Le due inglesi (Les deux anglaises et le continent), 1971, di François Truffaut, con Jean-Pierre Léaud.
Film difficile, faticoso da vedere anche se bellissimo (di qui il relativo insuccesso), arduo da recensire.
Tutti pensiamo di sapere che cos’è l’amore. E invece l’amore è come il “gioco” di cui parla Wittgenstein: quale dei fili multicolori di cui è fatta la robusta e fragile gomena dell’amore ne coglie realmente l’essenza? L’attrazione sessuale che ci brucia? La passione che acceca? La costruzione che spezza le vene delle mani? Il viaggio insieme (di una notte, di un fine settimana, di una vacanza, di una vita)? L’amore coniugale? Quello che si materializza nei figli, che è dolce vedere crescere insieme, ma che diventano diversi da noi e in questo processo ci cambiano? Quello della crisi di mezza età, quando vorremmo poter gridare che non è tutto già scritto, che possiamo cominciare tutto da capo? La dolcezza dell’invecchiare insieme, una silenziosa promessa di mutua assistenza?
L’amore cambia e ci cambia. Cambia nella storia (non ho bisogno di fare esempi, ma cerchiamo di ricordarci che il modello che ci sembra oggi la normalità è abbastanza recente) e nella geografia (basta guardare qualche film indiano). Cambia – esperienza personale – nel corso stesso della nostra vita: non amo adesso come amavo a vent’anni (non più o meno, diversamente). Con il tempo, l’idea che amore sia anche farsi cambiare il pannolone dalla compagna della tua vita invece che da una sconosciuta ucraina si affaccia alla tua mente come un desiderio…
Tutto l’amore è platonico e carnale. Pensiamo di saper tutto sull’amore carnale, e dimentichiamo con sufficienza l’amore platonico, che ci sembra così antiquato e così irreale. Invece, l’amore platonico è uno dei fili più forti. Anzi, è parte fondamentale dell’intreccio che tiene insieme la corda e ne fa la forza. È l’amore platonico che ci dice, sottilmente ma con grande forza, che possiamo, che dobbiamo amare molte persone in molti modi diversi. Che l’amore non è mai esclusivo, ma sempre plurale.
Ma poiché l’amore platonico per sé non esiste (come non esiste l’amore carnale per sé), l’amore non è mai compiuto. Potrei dire: non c’è l’amore, c’è l’amare, sempre incompleto, sempre diviso tra bisogno d’assoluto e incompletezza, sempre in divenire. A volte, ci accontentiamo di un amore carnale. A volte, più spesso, di un amore platonico. Ne siamo felici e soffriamo. Comunque, non possiamo né vogliamo farne a meno.
Di mio, posso sopportare l’idea di diventare sessualmente impotente, ma se mi dicessero che ormai mi sono inaridito, che sono diventato incapace di amare “platonicamente”, dispererei.
“Ho cercato di fare non un film sull’amore fisico ma un film fisico sull’amore, ha detto lo stesso Truffaut. Questo assunto, pienamente riuscito, è quello che rende questo film così bello, così vero e così difficile da accettare: anche l’amore platonico, anche la componente platonica dell’amore, porta con sé tutta la fisicità dell’amore – tutte le difficoltà, tutte le gelosie, tutte le incomprensioni, tutte le sofferenze. Non c’è l’amore senza l’intreccio di tutte le sue fibre. Insieme, non c’è amore compiuto: l’amore è sempre in movimento tra un inizio e una fine, tra un incontro e una separazione.
Per questo il film è così pessimista, anche. Un modo di capirlo è considerarlo un film sui distacchi, piuttosto che sugli incontri. Truffaut li sottolinea che un’iride tonda, che chiude di nero una scena o, più spesso, il volto dei protagonisti. Un altro è quello di considerarlo un film sulla cecità dell’amore (la malattia di Muriel) e sulla sua letalità (Ann). E su quello che succede ai superstiti (l’ultima frase di Claude, che si guarda allo specchio, è: “Che cos’ho? sembro un vecchio oggi!”)