Mani sporche

Barbacetto, Gianni, Peter Gomez e Marco Travaglio (2007). Mani sporche. Milano: Chiarelettere. 2007.

Un utile (ancorché prolisso) riassunto delle puntate precedenti. Soprattutto adesso che stiamo scrivendo l’ultima in presa diretta.

La cosa più interessante l’ho trovata a pagina 385:

Nel 1993, sull’onda dello scandalo di Tangento­poli, gli italiani chiamati al referendum aboliscono il finanziamen­to pubblico dei partiti con una maggioranza del 90,3 per cento. L’allora premier Giuliano Amato ne prende atto con realismo: «Cerchiamo di essere consapevoli: l’abolizione del finanziamento statale non è fine a se stessa, esprime qualcosa di più, il ripudio del partito parificato agli organi pubblici e collocato tra essi». La re­staurazione berlusconiana e poi partitocratica trova però il modo di aggirare il referendum. Come? Con il trucco dei «rimborsi elet­torali». Sulle prime, le cifre sembrano quasi sopportabili: 800 lire per ogni cittadino residente e per ognuna delle due Camere. In to­tale ogni italiano devolve alle campagne elettorali dei partiti 1600 lire (detratta l’inflazione, 1 euro e 10 centesimi di oggi). Sembra un’inezia, invece è già troppo: la Corte dei conti segnala che i par­titi, per le elezioni, ricevono molto più di quel che dicono di spen­dere. Ma il 2 gennaio 1997 il Parlamento – a maggioranza Ulivo, ma con i voti del Polo – decide di cambiare di nuovo e approva la legge n. 2 che prevede un contributo volontario dei cittadini, i qua­li possono devolvere ai partiti il 4 per mille dell’lrpef (il denaro rac­colto finisce in un fondo e ripartito poi in base al peso elettorale di ciascun partito). Massimo D’Alema osserva che i partiti si espon­gono così «a essere giudicati dai cittadini» a dispetto del «qualun­quismo becero e antidemocratico contro il sistema dei partiti». E promette che, per recuperare la fiducia dei cittadini, «i partiti deb­bono rinnovarsi, essere trasparenti, sottoporsi a un controllo da parte dei cittadini». Parole imprudenti, visto che nulla verrà fatto per sottrarre i partiti alla sfera privatistica con una codificazione della loro responsabilità giuridica e con la conseguente, indispensa­bile certificazione dei bilanci. Risultato: il 4 per mille lo versano pochissimi italiani (il numero esatto non sarà mai comunicato).
Così, per evitare la bancarotta dei partiti, il ministro Visco è co­stretto ad anticipare loro, a spese dei contribuenti, 160 miliardi di lire per il 1997 e 110 per il 1998. Per una volta, l’opposizione di centrodestra – solitamente così agguerrita – non leva nemmeno un vagito di protesta. Tutti zitti, tutti d’accordo. Si torna così, alla che­tichella, al finanziamento diretto dello Stato. Nel 1999 viene varata una nuova legge, che archivia l’esperimento del 4 per mille senza il minimo dibattito sulle ragioni del suo fallimento, e torna all’anti­co: cioè ai rimborsi elettorali (concessi ovviamente in anticipo) per le elezioni di rinnovo della Camera, del Senato, dei consigli regio­nali, del Parlamento europeo: 1 euro per ciascun cittadino iscritto alle liste elettorali. Viene pure abbassato il quorum per ottenere il rimborso: se la legge del ’93 pretendeva almeno il 3 per cento dei voti, con la nuova legge basta l’1 per cento. Così le liste e i partiti avranno tutto l’interesse a moltiplicarsi a dismisura. Fra l’altro, i fi­nanziamenti privati (almeno quelli dichiarati) sono bassissimi: nel 2005, «Il Sole 24 Ore» rileva che per Forza Italia, Ds, An e Pdci il finanziamento pubblico rappresenta l’80 per cento delle entrate; per Margherita, Nuovo Psi e Lista Pannella il 90; per l’Italia dei va­lori addirittura il 99,9. E tutti i partiti, al 31 dicembre 2005, risul­tano nei debiti fino al collo. I più indebitati sono proprio i due maggiori: i Ds con 179 milioni di euro e Forza Italia con 113.
I cosiddetti «rimborsi» vengono usati solo in minima parte per le campagne elettorali: per la gran parte servono a mantenere le strutture delle varie formazioni politiche anche negli anni in cui non si vota. Con un surplus di ipocrisia, i partiti promettono che, se gli anticipi supereranno le spese effettivamente sostenute per le elezio­ni, le somme «eventualmente ricevute in eccesso» verranno restitui­te entro cinque anni, a rate nella misura del 20 per cento all’ anno. Ma poi l’apposito decreto di conguaglio non viene mai varato, ren­dendo impossibile l’eventuale restituzione dei surplus. In pochi mesi i tesorieri dei partiti, quasi tutti d’accordo, ritoccano verso l’alto l’importo del «rimborso», che passa a 2 euro per ogni elettore e per ogni Camera, per le elezioni eutopee e per le regionali. Più un forfait, volta per volta, per le elezioni comunali e provinciali. Così, nel 2001l, le forze politiche incassano 92.814.915 euro.
Nel 2002, mentre si scontrano in Parlamento e in piazza sulle «leggi-vergogna» del governo Berlusconi, destra e sinistra presenta­no insieme una leggina con firme multicolori (Deodato, Ballaman, Giovanni Bianchi, Biondi, Buontempo, Colucci, Alberta De Si­mone, Luciano Dussin, Fiori, Manzini, Mastella, Mazzocchi, Mus­si, Pistone, Rotondi, Tarditi, Trupia, Valpiana) che alza i cosiddetti «rimborsi» addirittura a 5 euro per ogni avente diritto al voto, e sempre per ciascuna delle due Camere. Non basta: i rimborsi per il Senato vengono calcolati in base agli elettori della Camera, che so­no oltre 4 milioni in più (e fruttano ai partiti 20.491.120 euro in più). Di aumento in aumento, di ritocco in ritocco, nel 2006 il to­tale dei rimborsi elettorali raggiunge la cifra record di 200.819.044 euro. Più del doppio dei 93 milioni incamerati nel 2001. Se nel 1993 ogni italiano versava ai partiti 1,1 euro, nel 2006 ne devolve 10. Come scrivono Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo nel libro La Casta, «ogni ciclo elettorale (politiche, regionali, europee, ammini­strative … ) ci costa ormai un miliardo di euro a lustro».

