Romania e musica (1)

Brividi: forse non tutti sanno o ricordano che parte della magia di Picnic at Hanging Rock è da ascrivere al flauto di Pan di Gheorghe Zamfir (rumeno):

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Rumeni, rom e Grillo

Continua il dibattito sul post razzista di Beppe Grillo, ad esempio su www.murderbynumbers.it, un sito che ci piace pensare come apparentato al nostro.

Mi sembra interessante l’opinione di Giovanna Zincone pubblicata oggi da La Stampa:

I rom non ci invidiano
per questo non si integrano

I romeni ovviamente non sono tutti zingari rom e i rom notoriamente non sono tutti romeni. Comunque, la questione dei rom, in particolare se di provenienza romena, scatta spesso al centro del dibattito pubblico. I rom sono alternativamente descritti come parassiti e delinquenti o fragili emarginati. La realtà è più sfumata: ci presenta una minoranza con grossi problemi di integrazione sociale e culturale. I rom sono intrappolati in una cultura caratterizzata non solo da tratti «simpatici», come il rifiuto di lasciarsi stritolare dal lavoro e il gusto per una vita meno costretta nel tempo e nello spazio, ma anche da aspetti spinosi e inquietanti. È una cultura estranea, vista con diffidenza. Il deperimento di tradizionali fonti di sostentamento della popolazione zingara ha aumentato rischi e sospetti. In un’economia che non ripara e non ricicla, gli zingari non possono fare gli arrotini o aggiustare pentole. In un’epoca di grandi parchi giochi e domestici videogiochi, anche il mestiere di giostraio diventa sempre meno redditizio e più «inquinato» da attività parallele. La cultura di una vita «liberata dai vincoli del tempo di lavoro» cozza con il nostro modo di consumare e produrre. Il loro è un costume di vita sempre più difficile da praticare, costretto a trasformarsi.

Molti dei cosiddetti nomadi hanno accettato da tempo la costrizione dello spazio: sono diventati stanziali. I campi sono luoghi in cui si vive per lo più stabilmente. Non si tratta però di camping a 5 stelle. Quelli irregolari sono terribili: ho visto bambini con i piedi nudi nel fango in pieno inverno. Quelli ufficiali, dipende, possono anche produrre un effetto di gaiezza, ma anche lì sono frequenti e gravi le deficienze nei servizi. Molti rom e altre categorie di «pseudonomadi» sono stanziali e cittadini italiani: si stima che lo siano più della metà. Altri sono stranieri, che però vivono qui da generazioni, magari senza permesso di soggiorno. Gli stranieri sono aumentati. In particolare, subito dopo la caduta del regime di Ceausescu e ora con l’ingresso nell’Unione, sono aumentati i rom romeni. Erano persone abituate a vivere in abitazioni periferiche e svolgere lavori poco redditizi, ma sicuri. L’economia di mercato li ha messi in crisi e la loro accresciuta povertà ha attratto aggressioni razziste, di qui l’esodo. A seguito delle diverse ondate i rom di origine romena in Italia dovrebbero aggirarsi oggi intorno ai 50 mila, gli zingari in generale sarebbero circa 160 mila. Non si tratta di dati, ma di stime. Non esiste un’affidabile rilevazione sulla presenza delle minoranze zingare sul territorio nazionale. Non conosciamo l’entità e i caratteri specifici del fenomeno. Tuttavia l’allarme suscitato da nuovi cospicui flussi, seppure anch’essi di entità ignota, i brutti fatti di cronaca, la confusione tra rom e romeni, generano paura e reazioni istantanee.

Ma i problemi connessi alle minoranze zingare erano già sul tappeto da un pezzo. Bambini che non vanno a scuola, che ci vanno in modo discontinuo, che non imparano. Accattonaggio imposto a donne e minori, matrimoni precoci, tirannide dei maschi e degli anziani non sono eccezioni. La trappola d’una cultura che disprezza la routine lavorativa, unita alla perdita di occasioni di lavoro compatibili con questo disprezzo, ha favorito non solo l’accattonaggio, che sconfina talora nel borseggio, ma ha invogliato a intensificare pratiche più pesanti come il furto con scasso.

