Roth, Philip (2006). Everyman. New York: Vintage. 2007.
Ho cominciato a leggere questo libro con sospetto. Non avevo mai letto niente di Philip Roth: a suo tempo, era stato un caso letterario, perché in Portnoy’s Complaint parlava di psicoanalisi e pompini. Questo, all’inizio, mi sembrava il solito libro americano, che racconta una vita a partire dai genitori, attraverso l’infanzia e l’adolescenza, fino al compimento.
Invece no. È un libro, struggente e delicatissimo, sulla morte. Sulla paura della morte. Infine, sulla liberazione della morte. Perché invecchiare è morire a poco a poco.
Si parla molto di invecchiamento in termini sociologici, e l’Istat nell’ultimo Rapporto annuale è abbastanza coraggioso: basta leggere tra le righe.
Le politiche possono contrastare i meccanismi sociali di posticipazione e riduzione della fecondità e gestire le conseguenze sociali ed economiche del processo d’invecchiamento, ma non arrestarne o invertirne la tendenza.
Roth è molto più esplicito e coraggioso nel rivelarci la verità:
Old age isn’t a battle; old age is a massacre (p. 156).
E ancora, senza illusioni e senza consolazioni (“senza i conforti della fede”):
… the billion-, the trillion-, the quadrillion-carat planet Earth! He went under feeling far from felled, anything but doomed, eager yet again to be fulfilled, but nonetheless, he never woke up. Cardiac arrest. He was no more, freed from being, entering into nowhere without even knowing it. Just as he’d feared from the start (p. 182).