Avete capito bene. Ma se vi fosse sfuggito ve lo spiego io. Tutta l’ammuina sul sistema elettorale e sulle soglie di sbarramento, i dotti articoli dei politologi su rappresentanza e governabilità, il modello francese, tedesco, spagnolo e delle isole Tonga sono fumo negli occhi. I partitini sopravvivono per effetto del meccanismo dei rimborsi elettorali, che spettano ai partiti con l’1% dei voti; i rimborsi sono anticipi e non sono commisurati alle spese effettivamente sostenute; e la casta la manteniamo noi contribuenti.

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L’arte del dubbio, di Gianrico Carofiglio

Carofiglio, Gianrico (2007). L’arte del dubbio. Palermo: Sellerio. 2007.

Gianrico Carofiglio è un magistrato e scrittore. In quest’ultima veste, è famoso per i 3 casi dell’avvocato Guerrieri, tutti pubblicati da Sellerio e anche trasposti in una serie televisiva. Io ho letto, prima di questo libro, Il passato è una terra straniera, romanzo che non appartiene alla serie dell’avvocato Guerrieri.

Questo invece è un saggio, anche se un saggio sui generis, che trae origine su un manuale di tecnica del contro-interrogatorio, arricchito e vivacizzato da molti esempi tratti dai verbali di alcuni dibattimenti.