Il problema non si esaurisce qui. Il fastidio per i banali ritmi del lavoro, unito a un rispetto eccessivo per il lusso, ha condotto una certa componente di zingari a commettere crimini più gravi: traffico di armi e di droga, sfruttamento della prostituzione, aggressione e sequestro di persona. Né i comportamenti diffusi di fastidioso accattonaggio e microcriminalità, né quelli più circoscritti di grave crimine riguardano tutti i rom. E però hanno generato un notevole allarme sociale e dato luogo a un circolo vizioso. È difficile per un rom che voglia cambiare strada, magari lasciando il campo, farlo. Perché è difficile trovare un lavoro e un alloggio. Datori di lavoro e proprietari di casa sono sospettosi. Ma c’è di peggio. Chi vuole lasciare il campo o mandare i figli a scuola, a volte, è minacciato dai boss. Si sono tentate varie strade per contrastare questa situazione: separare i mansueti dai criminali, espellendo o reprimendo questi ultimi. Tuttavia, l’espulsione dei cittadini italiani rom è impossibile e, per quella dei comunitari – come ha osservato il ministro Amato – occorrono modifiche normative. Ai più disponibili sono stati offerti «patti di cittadinanza»: se mandi i bambini a scuola avrai un posto nel nuovo campo che ha dimensioni ridotte ed è ben tenuto. Sono state sperimentate offerte d’istruzione meno costrittive. Sono state offerte alternative di reddito legali: spazi nei mercati e permessi per la vendita di abiti usati e altro materiale di recupero, che gli zingari tradizionalmente raccolgono. Insomma molte soluzioni sono state tentate anche prima dei nuovi arrivi, perché il problema c’era già ed era già grosso. Alcune hanno persino funzionato.

I nuovi arrivi non aprono un problema, complicano un quadro già difficile. Al centro di quel quadro sta un nodo antico e molto duro da sciogliere. Per questa minoranza, ben di più che per la minoranza islamica, il problema non è solo l’integrazione sociale è anche e soprattutto l’integrazione culturale. Il nostro mondo a loro non piace. Dovremmo convincerli che, a comportarsi come noi, non si vive poi troppo male. Non è compito facile. Qualche volta non è facile convincere neanche noi stessi. I secchioni a mille euro al mese, la sparuta squadra di professionisti e top manager esuberanti di soldi e a secco di tempo non suscitano invidia.

9 ottobre 1997 – Dario Fo

Dieci anni fa, Dario Fo vinse il premio Nobel per la letteratura. Per me, che l’avevo visto bambino in televisione e poi seguito, dai primi anni 70, prima nel garage vicino a corso Lodi (se ricordo bene) e poi alla Palazzina Liberty occupata, fu una notizia bellissima.

Avrei voluto mettere il brano bellissimo di Bonifacio VIII (...tento tè!), ma da Mistero buffo ho trovato soltanto questo (che però non è niente male):

Questo è invece un raro Carosello, con un Fo molto più giovane (per il riferimento allo Sputnik II e alla cagnetta Laika, lo daterei al 1957-58):

I miti ebraici

Graves, Robert e Raphael Patai (1963), I miti ebraici. Milano: TEA. 1998.

È un libro affascinante, che volevo leggere da molto tempo, dopo avere letto I miti greci e soprattutto l’affascinante La dea bianca.

Molte cose sono meravigliose anche per chi conosce la Bibbia, perché Graves cita anche molte fonti tradizionali alternative. I risultati sono a volte esilaranti, a volte inquietanti, a volte commoventi.

Esilarante:

