorre fra le parti (pubblico ministero e avvocati) e il giudice (individuale o collettivo che sia) in un momento precedente alla formazione della prova orale utilizzabile ai fini della decisione e ha luogo nella fase dell’esposizione introduttiva dei fatti e nella formulazione delle richieste di prova.
Abbiamo in secondo luogo quella che potremmo definire interazione interrogativa. Essa è caratteristica delle audizioni dibattimentali e intercorre direttamente fra le parti interroganti e i soggetti che forniscono il loro apporto di conoscenze per la formazione del materiale utile alla decisione.
Abbiamo in terzo luogo l’interazione argomentativa caratteristica soprattutto della discussione finale. Essa intercorre fra avvocati (intendendo come tale, in questa fase, anche il pubblico ministero) e giudice ed è caratterizzata da quella che potremmo definire la funzione persuasiva.
Questo schema ha un valore essenzialmente classificatorio e mette a fuoco la funzione preminente di ciascuna delle tre fasi indicate. L’utilità classificatoria dello schema non deve però far perdere di vista il dispiegarsi concreto della vicenda processuale nei cui diversi passaggi si intrecciano e si sovrappongono momenti conoscitivi, esplicativi e argomentativi. In particolare la funzione esplicativa e la funzione persuasiva percorrono l’intero arco della vicenda dibattimentale, partendo dall’esposizione introduttiva, proseguendo con la fase istruttoria per giungere al momento prevalentemente caratterizzato dalla persuasività, vale a dire quello delle argomentazioni conclusive.
[…]
È stato sottolineato opportunamente che nel nuovo sistema processuale le parti «dibattono ed argomentano (istruzione dibattimentale vuol dire anche questo) con le rispettive prove molto più che attraverso la discussione finale».
L’affermazione appare corretta ove si tenga conto delle facoltà, attribuite alle parti, di decidere quali mezzi di prova richiedere, di stabilire in quale successione assumere le prove orali e, soprattutto, di articolare il modo di assunzione di tali prove orali in prospettiva strategica.
Su tali basi è possibile leggere il complesso delle scelte strategiche dibattimentali come espressione della funzione argomentativa immanente all’intero processo, considerato dall’angolo visuale delle parti. In altri termini l’intero processo può essere considerato come un’unica struttura argomentativa complessa ma unitaria; come un apparato in cui, fornendo informazioni ed evocando conoscenze, le parti procedono in un percorso persuasivo che culmina nella fase esplicitamente argomentativa della discussione finale.
Il processo penale ha in definitiva una generale dimensione retorica. Una simile affermazione richiede l’esplicitazione di alcuni concetti (pp. 203-205).
Il primo punto interessante mi sembra questo: il processo penale è una struttura argomentativa. Come vedremo, questo riferimento alla “struttura argomentativa” può essere esteso al campo delle scienze sociali (in senso lato), dove l’obiettivo è quello della costruzione di una verità accettabile (condivisa) funzionale all’adozione di una decisione.
Il secondo punto è che l’argomentazione pertiene alla dimensione retorica.
La retorica, nella moderna accezione del termine, è la disciplina che si occupa della argomentazione sia dal punto di vista della riflessione teorica che dal punto di vista delle applicazioni pratiche. Tale disciplina, avuto riguardo al suo statuto epistemologico si identifica con la teoria della argomentazione la quale, in sostanza, ha il suo oggetto di studio nei mezzi di prova non dimostrativi cioè i mezzi di prova tipici di scienze dell’uomo quali il diritto, l’etica, la filosofia.
La dimostrazione costituisce lo strumento per l’affermazione delle verità formali, tipiche di discipline come la matematica, la geometria, la logica formale. La dimostrazione è in sostanza l’operazione intellettuale che da premesse postulate giunge ad affermazioni inconfutabili.
L’argomentazione costituisce invece lo strumento per pervenire alla verità (approssimativa in senso popperiano) di scienze umane, di discipline storiche ed in particolare alla verità processuale che è appunto una verità di tipo storico. L’argomentazione è in sostanza l’operazione intellettuale che da premesse empiriche conduce a conclusioni persuasive ed accettabili.
Una importante conseguenza di questa distinzione è che il ragionamento dimostrativo – conducendo a conclusioni necessarie – vale indipendentemente dalle persone cui è rivolto; il ragionamento persuasivo – dovendo esso condurre a conclusioni accettabili – vale solo in riferimento a un determinato uditorio inteso come «l’insieme di coloro sui quali l’oratore vuole influire per mezzo della sua argomentazione».
Chiunque faccia uso dell’argomentazione pensa, in modo più o meno consapevole, a coloro che cerca di persuadere e che costituiscono l’uditorio cui i suoi argomenti sono indirizzati. Gli argomenti quindi, a differenza delle prove dimostrative, variano in funzione dei relativi destinatari; dei soggetti, cioè, nei confronti dei quali si vuole che operi il meccanismo della persuasione.