L’ho trovato molto interessante soprattutto per le considerazioni iniziali e finali, dove la riflessione di Carofiglio si sposta su temi rilevanti per chiunque faccia ricerca, soprattutto nell’ambito delle scienze sociali. Per questo la mia recensione sarà lunga, e chi non è interessato mi abbandoni qua. Non mi offenderò.

Carofiglio muove da premesse in qualche misura post-moderne, di costruttivismo radicale (il testo di riferimento è La realtà della realtà di Paul Watzlawick), che condivido soltanto in parte:

«Per capire che una risposta è sbagliata non occorre una intelligenza eccezionale, ma per capire che è sbagliata una domanda ci vuole una mente creativa».
La riflessione sia teorica che pratica su qualsiasi professione che preveda la proposizione di domande e includa la prerogativa di attendere, o addirittura pretendere, delle risposte deve tenere conto della verità custodita in questa massima.
Ottenere date risposte piuttosto che altre, in molteplici campi dell’agire umano, dipende non solo e non tanto dal substrato di informazioni e conoscenze in possesso dell’interrogato e dal suo livello di sincerità, ma anche dai modi e dai contesti in cui la domanda è posta. ­
Per comprendere in pieno il senso di questa affermazione è necessario spendere qualche parola sul funzionamento della comunicazione umana e sul rapporto, per certi aspetti misterioso, che esiste fra comunicazione e realtà. ­­
I meccanismi della comunicazione non sono entità neutre rispetto al loro oggetto, vale a dire rispetto ai fatti, alle informazioni, alle conoscenze, insomma, complessivamente, rispetto a ciò che siamo soliti chiamare realtà. La comunicazione non è semplicemente uno strumento per rappresentare oggetti da essa separati o in essa contenuti; essa invece condiziona costitutivamente la struttura stessa dei fatti e delle conoscenze. Come è stato provocatoriamente affermato da un celebre studioso del comportamento umano: «la comunicazione crea quella che noi chiamiamo realtà».­­­
Questa affermazione, dall’apparenza paradossale, prende le mosse dalla constatazione del carattere illusorio delle nostre idee tradizionali sulla realtà. Metafisicamente illusoria in particolare, è la fiducia nell’esistenza di un’unica realtà, quando «in effetti esistono molte versioni diverse della realtà, alcune contraddittorie, ma tutte risultanti dalla comunicazione e non riflessi di verità oggettive, eterne». Nel film Rashomon del regista giapponese Kurosawa questo concetto è sviluppato meglio che in qualsiasi riflessione teorica. ­­­­­
­­­­­­­­L’opera cinematografica narra di un samurai assassinato mentre, con la moglie, attraversa una foresta. L’episodio viene raccontato da diversi soggetti e cioè il brigante autore dell’omicidio, la moglie del samurai, lo stesso samurai (evocato da una maga) e un boscaiolo testimone oculare del fatto. Ognuno di questi personaggi racconta una storia totalmente diversa per cui «tutte le versioni appaiono al tempo stesso vere e false; ognuna è dominata dagli interessi di chi la racconta». Dai racconti emergono tante verità quanti sono i protagonisti della vicenda.
La storia di Rashomon mostra come gli angoli visuali incidano in modo determinante sulla rappresentazione, sulla narrazione e, in un senso peculiare, sulla creazione stessa della realtà di soggetti diversi (pp. 13-15).

In realtà, mi sembra di capire che Carofiglio condivida le affermazioni radicali secondo le quali “la comunicazione crea quella che noi chiamiamo realtà” e “in effetti esistono molte versioni diverse della realtà, alcune contraddittorie, ma tutte risultanti dalla comunicazione e non riflessi di verità oggettive, eterne” soltanto con riferimento “all’individuazione di verità accettabili nella prospettiva dell’adozione di decisioni preferibili” (p. 207).

Verso la fine del libro ci sono considerazioni illuminanti.

