Ieri (23 aprile 2007) è morto, a 76 anni, Boris Eltsin.
Scrivo questo necrologio soltanto perché qualcuno di voi potrebbe pensare che mi chiamo Boris in suo onore. Niente di meno vero. Ho già spiegato perché mi chiamo Boris Limpopo. Se devo scegliere, meglio Boris Godunov, almeno il dramma musicale di Modest Mussorgsky è bellissimo (vi consiglio la doppia versione Gergiev/Kirov).
Eltsin, anzi, mi stava antipatico e ha molte responsabilità in merito alla tragi-comica catastrofe russa. Il suo ruolo nel tentato golpe dell’agosto 1991 è tutt’altro che chiaro: figurò come il salvatore di Gorbacev, ma ne insidiò (efficacemente) la leadership fino a costringerlo alle dimissioni, il 25 dicembre dello stesso anno. Il 26 stesso, il giorno dopo aver preso il potere, decretò lo scioglimento dell’URSS. Non era certo un democratico: il 17 marzo 1991 i tre quarti dei votanti aveva risposto affermativamente al referendum che chiedeva: “Ritenete opportuno il mantenimento dell’Unione delle Repubbliche Sovietiche Socialiste come rinnovata federazione di repubbliche sovrane, nelle quali diritti e libertà di ogni individuo di qualunque nazionalità saranno pienamente garantiti?”. Nell’ottobre del 1993 assediò il parlamento con i carri armati. Nel 1994 inviò un contingente di 40.000 soldati per soffocare le richieste di indipendenza della Cecenia. Dopo aver sprofondato la Russia in una crisi economica senza precedenti, alla fine del 1999 si ritirò, lasciando il posto al suo delfino Putin e confermando il noto detto che al peggio non c’è fine.
Si ricorda di lui un solo detto memorabile: “Si può costruire un trono con le baionette, ma non sedervicisi a lungo”.