Avendo deciso di dare ad Adamo una compagna, perché non si sentisse solo del suo genere nel mondo, Dio lo fece cadere in un profondo sonno, rimosse una delle sue costole, formò con questa una donna e richiuse la ferita. Adamo si destò e disse: “Costei sarà chiamata donna perché è stata tratta da un uomo [logica inoppugnabile – nota mia]. Un uomo e una donna saranno la stessa carne”. Le impose il nome Eva, “la madre di tutti i viventi” [fin qui la storia che tutti conosciamo].
Alcuni dicono che nel sesto giorno Dio creò uomo e donna a sua somiglianza, dando loro l’incarico di vegliare sul mondo, ma dicono altri che Eva non esisteva ancora. Dio aveva detto ad Adamo di dare un nome a ogni animale, uccello ed essere vivente. Quando costoro gli passarono davanti in coppie, maschio e femmina, Adamo, che era già un uomo di vent’anni, si sentì invidioso del loro amore e, benché cercasse di accoppiarsi a turno con ogni femmina, non ne ebbe alcuna soddisfazione. Quindi esclamò: “Ogni creatura ha la sua compagna, ma io non l’ho”, e pregò Dio di rimediare a quell’ingiustizia.
Dio allora formò Lilith, la prima donna, così come aveva formato Adamo, ma usando soltanto sedimenti e sudiciume invece di polvere pura. Dall’unione di Adamo con questa demone, e con un’altra chiamata Naamah […] nacquero Asmodeo e innumerevoli demoni che ancora piagano l’umanità. […]
Adamo e Lilith non ebbero mai pace insieme, perché quando egli voleva giacere con lei, la donna si offendeva per la posizione impostale [quella “del missionario” – nota mia]: “Perché mai devo stendermi sotto di te?”, chiese. “Anch’io sono stata fatta di polvere e quindi sono tua eguale”. Poiché Adamo voleva ottenere la sua ubbidienza con la forza, Lilith irata mormorò il sacro nome di Dio, si librò nell’aria e lo abbandonò.
Adamo si lamentò con Dio: “La mia compagna mi ha abbandonato”. Dio mandò subito gli angeli Senoy, Sansenoy e Semangelof a rintracciare Lilith. La trovarono vicino al mar Rosso, una regione dove abbondavano lascivi demoni, con i quali essa concepiva lilim [demonietti] in misura di più di 100 al giorno. “Ritiorna da Adamo immediatamente”, dissero gli angeli, “altrimenti ti annegheremo”. Lilith chiese: “Come posso ritornare da Adamo e vivere come una moglie onesta dopo questo mio soggiorno presso il mar Rosso?” [Per questo italiani e italiane vanno tuttora a Sharm-el-Sheik]. […]
Scontento della fallita speranza di dare ad Adamo una degna compagna, Dio provò un’altra volta, e gli permise di osservarlo mentre creava l’anatomia di una donna: mise insieme ossa, tessuti, muscoli, sangue e secrezioni ghiandolari, poi coperse il tutto con la pelle, ponendo ciuffi di peli nei posti prescelti. Tale vista causò un tale disgusto in Adamo che, quando la prima Eva gli stette dinanzi in tutto il suo splendore, egli provò un’invincibile ripugnanza. Dio si accorse di avere sbagliato un’altra volta e si riportò via la prima Eva. Dove la portasse nessuno lo seppe mai. […]
Altri ancora dicono che Dio aveva originariamente creato due esseri umani (maschio e femmina), ma poi a uno di essi diede un viso d’uomo, volto in avanti, e all’altro un viso di donna, volto all’indietro. Cambiò ancora idea, e fece sì che lo sguardo di Adamo si volgesse all’indietro e ne creò un corpo femminile.
Voci discordi sostengono che Adamo era stato originariamente creato come un androgino, corpo maschile e corpo femminile uniti sul dorso. Siccome tale posizione rendeva loro difficile il camminare, e impossibile la conversazione, Dio divise il corpo androgino dando a ogni metà il proprio dorso. Poi li pose nell’Eden e impedì loro di accoppiarsi (pp. 78-81).

Con buona pace della teoria dell’intelligent design. Ci dev’essere un’intera galassia popolata degli errori di dio.

Commovente:

[Dopo che Eva ebbe mangiato il frutto proibito] Adamo si meravigliava della nudità di Eva, perché la sua pelle radiosa, la sua prima pelle, era caduta da lei come una seta luminosa e liscia come la patina delle unghie. Benché fosse affascinato dalla bellezza del corpo svelato, lucente come una bianca perla, egli combatté tre ore contro la tentazione di mangiare il frutto e diventare come lei; tuttavia teneva quel frutto stretto nella mano. Alla fine egli disse: “Eva, vorrei morire piuttosto che vivere senza di te! Se la morte dovesse chiamare il tuo spirito, Dio non riuscirebbe mai a consolarmi con un’altra donna, bella come sei tu”. Così dicendo, morse il frutto (p. 94).

Peter Gabriel & Sinead O’Connor – Blood of Eden

Capolavori che (spero) piacciano a molti.

Se non mi ricordo male in Bis ans Ende der Welt (fino alla fine del mondo) di Wim Wenders, la canzone accompagna il volo del piccolo aereo sul deserto australiano, quando tutte le comunicazioni del mondo si interrompono. Un momento magico, denso d’emozione.