La vicenda processuale è […] caratterizzata da una molteplicità di interazioni soggettive e momenti di comunicazione. […]
Abbiamo in primo luogo quella che potremmo de­finire interazione esplicativa. Essa intercorre fra le parti (pubblico ministero e avvocati) e il giudice (individuale o collettivo che sia) in un momento precedente alla formazione della prova orale utilizzabile ai fini della decisione e ha luogo nella fase dell’esposizione introduttiva dei fatti e nella formulazione delle richieste di prova.
Abbiamo in secondo luogo quella che potremmo de­finire interazione interrogativa. Essa è caratteristica del­le audizioni dibattimentali e intercorre direttamente fra le parti interroganti e i soggetti che forniscono il loro apporto di conoscenze per la formazione del materia­le utile alla decisione.
Abbiamo in terzo luogo l’interazione argomentativa caratteristica soprattutto della discussione finale. Essa intercorre fra avvocati (intendendo come tale, in questa fase, anche il pubblico ministero) e giudice ed è caratterizzata da quella che potremmo definire la funzione persuasiva. ­­
Questo schema ha un valore essenzialmente classificatorio e mette a fuoco la funzione preminente di ciascuna delle tre fasi indicate. L’utilità classificatoria dello schema non deve però far perdere di vista il dispiegarsi concreto della vicenda processuale nei cui diversi passaggi si intrecciano e si sovrappongono momenti conoscitivi, esplicativi e argomentativi. In particolare la funzione esplicativa e la funzione persuasiva percorrono l’intero arco della vicenda dibattimentale, partendo dall’esposizione introduttiva, proseguendo con la fase istruttoria per giungere al momento prevalentemente caratterizzato dalla persuasività, vale a dire quello delle argomentazioni conclusive.
[…]
È stato sottolineato opportunamente che nel nuovo sistema processuale le parti «dibattono ed argomentano (istruzione dibattimentale vuol dire anche questo) con le rispettive prove molto più che attraverso la discussione finale».
L’affermazione appare corretta ove si tenga conto delle facoltà, attribuite alle parti, di decidere quali mezzi di prova richiedere, di stabilire in quale successione assumere le prove orali e, soprattutto, di articolare il modo di assunzione di tali prove orali in prospettiva strategica. ­­
Su tali basi è possibile leggere il complesso delle scelte strategiche dibattimentali come espressione della funzione argomentativa immanente all’intero processo, considerato dall’angolo visuale delle parti. ­­In altri termini l’intero processo può essere considerato come un’unica struttura argomentativa complessa ma unitaria; come un apparato in cui, fornendo informazioni ed evocando conoscenze, le parti procedono in un percorso persuasivo che culmina nella fase esplicitamente argomentativa della discussione finale. ­­­
Il processo penale ha in definitiva una generale dimensione retorica. Una simile affermazione richiede l’esplicitazione di alcuni concetti (pp. 203-205).

Il primo punto interessante mi sembra questo: il processo penale è una struttura argomentativa. Come vedremo, questo riferimento alla “struttura argomentativa” può essere esteso al campo delle scienze sociali (in senso lato), dove l’obiettivo è quello della costruzione di una verità accettabile (condivisa) funzionale all’adozione di una decisione.

Il secondo punto è che l’argomentazione pertiene alla dimensione retorica.

