24 gennaio – Scout

Secondo l’enciclopedia Britannica Online, esattamente 100 anni fa Robert Baden-Powell istituì il primo gruppo di scout. Il movimento scoutistico però ha festeggiato il suo centenario lo scorso anno, commemorando il campo di Brownsea Island (31 luglio-9 agosto 1907). Il 1° agosto 2007, all’alba, gli scout di tutto uil mondo hanno rinnovato la promessa. In Italia l’evento principale è stato quello del Circo Massimo a Roma, dove erano presenti i principali esponenti dello scoutismo e del governo (Romano Prodi, Giovanna Melandri, Giuseppe Fioroni).

Strano tipo, questo Baden-Powell (che gli scout adorano come gli aderenti all’Opus dei adorano Escrivà de Balaguer). O, quanto meno, profilo psicologico interessante. Il padre (prete anglicano) era professore di geometria a Oxford e aveva già 4 figli da 2 precedenti matrimoni quando – a 50 anni – sposò Henrietta Grace Smyth (che di anni ne aveva 22): presto ebbero altri 4 figli (tra il 1847 e il 1850, uno all’anno) e, dopo una pausa durante la quale ebbero altri figli morti da piccoli, una nuova serie di 3 figli tra il 1857 e il 1860. Robert è il primo della terza serie. Nel 1860 il padre muore e il piccolo Robert viene allevato dall’energica madre. Più tardi frequenta la prestigiosa (e famigerata) public school di Charterhouse (meriterebbe un post a sé, ma ci basti qui dire che tra gli Old Carthusians ci sono Peter Gabriel e i primi Genesis) e, dicono gli apologeti, matura abilità scoutistiche facendo marachelle nei boschi. Ma suona anche il piano e il violino, recita, cattura e dipinge farfalle (con entrambe le mani).

Della vita sessuale di Baden-Powell, e in particolare se fosse omosessuale, non ce ne può fregare di meno. Ci interessa, invece, il suo ruolo come militare e come poliziotto nella guerra boera.

Nel 1876 abbraccia la carriera militare, come tenente. Prima in India, poi in Sudafrica, a Malta e di nuovo in Africa (Rhodesia, Sudafrica e Africa occidentale) e in India. Lo scoppio della guerra boera lo trova il più giovane colonnello dell’impero. L’assedio di Mafeking, quando resiste per 217 giorni a preponderanti forze boere, ma con costi di vite umane spaventosi (le razioni assegnate ai neri erano molto più contenute di quelle dei bianchi e almeno 2.000 morirono di fame), ne fa un eroe. È in quest’occasione che crea e utilizza con successo un corpo di cadetti.

Il suo incarico successivo è quello di comandante della polizia sudafricana. Non è una pagina limpida. Anche se pare che non fu Baden-Powell, ma Lord Kitchener, a organizzare i primi veri campi di concentramento della storia, il nostro era pur sempre il capo della polizia.

Secondo l’Oxford English Dictionary: a concentration camp is a camp where non-combatants of a district are accommodated, such as those instituted by Lord Kitchener during the South African war of 1899-1902. La distinzione importante è tra internare e imprigionare. Si imprigiona un individuo dopo un legale processo; si interna un gruppo sulla base di criteri di pericolosità (politica, etnica, sociale…). Formalmente, gli inglesi li dipinsero come una sorta d’aiuto umanitario alle famiglie le cui fattorie erano state distrutte dalla guerra; in realtà, era una componente della tattica della “terra bruciata” utilizzata per contrastare la guerriglia boera (la tattica prevedeva la distruzione delle fattorie e dei raccolti, l’avvelenamento dei pozzi, lo spargimento di sale sulla terra per renderla improduttiva e, naturalmente, la deportazione degli abitanti). Ne furono costituiti 34 (laager, in Afrikaaner). Non erano campi di sterminio, ma le razioni erano insufficienti, le condizioni igieniche spaventose, l’assistenza medica inesistente. Un rapporto britannico, a guerra finita, dà queste cifre: 27.927 boeri (di cui 22.074 bambini sotto i 16 anni) e 14.154 neri (altre fonti parlano di oltre 20.000) morti. Si tratta del 25% degli internati, uno su quattro. E pensare che i boeri morti in battaglia furono soltanto 3.000! Iniziava il secolo XX e la guerra moderna.