I caught sight of my reflection
I caught it in the window
I saw the darkness in my heart
I saw the signs of my undoing
They had been there from the start
And the darkness still has work to do
The knotted chord’s untying
They’re heated and they’re holy
Oh they’re sitting there on high
So secure with everything they’re buying

In the blood of Eden
Lie the woman and the man
With the man in the woman
And the woman in the man
In the blood of Eden
Lie the woman and the man
We wanted the union
Oh the union of the woman
The woman and the man

My grip is surely slipping
I think I’ve lost my hold
Yes, I think I’ve lost my hold
I cannot get insurance anymore
They don’t take credit, only gold
Is that a dagger or a crucifix I see
You hold so tightly in your hand
And all the while the distance grows between you and me
I do not understand

At my request, you take me in
In that tenderness, I am floating away
No certainty, nothing to rely on
Holding still for a moment
What a moment this is
Oh for a moment of forgetting, a moment of bliss
Heyyyyyyyyyyyyyyyyy

I can hear the distant thunder
Of a million unheard souls
Of a million unheard souls
Watch each one reach for creature comfort
For the filling of their holes

In the blood of Eden
Lie the woman and the man
With the man in the woman
And the woman in the man
In the blood of Eden
We wanted the union
Of the woman and the man

In the blood of Eden
Lie the woman and the man
I feel the man in the woman
And the woman in the man

In the blood of Eden
Lie the woman and the man
I feel the man in the woman
And the woman in the man

In the blood of Eden
We’ve done everything we can
In the blood of Eden
Saw the end as we began
With the man in the woman
And the woman in the man
It was all for the union
Oh, the union of the woman, the woman and the man

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Daniel Lanois – The Messenger

Canzoni che piacciono (quasi) solo a me.

Got a letter from a messenger
I read it when it came
It said that you were wounded,
you were bound and chained

You had loved and you were handled
You were poisoned, you were pained
oh no, oh no –
you were naked, you were shamed

You could almost touch heaven
right there in front of you
liberty just slipped away on us
now there’s so much work to do

Oh the door that closes tightly
is the door that can swing wide
oh no, oh no –
Not expecting to collide

For a minute I let my guard down
not afraid to be found out
Completely forgotten
what our fears were all about

oh no, oh no –
There’s no need to be without

There’s a chance and I will take it
this desire I can’t kill
Take my heart, please don’t break it
I will crawl to your foothill

I’m frightened but I’m coming,
please baby, please lay still
oh no, oh no –
Not coming for the kill
oh no, oh no –
Not coming for the kill
oh no, oh no –
Not coming for the kill

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L’uomo dei cerchi azzurri

Vargas, Fred (1996). L’uomo dei cerchi azzurri (L’Homme aux cercles bleus). Torino: Einaudi. 2007.

Che dire? Finalmente Einaudi si è deciso a pubblicare i “vecchi” romanzi della Vargas. Qui abbiamo la prima comparsa di Adamsberg (mi risulta che in realtà il romanzo è stato scritto nel 1990).

Mi aspettavo una Vargas meno matura, dei personaggi meno definiti. Non è così: il romanzo non delude le aspettative di noi fedeli lettori della Vargas, il meccanismo narrativo e la trama “gialla” sono riusciti.

La bella traduzione è della mia adorata Yasmina Melaouah.

In più, c’è un’inaspettata dichiarazione di poetica:

Scrivere cosa? E perché poi, scrivere? Per raccontare la vita, rispose a se stessa. Cazzate! […] Perché scrivere? Per sedurre? È così? Per sedurre gli sconosciuti, come se i conosciuti non ti bastassero? Per illudersi di raccogliere la quintessenza del mondo in poche pagine? Ma quale quintessenza, poi? Quale emozione del mondo? Che dire? […] Scrivere significa fallire (p. 215).

Le solite piccole perle:

Ma Adamsberg aveva l’impressione di non avere alcun rapporto con la propria immagine pubblica, quindi era come sdoppiato. Poiché tuttavia già dall’infanzia si era spesso sentito diviso in due, da una parte Jean-Baptiste e dall’altra Adamsberg, che stava a guardare Jean-Baptiste e lo seguiva passo passo ridacchiando, adesso risultavano essere in tre: Jean-Baptiste, Adamsberg e l’uomo pubblico, Jean-Baptiste Adamsberg. Stenta e dilaniata Trinità (p. 29).