La retorica, nella moderna accezione del termine, è la disciplina che si occupa della argomentazione sia dal punto di vista della riflessione teorica che dal punto di vista delle applicazioni pratiche. Tale disciplina, avuto riguardo al suo statuto epistemologico si identifica con la teoria della argomentazione la quale, in sostanza, ha il suo oggetto di studio nei mezzi di prova non dimostrativi cioè i mezzi di prova tipici di scienze dell’uomo quali il diritto, l’etica, la filosofia. ­­­­­
La dimostrazione costituisce lo strumento per l’affermazione delle verità formali, tipiche di discipline come la matematica, la geometria, la logica formale. La dimostrazione è in sostanza l’operazione intellettuale che da premesse postulate giunge ad affermazioni inconfutabili. ­­ ­
L’argomentazione costituisce invece lo strumento per pervenire alla verità (approssimativa in senso popperiano) di scienze umane, di discipline storiche ed in particolare alla verità processuale che è appunto una verità di tipo storico. L’argomentazione è in sostanza l’operazione intellettuale che da premesse empiriche conduce a conclusioni persuasive ed accettabili. ­­
Una importante conseguenza di questa distinzione è che il ragionamento dimostrativo – conducendo a conclusioni necessarie – vale indipendentemente dalle persone cui è rivolto; il ragionamento persuasivo – dovendo esso condurre a conclusioni accettabili – vale solo in riferimento a un determinato uditorio inteso come «l’insieme di coloro sui quali l’oratore vuole influire per mezzo della sua argomentazione».­­­­
Chiunque faccia uso dell’argomentazione pensa, in modo più o meno consapevole, a coloro che cerca di persuadere e che costituiscono l’uditorio cui i suoi argomenti sono indirizzati. Gli argomenti quindi, a differenza delle prove dimostrative, variano in funzione dei relativi destinatari; dei soggetti, cioè, nei confronti dei quali si vuole che operi il meccanismo della persuasione. ­­­
Norberto Bobbio, nella prefazione alla più celebre e completa opera moderna sulla retorica – il Trattato dell’argomentazione di Perelman e Tyteca – definisce la teoria dell’argomentazione «come la teoria delle prove razionali non dimostrative, ed in modo ancor più pregnante, come la logica (qui usando il termine logica in senso ampio) delle scienze non dimostrative».­­
Si tratta di un sistema logico che non si occupa di dimostrazioni (vale a dire di passaggi regolati dal principio di necessità da premesse assiomatiche a conclusioni necessarie) ma di prove non dimostrative, e il cui scopo è quello di condurre, per quanto interessa la sua applicazione al processo, alla individuazione di verità accettabili nella prospettiva dell’adozione di decisioni preferibili.
In tale quadro di riferimento concettuale va collocata la riflessione sulla pratica dell’argomentazione nell’arco di tutto il processo e non solo nelle fasi, in particolare quella delle conclusioni, esplicitamente connotate dalla funzione persuasiva. ­
Si argomenta infatti, naturalmente, con il discorso direttamente rivolto all’uditorio rispetto al quale si vuol realizzare il risultato persuasivo. Si argomenta anche però, nel processo come in altri contesti, con comportamenti non verbali e con interazioni discorsive (appunto le audizioni dibattimentali) non direttamente intercorrenti fra chi mira ad ottenere il risultato persuasivo ed il suo uditorio. ­­
In altri termini: fondamentali operazioni argomentative e persuasive nei confronti del giudice, possono essere svolte nel processo, oltre che con l’esposizione introduttiva e le conclusioni, con la scelta dei mezzi di prova, con la predisposizione della relativa assunzione e, soprattutto, con la strategia degli interrogatori, in essa includendo l’organizzazione della sequenza delle domande e i relativi modi di formulazione e di proposizione.­­
Tutti questi aspetti vanno articolati consapevolmente nel quadro di un apparato argomentativo di tipo modulare, nel cui ambito i vari passaggi siano strutturati armonicamente in prospettiva del conseguimento del risultato finale di convincimento dell’uditorio.
In sostanza dunque la corretta pratica del processo penale vigente implica l’articolazione di un complessivo discorso (intendendosi la nozione di discorso in senso ampio, siccome comprensiva anche di momenti di comunicazione non verbali o comunque indiretti) argomentativo che parta dalla esposizione introduttiva, proceda senza soluzione di continuità lungo tutto l’arco dell’ acquisizione probatoria e trovi il suo momento di conclusione e sintesi nelle perorazioni finali: requisitoria e arringhe. ­­­­
In questo senso il processo penale di impronta accusatoria ha una generale impostazione retorica. ­
Senza una precisa consapevolezza di tale dimensione retorica, nell’accezione appena chiarita, dell’intero processo penale non è possibile ricoprire con efficacia e correttezza il ruolo di protagonista della vicenda dibattimentale (pp. 206-209).