Qui sotto: Lizzie van Zyl, una bambina boera, sul suo letto di morte al laager di Bloemfontein.

Me sò magnato er fegato

Canzoni che piacciono soltanto a me.

Ovviamente (excusatio non petita) non è dedicata a mia moglie.

Che lo crediate o no la canzone (1975) è di Claudio Baglioni.

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Assassini e mandanti

Sì, lo so, lo avranno già detto in tanti, e tanti altri lo staranno scrivendo in questo momento.

1998: Romano Prodi viene ucciso una prima volta. La mano è quella di Fausto Bertinotti, ma la pistola carica gliel’ha data Massimo D’Alema.

2008: Romano Prodi viene ucciso la seconda volta. La mano è quella di Clemente Mastella, ma la pistola carica gliel’ha data Walter Veltroni.

Per fortuna, questa tradizione (tra le più impresentabili) della sinistra si è attenuata nel corso degli anni: sono “morti” politiche, non assassinii in senso proprio, come quello di Trotsky o quello di Rosa Luxemburg.

Sulle cupe prospettive che la caduta di Prodi apre per chi, ancora, si dice di sisnistra (what is left?), mi sembra interessante il punto di vista di Gabriele Polo su il Manifesto di oggi, 25 gennaio 2008.

Suicidio politico

Romano Prodi è caduto con la stessa ostinata sicurezza con cui aveva brindato in una triste festa notturna di piazza il 10 aprile di due anni fa. Fermo nel voler portare fino in fondo la propria sfida alle leggi della matematica e della politica. Si è presentato al senato sapendo che gli avrebbero sparato addosso e lui ha mostrato il petto lanciando ai suoi cecchini un avvertimento inascoltato: «Dopo di me il diluvio». Avversari vecchi e nuovi gli hanno concesso l’onore delle armi e della coerenza parlamentare. Poi hanno sparato.
Ma la sua ostinazione copre solo in piccola parte il lento ma inesorabile suicidio politico dell’Unione sfociato nella crisi di governo. A spiegarla non basta la debolezza numerica – frutto di una legge elettorale inguardabile – che in questi mesi ha trasformato il senato in una sorta di ring. Né l’eterogeneità della coalizione e nemmeno la vaghezza di un programma troppo generico e al tempo stesso corposo. Su queste radici sono cresciuti due problemi che hanno portato al collasso. In primo luogo il progressivo allontanamento dalle attese degli elettori – badando più agli equilibri interni e alle compatibilità di bilancio. Più che in parlamento Prodi è rimasto solo nel paese: coperto a sinistra dal sacrificio di chi veniva sempre indicato come il possibile «traditore», ha deluso le attese di quella parte dell’elettorato che più di ogni altra chiedeva una svolta dopo il quinquennio berlusconiano. Alla fine è caduto da destra, come era ampiamente prevedibile. In secondo luogo, a destabilizzare un quadro politico diventato la principale se non unica attenzione del premier, è arrivato il parto del Pd, determinando un dualismo di potere che non poteva durare. E così è stato proprio il «suo» partito a togliere il terreno sotto i piedi a Romano Prodi.
Tra le macerie che ora si cercherà di raccogliere in qualche modo per evitare le elezioni anticipate, emerge la sconfitta della sinistra che pagherà i costi più alti di una scommessa perduta: contrattare l’alternativa sociale sul tavolo di governo. Ma si profila anche il sordo rovello del Partito democratico, concepito per vivere al potere e oggi posto di fronte alla scelta tra un’opposizione che non sa più cosa voglia dire e cercare alla sua destra i partner di una futura alleanza. Un bel disastro: complimenti a tutti.

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