Per questa settimana abbiamo chiuso con la compassione, la consolazione paziente, i lucidi incoraggiamenti e gli svariati ideali umanitari. Si nasce e si crepa e nel mezzo ci si ammazza di fatica per perdere tempo fingendo di guadagnarlo, e questo è tutto quello che ho voglia di dire sugli uomini. Lunedì prossimo li troverò fantastici con tutti i loro minimi indugi e la loro traiettoria millenaria, ma per oggi è impensabile. Per oggi solo cinismo, caos, futilità e piaceri immediati (p. 55).

Infine, questo toccante monologo interiore di Jean-Baptiste:

Morta morta morta. Camille morta. Certo morta. E finché l’aveva immaginata viva, anche se lo tradiva quanto lui aveva tradito lei, anche se lo evitava in tutti i suoi pensieri, anche se accarezzava le spalle del groom nel suo letto d’albergo al Cairo dopo che lui era venuto a cacciar via gli scarafaggi, anche se fotografava tutte le nuvole del Canada – perché Camille faceva collezione di nuvole dal profilo umano, tutto sommato piuttosto difficili da trovare – e anche se aveva dimenticato persino la sua facci, e persino il suo nome, anche con tutto questo, se Camille si muoveva da qualche parte sulla terra, allora andava tutto bene. Ma se Camille era morta chissà dove nel mondo, allora la vita si strozzava. Non valeva più tanto la pena agitarsi la mattina e correre tutto il giorno, se Camille era morta, l’improbabile discendente di un dio greco e di una prostituta egizia, come lui vedeva le sue origini. Non valeva neanche più tanto la pena stressarsi a cercare degli assassini, sapere quanto zucchero vuoi nel caffè, andare a letto con Christiane, guardare tutte le pietre di tutte le vie, se Camille non faceva più dilatare la vita intorno a sé, con le sue cose del serio e del futile, una sulla fronte, l’altra sulle labbra, che si allacciavano insieme in un otto che disegnava l’infinito (p. 69).

Quasi una poesia di Montale. È profondamente vero: la persona amata fa dilatare la vita intorno a sé, sul viso della persona amata si disegna l’infinito.

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Ernesto Che Guevara e Beppe Grillo

Devo confessare un’atrocità che ho commesso e che mi porto dentro da 40 anni.

il 9 ottobre 1967 cadeva in un’imboscata in Bolivia Ernesto ‘Che’ Guevara. Non ho bisogno di spiegare chi è. Se volete andate a leggere su Wikipedia. Non voglio nemmeno pubblicare la celebre foto di Korda ma quella, ben più cruda e vera, del Che ucciso: quasi un Cristo morto del Mantegna.

La mia atrocità. Milano fu presto coperta di manifesti che gridavano: Il Che è vivo! Il mio amico del cuore Andrea (non il suo vero nome) aggiunse a penna: I funerali si terranno alle ore 10. Non mi ribellai, non lo mandai affanculo, non gli misi le mani addosso, non lo invitai a ragionare, non ruppi l’amicizia. Mi misi a ridere. Mi sembrò una cosa divertente, spregiudicata e coraggiosa. Era un’atrocità. Me ne vergogno da 40 anni.

E non l’avevo mai rivelato a nessuno, o quasi.

Senza pretesa di redimermi, ma almeno con la consapevolezza della parte da cui non stare, se non di quella da cui stare, rendo omaggio ai rumeni e ai rom in Italia, dileggiati in Italia da Beppe Grillo (il nuovo beniamino dei mass media e degli opinionisti un tanto al pezzo) con toni degni dei nazisti (che, infatti, di rom ne hanno sterminati tra 400.000 e 800.000).

“…y sobre todo, sean siempre capaces de sentir en lo más hondo cualquier injusticia cometida contra cualquiera en cualquier parte del mundo. Es la cualidad más linda de un revolucionario” (Ernesto Che Guevara).

È la stampa, bellezza (2)

Ne hanno parlato stamattina quotidiani, giornali radio e telegiornali: gli infortuni sul lavoro sono in calo.

