Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin), 1987, di Wim Wenders, con Bruno Ganz.
Le opinioni su questo film sono molto discordi: alcuni amici mi dicono che è il loro film preferito in assoluto, o tra i preferiti. Mereghetti lo stronca. A me sembra molto bello – anche se con qualche debolezza – e cercherò di spiegare perché.
Un film ambizioso, si è detto e scritto. Sottintendendo, forse, un film pretenzioso. “La loro (di Wenders e Handke) favola metafisica rischia francamente di annoiare”, scrive Mereghetti. E ancora: “Il tentativo di riflettere sul destino dell’umanità […] svela tutta la debolezza ‘filosofica’ di Wenders”. Non sono d’accordo. Il film ha qualche lungaggine. Forse, vuole mettere troppa carne al fuoco (Omero che vorrebbe scrivere un’epopea di pace, la Berlino distrutta dalla guerra e ferita dal muro che cerca tra le macerie una sua identità, la Germania frantumata in tanti staterelli individuali quanti sono i suoi individui: ognuno di questi temi meriterebbe forse un film a sé). Ma il nodo della storia, il desiderio degli angeli di farsi umani, rinunciando all’immortalità, è – secondo me – un tema vero, profondo, tutt’altro che metafisico, che ci tocca molto da vicino. E il modo in cui è trattato cinematograficamente è perfetto, fa venir voglia di alzarsi in piedi e battere le mani: il monocromo del punto di vista degli angeli, che ci fa toccare con mano la loro “inadeguatezza”, la loro insufficiente umanità; la biblioteca di Stato in cui gli angeli si incontrano o forse vivono (gli angeli raccolgono e conservano la memoria umana e quindi dove stare se non in una biblioteca?); le visioni dall’alto.
Per provare a spiegare perché penso che questo tema sia tutt’altro che astratto devo partire da una considerazione personale. Chi, come me, è diventato ateo per scelta, per decisione personale, a partire da un’educazione profondamente ed estesamente religiosa, si è dovuto confrontare con un problema che io chiamo il problema di Dostoevski (“se non esiste dio, allora tutto è permesso”): è facile fondare un’etica su regole o comandamenti che qualcuno (meglio se è un essere sovrannaturale) ti impone, pena un’eternità di pena. Molto più difficile è fondare un’etica puramente umana. Per farlo – trascuro tante altre implicazioni che ci porterebbero lontani – è necessario prendere come punto di partenza la nostra inadeguatezza, farsi carico delle nostre imperfezioni, dei nostri compromessi. Sapere dall’inizio che sbaglieremo, che faremo soffrire persone che non volevamo ferire, che dovremo scegliere tra due mali (o tra due beni). Insomma, essere pronti a sporcarsi le mani, essere consapevoli del fatto che vivere, amare, entrare in contatto con gli altri esseri umani implica di mettersi in gioco, di lasciarsi “contaminare” dagli altri. L’alternativa – quella che ci propongono gli angeli di Wenders e che ho incontrato, molti anni fa, in una giovane donna – è quella di non lasciarsi mai “toccare” dagli altri, allontanarsi da loro ogni volta che ti chiedono di metterti in gioco (anche soltanto con un gesto e con una parola): forse salverai l’anima (forse! e che anima è, comunque?), ma al prezzo di quale sterilità? “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”, cantano i poeti.
Gli angeli vivono questa pena: condannati a non vedere se non dall’alto, a preservare le memorie senza viverle, a sfiorare senza essere percepiti. Se lo dicono chiaramente seduti in una cabriolet nel salone della BMW (la traduzione è la mia, dal testo riportato da IMDB):
Damiel (Bruno Ganz): È bello vivere di spirito, testimoniare per l’eternità soltanto quello che c’è di spirituale nella mente degli uomini. Ma a volte sono stanco della mia esistenza spirituale. Invece di aleggiare sempre lassù vorrei sentire un peso crescere in me per porre fine all’infinito e legarmi alla terra. Vorrei essere capace, a ogni passo, a ogni soffio di vento, di dire “ora”, “adesso”, e non più “per sempre” e “per l’eternità”. Sedermi a un tavolino ed essere salutato, anche solo con un cenno. Ogni volta che abbiamo preso parte alle cose umane, era per finta. La lotta con un uomo, l’anca lussata: per finta. Prendere un pesce: per finta. Sedersi a tavola, mangiare e bere: per finta. Agnello arrostito e vino, là nelle tende nel deserto: soltanto per finta. No, non chiedo di piantare un albero o di concepire un figlio, mi basterebbe tornare la sera dopo una lunga giornata e dar da mangiare al gatto, come Philip Marlowe. Avere la febbre. Le dita annerite dal giornale. Commuovermi non soltanto con la mente, ma per la linea di una nuca, per un orecchio. Mentire! Sfacciatamente! Sentire le ossa che si muovono con te mentre cammini. Tirare a indovinare, invece di sapere sempre tutto. Poter dire “aah”, “oh”, “ehi”, invece di “sì” e “amen”.