Come e in che cosa si manifesta l’argomentazione?

La relazione che si crea nel corso di una audizione dibattimentale ha struttura che si potrebbe definire triangolare. L’interrogante, quando propone le sue domande, si rivolge direttamente all’interrogato e indirettamente al giudice. A sua volta la risposta, se naturalmente viene recepita e registrata da chi conduce l’esame, ha come suo destinatario finale chi, ancora una volta il giudice, dovrà valutarla nel quadro complessivo delle acquisizioni processuali, ai fini di adottare una decisione sul merito della causa.
­­­[…]
In cosa si manifesta dunque la capacità di veicolare messaggi persuasivi? Il discorso è naturalmente di eccezionale complessità ed è possibile in questa sede tracciarne solo le coordinate generali.
Si rammenti in proposito quello che abbiamo detto sulla differenza fra logica dimostrativa e logica argomentativa. ­
Il ragionamento dimostrativo vale indipendentemente dalle persone cui è rivolto; il ragionamento persuasivo invece (sia esso diretto come nell’arringa o nella requisitoria, o indiretto come nel caso delle audizioni dibattimentali) vale solo in riferimento a un uditorio determinato. Gli argomenti quindi, a differenza delle prove dimostrative, debbono tendenzialmente adattarsi al pubblico cui sono destinati. ­­­
I messaggi sono tanto più comprensibili, e quindi tan­to più dotati di forza persuasiva, quanto più l’ascoltatore è in grado di inserirli in un suo autonomo quadro di conoscenze ed informazioni. Perciò, tanto più effi­cace sarà l’azione persuasiva quanto più ci saranno no­te le caratteristiche del nostro uditorio, vale a dire la personalità dei giudici. Quanto più, quindi, saremo in grado di adattare il nostro messaggio alle sensibilità e alle stesse capacità di contestualizzazione e compren­sione di tale uditorio, tanto più riusciremo ad orientarne correttamente le decisioni (pp. 209-211).

Anche qui, i punti da sottolineare – in quanto generalizzabili alle modalità di produzione di conoscenza delle scienze sociali – mi sembrano due: il rapporto tra argomento persuasivo e suo uditorio e, di conseguenza, il carattere dialettico del processo di costruzione di questa conoscenza.

La definizione del concetto di processo come categoria generale viene abitualmente riferita alla funzione di soluzione dei conflitti. Tale definizione coglie in termini astratti la ragione del processo, il perché del suo esistere nell’ambito delle collettività organizzate. In questa definizione non si individua però alcun elemento descrittivo dei modi, dei percorsi attraverso i quali il processo passa dalla posizione del conflitto alla soluzione del conflitto medesimo. ­­­­­
Questi modi e percorsi consistono – in estrema sintesi – nelle attività conoscitive volte a porre i fondamenti di fatto delle decisioni. ­
Su questa premessa è possibile definire il processo in generale, e il processo penale in particolare, come una struttura dinamica funzionalmente orientata alla produzione di conoscenze utili per la soluzione di conflitti. ­
In sostanza quindi si può affermare che all’essenza stessa del processo, e in particolare del processo penale, è connaturale l’attitudine a produrre conoscenza, a produrre sapere.­
La produzione di conoscenze è la fase concettualmente prodromica, o se si vuole il mezzo, per la soluzione dei conflitti.
All’evidenza la definizione del processo in genere come apparato per la produzione di conoscenze ha un carattere meramente descrittivo e non pone problemi particolari. Questa definizione taglia però fuori il tema del grado di attendibilità delle conoscenze prodotte e, in ultima analisi, del grado di corrispondenza di tali conoscenze alla verità. Questo tema si innesta e si identifica nella questione dei diversi modelli processuali e delle loro diverse attitudini a produrre conoscenze attendibili, saperi affidabili. ­­­­
Non sembra dubbio comunque che le conoscenze, e in sostanza le verità, che produce il processo siano verità storiche e non scientifiche o formali.
Di nessuna verità storica, come peraltro di nessuna verità scientifica nella prospettiva del falsificazionismo popperiano, è formalmente impossibile predicare il contrario, dovendosi da ciò desumere che il concetto di verità processuale sia ricostruibile, indirettamente, con una sorta di determinazione quantitativa delle probabilità contrarie (pp. 219-220).