Boris è andato alla fonte e vi riporta il comunicato-stampa dell’Inail (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro):

Roma, 4 ottobre 2007. Si è svolto questa mattina presso la Residenza di Ripetta a Roma, il seminario organizzato da Legacoop “Il lavoro in edilizia: sicurezza ed opportunità” che ha appunto toccato il tema della sicurezza sul lavoro nel settore delle costruzioni. […]

“Secondo le stime provvisorie dei primi otto mesi di quest’anno – ha dichiarato il direttore generale dell’INAIL, Piero Giorgini – si sta registrando una decelerazione degli incidenti mortali, dovuta in particolare alla riduzione dei casi mortali nelle costruzioni: 150, rispetto ai 222 dello stesso periodo del 2006”.

Nei primi otto mesi del 2007 sembrano diminuire anche le morti sul lavoro in agricoltura (da 82 del 2006 a 58 del 2007) e nel settore dell’industria e servizi dove si è passati dai 778 casi dello scorso anno a 692. “Le stime finali per il 2007 – ha concluso Giorgini – si attestano su una riduzione complessiva di circa un punto-un punto e mezzo”.

“L’INAIL, seppur su dati provvisori, segnala una calo di morti sul lavoro nei primi mesi del 2007. È una notizia bellissima”, ha dichiarato il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, Cesare Damiano. “Ogni morto in meno è una vita umana salvata e questo è frutto di un impegno corale: risultato dell’autorevole monito del presidente della Repubblica, della forte azione di contrasto del lavoro nero e del Pacchetto sicurezza varato lo scorso anno, delle prime applicazioni della legge delega che ha avuto il conforto dell’opposizione, ma anche del ruolo giocato dalle parti sociali – sindacati e imprenditori del settore in primo luogo”.

Una notizia bellissima, senza dubbio. Me ne rallegro profondamente, anche se – come ho già avuto occasione di scrivere – vorrei che di morti (e di feriti) per infortunio sul lavoro non ce ne fosse neppure uno.

E però c’è qualcosa che non torna. A fine aprile i giornali avevano dato l’allarme e scrivevano che “le morti bianche sono ormai una vera e propria emergenza nazionale”. Boris aveva fatto 4 conti ed espresso qualche dubbio, sostenendo che i dati disponibili suggerivano anzi una certa diminuzione nell’anno in corso. Sono contento – va da sé – di aver avuto ragione e, se permettete, di aver avuto ragione due volte: una, perché le morti sul lavoro sono effettivamente diminuite; l’altra, perché le considerazioni che facevo sulla ricerca di sensazionalismo degli organi d’informazione mi sembrano tutte confermate.

I giornali di oggi non ricordano quello che avevano scritto meno di 6 mesi fa, quando parlavano di emergenza e avevano indotto a intervenire persino il Quirinale. Si guardano bene dal chiederci scusa per averci allarmato senza una solida documentazione, ma non per cattiveria o per sfrontatezza. I media non hanno memoria. I media vivono sul quotidiano. I media contano sul fatto che non abbiamo memoria neppure noi lettori.

Il ministro Cesare Damiano, persona fino a prova contraria rispettabilissima, cade come un farlocco nella medesima fallacia che qualche mese fa faceva gridare alla strage: una piccola fluttuazione (in quell’occasione era il concentrarsi in pochi giorni di alcuni casi particolarmente atroci, in questa un dato provvisorio che fa prevedere una diminuzione dei morti sul lavoro) induce a individuare un cambiamento di tendenza, l’inizio di una nuova era. Magari fosse così! Magari potessi condividere l’entusiasmo del ministro. In realtà, è impossibile escludere che una variazione così piccola non sia l’effetto del caso e non è corretto estrapolare una tendenza da una serie così breve. Nella migliore delle ipotesi, la proiezione in ragione d’anno dei morti sul lavoro nel 2007 ci riporterà sui livelli del 2005, dopo la lieve crescita del 2006. C’è ancora molto da fare.

4 ottobre 1957 – Sputnik

Il primo satellite artificiale, una sfera d’alluminio piena di azoto, 58 cm di diametro e quasi 84 kg di peso. Rimase in un’orbita ellittica a 250 km d’altezza per circa 3 mesi, effettuando un’orbita ogni 96 minuti.

Per radio trasmisero il suo leggendario bip-bip, un suono veramente da film di fantascienza.

A me, che ero davvero molto piccolo, sembrò una cosa straordinaria ma al tempo stesso assolutamente naturale: avevo la fortuna di vivere nell’era della scienza, fiducia che – nonostante i numerosi colpi – non ho mai realmente perso.