Barbacetto, Gianni, Peter Gomez e Marco Travaglio (2007). Mani sporche. Milano: Chiarelettere. 2007.

Un utile (ancorché prolisso) riassunto delle puntate precedenti. Soprattutto adesso che stiamo scrivendo l’ultima in presa diretta.
La cosa più interessante l’ho trovata a pagina 385:
Nel 1993, sull’onda dello scandalo di Tangentopoli, gli italiani chiamati al referendum aboliscono il finanziamento pubblico dei partiti con una maggioranza del 90,3 per cento. L’allora premier Giuliano Amato ne prende atto con realismo: «Cerchiamo di essere consapevoli: l’abolizione del finanziamento statale non è fine a se stessa, esprime qualcosa di più, il ripudio del partito parificato agli organi pubblici e collocato tra essi». La restaurazione berlusconiana e poi partitocratica trova però il modo di aggirare il referendum. Come? Con il trucco dei «rimborsi elettorali». Sulle prime, le cifre sembrano quasi sopportabili: 800 lire per ogni cittadino residente e per ognuna delle due Camere. In totale ogni italiano devolve alle campagne elettorali dei partiti 1600 lire (detratta l’inflazione, 1 euro e 10 centesimi di oggi). Sembra un’inezia, invece è già troppo: la Corte dei conti segnala che i partiti, per le elezioni, ricevono molto più di quel che dicono di spendere. Ma il 2 gennaio 1997 il Parlamento – a maggioranza Ulivo, ma con i voti del Polo – decide di cambiare di nuovo e approva la legge n. 2 che prevede un contributo volontario dei cittadini, i quali possono devolvere ai partiti il 4 per mille dell’lrpef (il denaro raccolto finisce in un fondo e ripartito poi in base al peso elettorale di ciascun partito). Massimo D’Alema osserva che i partiti si espongono così «a essere giudicati dai cittadini» a dispetto del «qualunquismo becero e antidemocratico contro il sistema dei partiti». E promette che, per recuperare la fiducia dei cittadini, «i partiti debbono rinnovarsi, essere trasparenti, sottoporsi a un controllo da parte dei cittadini». Parole imprudenti, visto che nulla verrà fatto per sottrarre i partiti alla sfera privatistica con una codificazione della loro responsabilità giuridica e con la conseguente, indispensabile certificazione dei bilanci. Risultato: il 4 per mille lo versano pochissimi italiani (il numero esatto non sarà mai comunicato).
Così, per evitare la bancarotta dei partiti, il ministro Visco è costretto ad anticipare loro, a spese dei contribuenti, 160 miliardi di lire per il 1997 e 110 per il 1998. Per una volta, l’opposizione di centrodestra – solitamente così agguerrita – non leva nemmeno un vagito di protesta. Tutti zitti, tutti d’accordo. Si torna così, alla chetichella, al finanziamento diretto dello Stato. Nel 1999 viene varata una nuova legge, che archivia l’esperimento del 4 per mille senza il minimo dibattito sulle ragioni del suo fallimento, e torna all’antico: cioè ai rimborsi elettorali (concessi ovviamente in anticipo) per le elezioni di rinnovo della Camera, del Senato, dei consigli regionali, del Parlamento europeo: 1 euro per ciascun cittadino iscritto alle liste elettorali. Viene pure abbassato il quorum per ottenere il rimborso: se la legge del ’93 pretendeva almeno il 3 per cento dei voti, con la nuova legge basta l’1 per cento. Così le liste e i partiti avranno tutto l’interesse a moltiplicarsi a dismisura. Fra l’altro, i finanziamenti privati (almeno quelli dichiarati) sono bassissimi: nel 2005, «Il Sole 24 Ore» rileva che per Forza Italia, Ds, An e Pdci il finanziamento pubblico rappresenta l’80 per cento delle entrate; per Margherita, Nuovo Psi e Lista Pannella il 90; per l’Italia dei valori addirittura il 99,9. E tutti i partiti, al 31 dicembre 2005, risultano nei debiti fino al collo. I più indebitati sono proprio i due maggiori: i Ds con 179 milioni di euro e Forza Italia con 113.