È con questo passaggio che emerge il punto per me più interessante di tutta l’argomentazione (appunto!) di Carofiglio: la conoscenza prodotta dall’argomentazione non si fonda su una verità assoluta, ma su una credibilità probabilisticamente fondata, e dunque di natura statistica. Conclusione doppiamente interessante: perché colloca la statistica (come scienza) al centro dei processi di produzione di conoscenza – quanto meno al centro di gran parte, della parte più rilevante di questi processi; e perché la conoscenza così costruita è per costruzione laica (cioè non discendente da verità assolute) e dialettica (è aperta, e anzi sollecita, l’esercizio di una critica volta a sovvertire le “verità” provvisoriamente raggiunte).

In definitiva, cioè, si può parlare di raggiungimento della verità nel processo solo laddove «le probabilità del contrario sono confinate in un’area così ristretta da essere convenzionalmente accettata». Il ragionamento giudiziario, che ha la forma di una inferenza induttiva e non di un processo deduttivo, passa da una verità di premesse ad una rilevante probabilità delle conclusioni, senza che sia impossibile affermare 1’impossibilità – ma solo una rilevante improbabilità – che la detta conclusione, definita come vera, sia falsa.­­­­
Accolta una simile nozione della verità processuale, sembra ormai culturalmente acquisito che il metodo più affidabile per produrla sia quello proposto dal paradigma dialettico su cui si basa il processo accusatorio. ­
La possibilità offerta dal metodo dialettico di formazione della prova, di sottoporre a tentativi di falsificazioni le verità del processo nel momento stesso in cui esse si formano, costituisce garanzia di resistenza di tali verità, elevando il grado di probabilità che la conclusione dell’induzione giudiziaria sia vera o (il che è lo stesso) riducendo il grado di probabilità che essa sia falsa. ­­
In tale concetto risiede il senso della differenza fra metodo inquisitorio e metodo accusatorio, senso che va colto nei diversi percorsi di formazione della prova, la quale è in un caso prodotta da una ricerca solitaria e segreta; nell’altro modellata dallo scontro di (proposte di) verità e tentativi di falsificazione. ­
A fronte dell’incedere per teoremi del giudice inquisitore, il metodo dialettico porta con sé una fondamentale istanza di conoscenza critica che trova il suo punto di massima espressione nel momento e nella funzione del controesame. ­
L’atto del domandare dubitando, che sintetizza l’essenza e la ragione del controesame, costituisce espressione di libertà dai vincoli di verità convenzionali e, soprattutto, dai pericoli di decisioni precostituite. Esso è dunque momento fondamentale, e quasi metafora, di una ricerca laica e tollerante della verità praticata attraverso i modi dell’argomentazione e della persuasione. ­­­­
Scriveva Norberto Bobbio: «La teoria dell’argo­mentazione rifiuta le antitesi troppo nette: mostra che tra la verità assoluta degli invasati e la non-verità de­gli scettici c’è posto per le verità da sottoporsi a con­tinua revisione mercé la tecnica di addurre ragioni pro e contro. Sa che quando gli uomini cessano di credere alle buone ragioni, comincia la violenza» (pp. 220-222).

Domandare dubitando è un motto che anche gli statistici dovrebbero scrivere sui loro templi, accanto a Numerus rei publicæ fundamentum.

