L’ultimo metrò

L’ultimo metrò (Le dernier métro), di François Truffaut, con Catherine Deneuve e Gérard Depardieu.

Ci sono molti modi possibili di interpretare questo film: un film sulla guerra, un film sulla sua crudeltà banale, un film sull’opportunismo, un film sulla necessità del teatro (e del cinema, e della letteratura) proprio quando i tempi sono più cupi e difficili, un film sulla passione dell’intrattenimento (e più in generale sull’etica del lavoro, contro tutto e contro tutti). Un omaggio alla resistenza – e anche un omaggio ai film francesi sulla resistenza (e en passant a Jean Gabin). Un film sull’assurdità delle persecuzioni agli ebrei (Lucas Steiner, che è ebreo, si chiede a un certo punto che cosa significhi essere ebreo) e su quanto questo fosse innaturale per la maggior parte dei francesi (Daxiat escluso, naturalmente: bell’idealtipo del leccaculo opportunista).

Io ci vedo, però, soprattutto un film di Truffaut. Ci sono tutte le sue tematiche: Parigi, i bambini (il figlio della portinaia, Jacquot, che annaffia una sua piantagione di tabacco – o forse sono gerani, ma intende fumarli – e ripassa i modi spregiativi in cui si possono chiamare i tedeschi).

Soprattutto la varietà e la pluralità dell’amore.  Se sei vero, se sei “puro di cuore” (come è, nonostante le apparenze, quel bietolone di Depardieu) – sembra dirci Truffaut – è ineluttabile che ti innamori delle persone con cui lavori, che stimi, con cui dividi una parte così importante del quotidiano. È così per i protagonisti delle Due inglesi, per Adele H., per Antoine Doinel, per Jules et Jim. Di solito, nella vita e nei film di Truffaut, va a finire male. Non qui, con uno dei finali più straordinari della storia del cinema.

Questo finale non è possibile che al cinema, e soltanto perché (e allora forse è questo il tema vero del film) a un livello cinema e teatro si “mappano” (per tutto il film, la messa in scena teatrale e la necessità che lo spettacolo continui perché ci sono la guerra e l’occupazione, e non malgrado la guerra e l’occupazione, ci fanno pensare alla “missione” del cineasta/intrattenitore), ma a un altro livello, nel finale, il cinema è la realtà e il teatro la finzione.

Ecco la sequenza finale (che prendo da questa bella scheda pubblicata in occasione della trasmissione del film alla televisione francese):

Ovvio

“Di cosa o fatto la cui evidenza è immediata e senza possibilità di equivoci; che non presenta caratteri di eccezionalità, scontato, banale” (De Mauro online).

Carina e tutt’altro che ovvia l’etimologia: dal latino ob (contro, verso) e via (via, cammino): ciò che s’incontra per strada e, dunque, si trova facilmente.

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Germano

No, non il tedesco, e neppure il papero (uccello del genere Anatra – Anas platyrhynchos – con lungo becco giallo tendente al verde, ali lunghe e appuntite di colore bruno, zampe corte di colore arancione, il cui maschio ha il capo di colore verde brillante), ma la “persona, che ha in comune con un’altra sia il padre che la madre” (De Mauro online).

La radice, che è la stessa di germe, è il proto-indoeuropeo *gen- che ci ha dato generare e genus in latino, ma anche kin (parente) in inglese e Kind (bambino) in tedesco. È una delle più antiche e diffuse nelle lingue di ceppo indoeuropeo, tanto che viene utilizzata come test per determinare le parentele linguistiche: è quella del greco gynè (donna), da cui derivano in inglese sia queen (regina) che cunt

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