I misteri di Parigi, di Eugéne Sue

L’ho finito, ma è stata una fatica improba. L’opera, pubblicato nel 1842-43, è in dieci volumi. Circa 1800 pagine. Ve lo sconsiglio: se siete interessati al feuilleton, leggetevi Dumas; si vi appassiona la società francese del XIX secolo, La comédie humaine di Balzac (lungo per lungo, almeno è scritto come dio comanda).

“E allora perché l’hai letto?” diranno subito i miei piccoli lettori. La storia è lunga e avventurosa (a modo suo).

Tra il 1970 e il 1976 ho letto un sacco di Marx. Stavano uscendo pressi gli Editori Riuniti le Opere complete di Marx ed Engels in 50 volumi (state tranquilli, a un certo punto ho smesso di comprarli) e via via che uscivano li compravo e li leggevo. I misteri di Parigi erano stato un enorme successo editoriale, e anche Marx l’aveva letto; era anche molto dibattuto negli ambienti socialisti, perché segnava la conversione di Sue al socialismo ed era tutto intriso di critica sociale e di proposte riformiste (il che, ahimè, lo rende se possibile ancora più indigesto). In particolare, un certo Franz Zychlin von Zychlinsky, ufficiale prussiano e giovane-hegeliano, con lo pseudonimo di Szeliga aveva pubblicato una recensione del libro sulla Allgemeine Literatur-Zeitung. Marx, ne La sacra famiglia, la prima opera scritta in collaborazione con Engels nell’autunno del 1844, se la prende con l’articolo di Szeliga e – nel farlo – ci sommministra una mega-recensione de I misteri di Parigi (non esagero, ne parla per due capitoli, il quinto di 25 pagine e l’ottavo di 54!).

Per i più curiosi riporto un sunto del romanzo in una pagina a parte.

Andiamo avanti. Mi era rimasta una curiosità. Il Marx polemista è di un sarcasmo sferzante, a volte molto divertente. Con il passare degli anni i ricordi si stemperano: ricordavo che il libro era una potenzialmente interessante e che Marx ne parlava in una sua opera (ma non ricordave quale), pensavo che fosse una lettura leggera e disimpegnata, non avevo coscienza delle dimensioni del mostro. Così un giorno di molti anni dopo – alla fine degli anni Ottanta o all’inizio degli anni Novanta – mi imbatto nel libro su una bancarella e lo compro. Ma non lo leggo. Passano altri anni, e l’autunno scorso mi decido e comincio al leggerlo. Arrivo alla fine, a pagina 854, e scopro con orrore che ho comprato soltanto il primo tomo, che racchiude i primi cinque volumi. A questo punto vorrei sapere come va a finire. Niente paura, lo cerco sul web e me lo compro. Niente, nessuna edizione in commercio (e tte credo!). Mi incaponisco e trovo, sul Project Gutenberg, il testo in francese e in inglese: scelgo l’inglese (il mio francese non è abbastanza buono per leggere l’originale) e pazientemente me lo leggo sul palmare. L’ho finito lunedì sera.

Ripeto: non ne valeva la pena.

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Scusi, signore…

Ancora su Parma e dintorni.

Un contadino vedi in un campo un pappagallo. Non conoscendo l’uccello, ma già pregustandolo arrosto, si avvicina di soppiatto e, zac!, l’intrappola sotto il cappello.

Subito da lì sotto esce una voce cavernosa e impaziente:

Co fèet? (“Che cosa fai?”).

C’al scüsa, sior, l’eva tòt par n’osèl (“Scusi, signore, l’avevo presa per un uccello”), risponde il contadino, liberandolo.

Questa storiella, esile e vagamente surreale (potrebbe essere di Zavattini), me la raccontava spesso mio padre, sempre con quest’ambientazione parmense e imitando quel dialetto e la sua erre sonora e francese. Al di là del surrealismo, il senso ultimo è quello di mettere alla berlina quella miscela infernale di ignoranza e deferenza che il contadino, e molti altri, esibiscono.