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10 consigli per una lavata di capo

Ci sono colloqui di lavoro particolarmente difficili, quando si deve riprendere un proprio collaboratore per un errore o un’omissione o un comportamento comunque reprensibile. Non si vorrebbe farlo, ma si deve. 10 consigli per rendere la cosa meno penosa.

  1. Fatelo il prima possibile. Per me, che sono un temporeggiatore timido, la cosa più difficile. Ma queste cose, a lasciarle star lì, non fanno che peggiorare e rendere più difficile il colloquio.
  2. Fissate un appuntamento. A differenza di altre cose, questa non può essere fatta informalmente e a bruciapelo. Stabilite un giorno, un’ora e un luogo per il colloquio.
  3. In privato. Nel vostro ufficio o nel suo, ma sempre in privato e in ufficio. Nel vostro, se volete sottolineare che siete voi il capo. Nel suo, se volette mandare il messaggio che il peccato è veniale.
  4. Sedetevi entrambi. Fronteggiarsi in piedi aumenta il rischio di conflitto e induce  all’aggressività. Restate alla vostra scrivania se volete mantenere le distanze gerarchiche. Sedete a un tavolo riunioni se volete lanciare il messaggio che, in fondo, siete sulla stessa barca.
  5. Concentratevi sull’argomento, non sulla persona. State criticando un comportamento, non un modo di essere. Quindi, meglio sottolineare l’importanza della puntualità e i problemi causati dai ritardi che dare del ritardatario abituale al vostro collaboratore.
  6. Siate il più possibile circostanziati. State criticando un episodio, non un atteggiamento. Il riferimento concreto e preciso aiuta (“il giorno tale, alla tal ora, il ritardo di 30 minuti non ha permesso al collega x di partecipare alla riunione fino alla fine”).
  7. Siate collaborativi e propositivi. Date l’impressione di non essere l’uno contro l’altro, ma di star lavorando insieme per risolvere un problema organizzativo (quello dei ritardi, anche se il ritardatario è proprio lui!).
  8. Evitate le frasi espresse in termini negativi. No: “il progetto non può andare avanti se sei sempre in ritardo”. Sì: “la puntualità è essenziale per il conseguimento tempestivo degli obiettivi del progetto”.
  9. Incoraggiatelo. Siete consapevoli delle sue potenzialità, vi aspettate molto da lui, il risultato finale dipende molto dal suo lavoro. E ringraziatelo alla fine del colloquio.
  10. Documentate l’incontro. Argomenti trattati e decisioni prese. Può servire.

Consigli schifosi per un lavoro schifoso. Ma funzionano.

31 gennaio – Franz Schubert e Georges Pompidou

Due date:

  • 1797: nasce Franz Schubert.
  • 1977: si inaugura il Centro Georges Pompidou, progettato da Renzo Piano, Richard Rogers e Gianfranco Franchini. L’idea di fondo dell’originale progetto è quella di liberare lo spazio interno, per favorire la flessibilità delle installazioni e il movimento dei visitatori, spostando all’esterno dell’edificio tutti i servizi. Le infrastrutture sono all’esterno dell’edificio, in piena vista, e colorate con un codice che ne individua le funzioni: blu per l’aria (raffreddamento e riscaldamento), verde per i liquidi, giallo per i cavi elettrici, rosso per la movimentazione (scale mobili) e la sicurezza (estintori). L’edificio è progettato in due parti: l’infrastruttura (3 livelli) e la sovrastruttura (7 livelli in acciaio e vetro). La struttura portante in metallo ha 14 pilastri con 13 travi, con una luce di 48 metri e distanti 12,8 metri l’una dall’altra. A ogni livello, ai pilastri sono ancorati degli elementi di acciaio, le gerberette, lunghi 8 metri e pesanti 10 tonnellate l’uno. Le putrelle, lunghe 45 metri l’una, poggiano sulle gerberette, che trasmettono lo sforzo ai pilastri e sono equilibrate da tiranti a X. Ogni piano è alto 7 metri.