Cassiel (Otto Sander): essere capace, per una volta, di entusiasmarsi per il male. Tirare fuori dai passanti tutti i demoni della terra e scacciarli nel mondo. Essere selvaggi.
Damiel: O almeno sapere che cosa si prova a togliersi le scarpe sotto il tavolo e sgranchirsi le dita dei piedi.
Cassiel: Stare soli! Lasciare che le cose succedano! Restare soli! Possiamo essere selvaggi soltanto se restiamo soli! Guardare e non toccare! Raccogliere, testimoniare, preservare! restare puro spirito! Tenere le distanze! Mantenere la parola!
Ancora 2 cose.
C’è un bel sito sul web dove sono raccolti articoli e monografie sul film.
La poesia di Peter Handke che ricorre nel film:
Lied Vom Kindsein
– Peter Handke
Als das Kind Kind war,
ging es mit hängenden Armen,
wollte der Bach sei ein Fluß,
der Fluß sei ein Strom,
und diese Pfütze das Meer.
Als das Kind Kind war,
wußte es nicht, daß es Kind war,
alles war ihm beseelt,
und alle Seelen waren eins.
Als das Kind Kind war,
hatte es von nichts eine Meinung,
hatte keine Gewohnheit,
saß oft im Schneidersitz,
lief aus dem Stand,
hatte einen Wirbel im Haar
und machte kein Gesicht beim fotografieren.
Als das Kind Kind war,
war es die Zeit der folgenden Fragen:
Warum bin ich ich und warum nicht du?
Warum bin ich hier und warum nicht dort?
Wann begann die Zeit und wo endet der Raum?
Ist das Leben unter der Sonne nicht bloß ein Traum?
Ist was ich sehe und höre und rieche
nicht bloß der Schein einer Welt vor der Welt?
Gibt es tatsächlich das Böse und Leute,
die wirklich die Bösen sind?
Wie kann es sein, daß ich, der ich bin,
bevor ich wurde, nicht war,
und daß einmal ich, der ich bin,
nicht mehr der ich bin, sein werde?
Als das Kind Kind war,
würgte es am Spinat, an den Erbsen, am Milchreis,
und am gedünsteten Blumenkohl.
und ißt jetzt das alles und nicht nur zur Not.
Als das Kind Kind war,
erwachte es einmal in einem fremden Bett
und jetzt immer wieder,
erschienen ihm viele Menschen schön
und jetzt nur noch im Glücksfall,
stellte es sich klar ein Paradies vor
und kann es jetzt höchstens ahnen,
konnte es sich Nichts nicht denken
und schaudert heute davor.
Als das Kind Kind war,
spielte es mit Begeisterung
und jetzt, so ganz bei der Sache wie damals, nur noch,
wenn diese Sache seine Arbeit ist.
Als das Kind Kind war,
genügten ihm als Nahrung Apfel, Brot,
und so ist es immer noch.
Als das Kind Kind war,
fielen ihm die Beeren wie nur Beeren in die Hand
und jetzt immer noch,
machten ihm die frischen Walnüsse eine rauhe Zunge
und jetzt immer noch,
hatte es auf jedem Berg
die Sehnsucht nach dem immer höheren Berg,
und in jeden Stadt
die Sehnsucht nach der noch größeren Stadt,
und das ist immer noch so,
griff im Wipfel eines Baums nach dem Kirschen in einemHochgefühl
wie auch heute noch,
eine Scheu vor jedem Fremden
und hat sie immer noch,
wartete es auf den ersten Schnee,
und wartet so immer noch.
Als das Kind Kind war,
warf es einen Stock als Lanze gegen den Baum,
und sie zittert da heute noch.