Norberto Bobbio, nella prefazione alla più celebre e completa opera moderna sulla retorica – il Trattato dell’argomentazione di Perelman e Tyteca – definisce la teoria dell’argomentazione «come la teoria delle prove razionali non dimostrative, ed in modo ancor più pregnante, come la logica (qui usando il termine logica in senso ampio) delle scienze non dimostrative».
Si tratta di un sistema logico che non si occupa di dimostrazioni (vale a dire di passaggi regolati dal principio di necessità da premesse assiomatiche a conclusioni necessarie) ma di prove non dimostrative, e il cui scopo è quello di condurre, per quanto interessa la sua applicazione al processo, alla individuazione di verità accettabili nella prospettiva dell’adozione di decisioni preferibili.
In tale quadro di riferimento concettuale va collocata la riflessione sulla pratica dell’argomentazione nell’arco di tutto il processo e non solo nelle fasi, in particolare quella delle conclusioni, esplicitamente connotate dalla funzione persuasiva.
Si argomenta infatti, naturalmente, con il discorso direttamente rivolto all’uditorio rispetto al quale si vuol realizzare il risultato persuasivo. Si argomenta anche però, nel processo come in altri contesti, con comportamenti non verbali e con interazioni discorsive (appunto le audizioni dibattimentali) non direttamente intercorrenti fra chi mira ad ottenere il risultato persuasivo ed il suo uditorio.
In altri termini: fondamentali operazioni argomentative e persuasive nei confronti del giudice, possono essere svolte nel processo, oltre che con l’esposizione introduttiva e le conclusioni, con la scelta dei mezzi di prova, con la predisposizione della relativa assunzione e, soprattutto, con la strategia degli interrogatori, in essa includendo l’organizzazione della sequenza delle domande e i relativi modi di formulazione e di proposizione.
Tutti questi aspetti vanno articolati consapevolmente nel quadro di un apparato argomentativo di tipo modulare, nel cui ambito i vari passaggi siano strutturati armonicamente in prospettiva del conseguimento del risultato finale di convincimento dell’uditorio.
In sostanza dunque la corretta pratica del processo penale vigente implica l’articolazione di un complessivo discorso (intendendosi la nozione di discorso in senso ampio, siccome comprensiva anche di momenti di comunicazione non verbali o comunque indiretti) argomentativo che parta dalla esposizione introduttiva, proceda senza soluzione di continuità lungo tutto l’arco dell’ acquisizione probatoria e trovi il suo momento di conclusione e sintesi nelle perorazioni finali: requisitoria e arringhe.
In questo senso il processo penale di impronta accusatoria ha una generale impostazione retorica.
Senza una precisa consapevolezza di tale dimensione retorica, nell’accezione appena chiarita, dell’intero processo penale non è possibile ricoprire con efficacia e correttezza il ruolo di protagonista della vicenda dibattimentale (pp. 206-209).
Come e in che cosa si manifesta l’argomentazione?
La relazione che si crea nel corso di una audizione dibattimentale ha struttura che si potrebbe definire triangolare. L’interrogante, quando propone le sue domande, si rivolge direttamente all’interrogato e indirettamente al giudice. A sua volta la risposta, se naturalmente viene recepita e registrata da chi conduce l’esame, ha come suo destinatario finale chi, ancora una volta il giudice, dovrà valutarla nel quadro complessivo delle acquisizioni processuali, ai fini di adottare una decisione sul merito della causa.
[…]
In cosa si manifesta dunque la capacità di veicolare messaggi persuasivi? Il discorso è naturalmente di eccezionale complessità ed è possibile in questa sede tracciarne solo le coordinate generali.
Si rammenti in proposito quello che abbiamo detto sulla differenza fra logica dimostrativa e logica argomentativa.
Il ragionamento dimostrativo vale indipendentemente dalle persone cui è rivolto; il ragionamento persuasivo invece (sia esso diretto come nell’arringa o nella requisitoria, o indiretto come nel caso delle audizioni dibattimentali) vale solo in riferimento a un uditorio determinato. Gli argomenti quindi, a differenza delle prove dimostrative, debbono tendenzialmente adattarsi al pubblico cui sono destinati.
I messaggi sono tanto più comprensibili, e quindi tanto più dotati di forza persuasiva, quanto più l’ascoltatore è in grado di inserirli in un suo autonomo quadro di conoscenze ed informazioni. Perciò, tanto più efficace sarà l’azione persuasiva quanto più ci saranno note le caratteristiche del nostro uditorio, vale a dire la personalità dei giudici. Quanto più, quindi, saremo in grado di adattare il nostro messaggio alle sensibilità e alle stesse capacità di contestualizzazione e comprensione di tale uditorio, tanto più riusciremo ad orientarne correttamente le decisioni (pp. 209-211).
Anche qui, i punti da sottolineare – in quanto generalizzabili alle modalità di produzione di conoscenza delle scienze sociali – mi sembrano due: il rapporto tra argomento persuasivo e suo uditorio e, di conseguenza, il carattere dialettico del processo di costruzione di questa conoscenza.
