Running the Voodoo Down

Philip Freeman (2005). Running the Voodoo Down. The Electric Music of Miles Davis. San Francisco: Backbeat Books. 2005.

Non lo raccomando. Destinato soltanto ai fanatici come me del Miles Davis elettrico (quello che fa storcerer il naso ai puristi), e una delusione anche per loro. Documentato, certo, ma le recensioni dei dischi brano per brano sono utili soltanto per consultazione occasionale. Le considerazioni socio-politiche sono sinceramente imbarazzanti: “ofelé fa el to mesté”, si dice a Milano.

Però tre cose le ho trovate lo stesso.

La prima è una considerazione semplice semplice, ma profonda: “In the CD age, practically all recorded music exists in pristine digital simultaneity” (p. 169). Vuol dire semplicemente questo, come ogni collezionista sa: che l’era del CD (e dell’MP3) completano il percorso già iniziato con il vinile. Gli interpreti sono spogliati della storicità della loro esecuzione, che non è più legata a un tempo e a un luogo, e li possiamo ascoltare tutti come contemporanei, e confrontarli immediatamente. Louis Armstrong, Dizzy Gillespie e Miles Davis sono semplicemente tre trombettisti diversi, non tre tappe della storia del jazz. E questo è vero anche nello sviluppo di un singolo musicista, è vero anche per il Miles Davis degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta.

La seconda è un’inaspettata citazione di Schopenhauer: “Si tratti di musica o di filosofia, di pittura o di poesia: l’opera del genio non è un oggetto da usare. Essere inutile rientra tra le caratteristiche delle opere di genio: è la loro patente di nobiltà. Tutte le opere dell’uomo esistono allo scopo di conservare o di facilitare la nostra esistenza, tranne quelle di cui stiamo ora parlando: esse sole esistono per se stesse e, in questo senso, possono essere considerate il fior fiore dell’esistenza, o il suo guadagno netto” (Arthur Schopehauer, Il mondo come volontà e come rappresentazione. Milano: Mondadori. 1989. p. 1246). Non penso di essere d’accordo, ma è una citazione che comunque mi piace riportare.

La terza è la constatazione, che condivido, che le registrazioni in studio di Miles Davis, soprattutto quelle dell’ultimo periodo (1981-1991), non rendono giustizia della musica che si godeva ai suoi concerti. Sono stato per la prima volta a un concerto di Miles Davis alla fine del 1970 o nella primavera del 1971, allla sala grande del Conservatorio di Milano. Non sapevo che cosa mi aspettava (il sabato prima avevo ascoltato Ray Charles); lui aveva una giacchetta sgargiante, rossa e gialla mi pare, e suonò per la maggior parte del tempo di spalle e con la tromba rivolta a terra. Uscii frastornato, sconcertato e innamorato di quella musica, così eccitante anche se diversa da quella che ascoltavo in quegli anni (e ascolto ancora). Da allora non ne sono più uscito. Poi sono stato a tutti i suoi concerti romani degli anni Ottanta, da quello sotto una tenda che segnava il suo ritorno sulle scene dopo sei anni di sesso e droga senza prendere in mano la tromba, all’ultimo, nel 1991, in una torrida serata di luglio allo stadio Olimpico (morì qualche mese dopo). Prima di lui suonò Pat Metheny, uscito distrutto dal confronto ravvicinato. Ma quello che ricordo con più piacere lo sentii una sera di luglio, sulle scale sotto il Palazzo della civiltà del lavoro. Ero in decima fila, seduto vicino a Nanni Moretti. Lottai contro un muro di suono e rimasi sordo per un giorno intero. Fu grandissimo ed ero felice.

Certo adesso mi toccherà comprare un altro po’ di dischi, compreso l’integrale dei suoi concerti al festival di Montreaux (1973-1991). 20 CD, un vero salasso. Ma tant’è.

Tchaikovsky – Sinfonia n. 5 in mi minore, op. 64

Sentita ieri sera all’Auditorium (sala Santa Cecilia), con l’orchestra dell’Accademia condotta da Christoph Eschenbach. Non lo avevo mai sentito dirigere (ha iniziato la carriera come pianista e ha 65-70 anni) e mi è piaciuto molto. L’orchestra l’ha seguito con un suono compatto e ricco sotto il profilo timbrico, tanto da suonare diversamente da come suona di solito. Anche l’agogica impressa all’esecuzione è stata notevole, soprattutto nel movimento iniziale della Sinfonia n. 4 in re minore, op. 120, di Schumann. Ma soprattutto mi ha impressionato la sua capacità di non essere convenzionale (le due sinfonie sono di esecuzione frequente, e càpita spesso di sentire una sorta di interpretazione routinaria); Eschenbach, invece, è riuscito a farci sentire particolari, strumenti, controcanti, picccole frasi, pur all’interno di quella massa sonora tesa e compatta di cui parlavo prima.

Forse, a conti fatti, l’interpretazione di Schumann gli è riuscita meglio di quella di Tchaikovsky; ma io amo Tchaikovsky più di Schumann (di quello sinfonico, almeno, perché quello pianistico è tutto un altro discorso).

Di qui il pretesto per questa nota. Ragazzi, se conoscete Tchaikovsky soltanto per Il lago dei cigni o Lo schiaccianoci (magari perché avete visto Fantasia di Walt Disney) e avete di lui l’immagine del compositore brillante, dalla melodia facile, tutto trine merletti e crinoline, allora è venuto il momento di cambiare opinione. Tchaikovsky è un grande musicista tragico, che si affaccia senza paura (ma con molte vertigini) sugli abissi del suo animo, e dunque dell’animo umano in generale. Per convincerne ascoltate, ma non una volta sola, la quinta e la sesta sinfonia.

Per iniziare, suggerirei l’interpretazione di Evgeny Mravinsky con la Filarmonica di Leningrado pubblicata dalla Deutsche Gramophon. Fatemi sapere.