La vita di Filiberto Guala – qualunque sia l’opinione si abbia delle sue idee e delle sue azioni – fu al tempo stesso straordinaria e fortemente rappresentativa della classe dirigente italiana del dopoguerra.
Nato a Torino esattamente 100 anni fa, frequentò il celebre Liceo Massimo D’Azeglio (quello del laico professor Monti, e di Pavese Pajetta Einaudi Ginzburg Mila e di tanti intellettuali antifascisti) ma fu cattolico militante, fino all’intenzione di farsi sacerdote. Si racconta di lui che quando manifestò questa volontà al suo direttore spirituale, Giovan Battista Montini, questi lo abbia dissuaso dicendogli: “Lei deve essere un buon ingegnere e non un prete. La Chiesa ha bisogno di laici che abbiano delle posizioni determinanti nella struttura del Paese”.
Laureatosi in ingegneria al Politecnico di Torino nel 1929 (a meno di 22 anni), lavorò dapprima nell’industria metalmeccanica (alla RIV, quella dei cuscinetti a sfera) e poi alla direzione dei lavori della funivia carbonifera del porto di Savona. Nel 1936 (a meno di 30 anni) il primo incarico di amministratore, alla Società Acque Potabili di Torino, che manterrà fino al 1941.
Nel dopoguerra si avvicina alla politica, dove opera nell’area culturale di Dossetti, Lazzati, La Pira e Fanfani. Nel 1949 Fanfani lo chiama come direttore tecnico del piano Ina-Casa per la costruzione di abitazioni destinate ai lavoratori. L’operato di Guala in quegli anni ci offre uno spaccato interessante dei problemi che l’Italia affrontava nel dopoguerra.
Al di là delle distruzioni belliche, l’Italia era fortemente arretrata anche per effetto delle scelte economiche e culturali del ventennio fascista. I problemi che si posero alla giovane classe dirigente che si trovò a governare e, soprattutto, ad amministrare il Paese non furono dissimili da quelli che – negli stessi anni – si posero ai Paesi asiatici e africani alle prese con i processi di decolonizzazione: per quanto riguarda le strutture amministrative intermedie e le competenze tecniche e tecnologiche, il ricorso alle persone che avevano rivestito questi ruoli prima della guerra non aveva reali alternative (a parte una, parziale, de-fascistizzazione delle strutture burocratiche): non è un caso che gran parte degli architetti che operarono nel piano Ina-Casa fossero già stati attivi prima della guerra (valga per tutti il ruolo assegnato ad Adalberto Libera). Diversamente si operò per i grand commis: Guala, ad esempio, era sostanzialmente un outsider, e accettò il suo ruolo per spirito di servizio, mosso dalla spinta ideale cristiana e solidaristica che ne costituiva il background culturale.
Nel 1954 Scelba gli propone di assumere il ruolo di Amministratore delegato della Rai. Racconta lo stesso Guala: “Ad un certo momento, mi chiesero di assumere la direzione della Rai, un’impresa nuova e ardua, dove non sapevano chi mettere. Decisero di chiedere a me. L’onorevole Scelba mi chiamò, mi parlò un poco e io gli dissi: Guardi, lei lo sa, io penso di non essere preparato per fare questo… Ed egli replicò: Non c’è nessun altro di area cattolica che possiamo mettere! A queste parole, io mi sono rivisto, lì davanti, Don Orione e le sue parole. E gli ho detto sì”. Don Orione, infatti, aveva detto a Guala, molti anni prima: “Io ti chiedo un impegno: quando ti diranno che devi fare una cosa molto difficile, e tutti dicono di non farcela, e ti dicono che non c’è nessun altro che la possa fare, in coscienza tu la devi fare“.
Non furono anni facili. Guala aveva un’idea educativa e culturale della nascente televisione. Assunse per concorso 150 giovani laureati (tra cui Umberto Eco, Furio Colombo, Gianni Vattimo, Piero Angela, Andrea Camilleri e Angelo Guglielmi), i “corsari” della nuova Rai. La storia della televisione andava invece verso l’intrattenimento. Nel 1956 fu costretto alle dimissioni.
Nel 1960 Guala seguì finalmente la sua vocazione originaria: si fece frate trappista, fu ordinato sacerdote e fino alla sua morte (il 24 dicembre 2000) non negò a nessuno, credente o ateo, una parola di serenità o un consiglio.