I cosiddetti «rimborsi» vengono usati solo in minima parte per le campagne elettorali: per la gran parte servono a mantenere le strutture delle varie formazioni politiche anche negli anni in cui non si vota. Con un surplus di ipocrisia, i partiti promettono che, se gli anticipi supereranno le spese effettivamente sostenute per le elezioni, le somme «eventualmente ricevute in eccesso» verranno restituite entro cinque anni, a rate nella misura del 20 per cento all’ anno. Ma poi l’apposito decreto di conguaglio non viene mai varato, rendendo impossibile l’eventuale restituzione dei surplus. In pochi mesi i tesorieri dei partiti, quasi tutti d’accordo, ritoccano verso l’alto l’importo del «rimborso», che passa a 2 euro per ogni elettore e per ogni Camera, per le elezioni eutopee e per le regionali. Più un forfait, volta per volta, per le elezioni comunali e provinciali. Così, nel 2001l, le forze politiche incassano 92.814.915 euro.
Nel 2002, mentre si scontrano in Parlamento e in piazza sulle «leggi-vergogna» del governo Berlusconi, destra e sinistra presentano insieme una leggina con firme multicolori (Deodato, Ballaman, Giovanni Bianchi, Biondi, Buontempo, Colucci, Alberta De Simone, Luciano Dussin, Fiori, Manzini, Mastella, Mazzocchi, Mussi, Pistone, Rotondi, Tarditi, Trupia, Valpiana) che alza i cosiddetti «rimborsi» addirittura a 5 euro per ogni avente diritto al voto, e sempre per ciascuna delle due Camere. Non basta: i rimborsi per il Senato vengono calcolati in base agli elettori della Camera, che sono oltre 4 milioni in più (e fruttano ai partiti 20.491.120 euro in più). Di aumento in aumento, di ritocco in ritocco, nel 2006 il totale dei rimborsi elettorali raggiunge la cifra record di 200.819.044 euro. Più del doppio dei 93 milioni incamerati nel 2001. Se nel 1993 ogni italiano versava ai partiti 1,1 euro, nel 2006 ne devolve 10. Come scrivono Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo nel libro La Casta, «ogni ciclo elettorale (politiche, regionali, europee, amministrative … ) ci costa ormai un miliardo di euro a lustro».
Avete capito bene. Ma se vi fosse sfuggito ve lo spiego io. Tutta l’ammuina sul sistema elettorale e sulle soglie di sbarramento, i dotti articoli dei politologi su rappresentanza e governabilità, il modello francese, tedesco, spagnolo e delle isole Tonga sono fumo negli occhi. I partitini sopravvivono per effetto del meccanismo dei rimborsi elettorali, che spettano ai partiti con l’1% dei voti; i rimborsi sono anticipi e non sono commisurati alle spese effettivamente sostenute; e la casta la manteniamo noi contribuenti.
venerdì, 1 febbraio 2008 alle 16:04
Sull’argomento un articolo di Repubblica di oggi. Vedetevelo da soli, io non so fare i link, ma la cosa interessante è che i soldi si prendono fino alla scadenza naturale della legislatura anche se la legislatura finisce!
venerdì, 1 febbraio 2008 alle 18:03
[…] sporche (2) Venerdì, 1 Febbraio 2008 — borislimpopo Accolgo l’invito di Morgaine e riporto l’articolo de La Repubblica. In caso di scioglimento anticipato delle Camere, le […]
lunedì, 11 febbraio 2008 alle 14:01
[…] sono commisurati alle spese effettivamente sostenute; e la casta la manteniamo noi contribuenti.” borislimpopo.wordpress.com/2008/01/31/mani-sporche/ .. No al finanziamento ai partiti per l’intera legislatura! Pasquale Calce (blog di […]
lunedì, 24 marzo 2008 alle 18:53
Camorrismo elettorale
Anna Serafini, moglie di Fassino, e Maria Carloni, moglie di Bassolino, sono state candidate in posizioni blindatissime, rispettivamente in Sicilia ed in Campania. Oltre tutto, per queste illustri signore è stato messo da parte il principio veltroniano secondo cui i parlamentari uscenti con più di tre legislature avrebbero dovuto farsi da parte.
Non risulta che la Serafini e la Carloni abbiano acquisito meriti legislativi tali da far scattare la deroga, essendo rimaste fedeli al tradizionale ruolo di “peones” e di pianeti amorfi, illuminati dallo stellone dei rispettivi consorti.
A questo punto sorge spontaneo un dubbio: è vero che la Sicilia e la Campania sono terra di conquista per mafiosi e camorristi, ma è anche vero che costoro trovano un’ottima concorrenza, e probabilmente, valide sponsorizzazioni, nella cosiddetta classe politica.
Come dice Andreotti, a pensar male si fa peccato, ma normalmente ci si azzecca. O no?
Catone Censore