La definizione del concetto di processo come categoria generale viene abitualmente riferita alla funzione di soluzione dei conflitti. Tale definizione coglie in termini astratti la ragione del processo, il perché del suo esistere nell’ambito delle collettività organizzate. In questa definizione non si individua però alcun elemento descrittivo dei modi, dei percorsi attraverso i quali il processo passa dalla posizione del conflitto alla soluzione del conflitto medesimo.
Questi modi e percorsi consistono – in estrema sintesi – nelle attività conoscitive volte a porre i fondamenti di fatto delle decisioni.
Su questa premessa è possibile definire il processo in generale, e il processo penale in particolare, come una struttura dinamica funzionalmente orientata alla produzione di conoscenze utili per la soluzione di conflitti.
In sostanza quindi si può affermare che all’essenza stessa del processo, e in particolare del processo penale, è connaturale l’attitudine a produrre conoscenza, a produrre sapere.
La produzione di conoscenze è la fase concettualmente prodromica, o se si vuole il mezzo, per la soluzione dei conflitti.
All’evidenza la definizione del processo in genere come apparato per la produzione di conoscenze ha un carattere meramente descrittivo e non pone problemi particolari. Questa definizione taglia però fuori il tema del grado di attendibilità delle conoscenze prodotte e, in ultima analisi, del grado di corrispondenza di tali conoscenze alla verità. Questo tema si innesta e si identifica nella questione dei diversi modelli processuali e delle loro diverse attitudini a produrre conoscenze attendibili, saperi affidabili.
Non sembra dubbio comunque che le conoscenze, e in sostanza le verità, che produce il processo siano verità storiche e non scientifiche o formali.
Di nessuna verità storica, come peraltro di nessuna verità scientifica nella prospettiva del falsificazionismo popperiano, è formalmente impossibile predicare il contrario, dovendosi da ciò desumere che il concetto di verità processuale sia ricostruibile, indirettamente, con una sorta di determinazione quantitativa delle probabilità contrarie (pp. 219-220).
È con questo passaggio che emerge il punto per me più interessante di tutta l’argomentazione (appunto!) di Carofiglio: la conoscenza prodotta dall’argomentazione non si fonda su una verità assoluta, ma su una credibilità probabilisticamente fondata, e dunque di natura statistica. Conclusione doppiamente interessante: perché colloca la statistica (come scienza) al centro dei processi di produzione di conoscenza – quanto meno al centro di gran parte, della parte più rilevante di questi processi; e perché la conoscenza così costruita è per costruzione laica (cioè non discendente da verità assolute) e dialettica (è aperta, e anzi sollecita, l’esercizio di una critica volta a sovvertire le “verità” provvisoriamente raggiunte).
In definitiva, cioè, si può parlare di raggiungimento della verità nel processo solo laddove «le probabilità del contrario sono confinate in un’area così ristretta da essere convenzionalmente accettata». Il ragionamento giudiziario, che ha la forma di una inferenza induttiva e non di un processo deduttivo, passa da una verità di premesse ad una rilevante probabilità delle conclusioni, senza che sia impossibile affermare 1’impossibilità – ma solo una rilevante improbabilità – che la detta conclusione, definita come vera, sia falsa.
Accolta una simile nozione della verità processuale, sembra ormai culturalmente acquisito che il metodo più affidabile per produrla sia quello proposto dal paradigma dialettico su cui si basa il processo accusatorio.
La possibilità offerta dal metodo dialettico di formazione della prova, di sottoporre a tentativi di falsificazioni le verità del processo nel momento stesso in cui esse si formano, costituisce garanzia di resistenza di tali verità, elevando il grado di probabilità che la conclusione dell’induzione giudiziaria sia vera o (il che è lo stesso) riducendo il grado di probabilità che essa sia falsa.
In tale concetto risiede il senso della differenza fra metodo inquisitorio e metodo accusatorio, senso che va colto nei diversi percorsi di formazione della prova, la quale è in un caso prodotta da una ricerca solitaria e segreta; nell’altro modellata dallo scontro di (proposte di) verità e tentativi di falsificazione.
A fronte dell’incedere per teoremi del giudice inquisitore, il metodo dialettico porta con sé una fondamentale istanza di conoscenza critica che trova il suo punto di massima espressione nel momento e nella funzione del controesame.
L’atto del domandare dubitando, che sintetizza l’essenza e la ragione del controesame, costituisce espressione di libertà dai vincoli di verità convenzionali e, soprattutto, dai pericoli di decisioni precostituite. Esso è dunque momento fondamentale, e quasi metafora, di una ricerca laica e tollerante della verità praticata attraverso i modi dell’argomentazione e della persuasione.
Scriveva Norberto Bobbio: «La teoria dell’argomentazione rifiuta le antitesi troppo nette: mostra che tra la verità assoluta degli invasati e la non-verità degli scettici c’è posto per le verità da sottoporsi a continua revisione mercé la tecnica di addurre ragioni pro e contro. Sa che quando gli uomini cessano di credere alle buone ragioni, comincia la violenza» (pp. 220-222).
Domandare dubitando è un motto che anche gli statistici dovrebbero scrivere sui loro templi, accanto a Numerus rei publicæ fundamentum.