Everything is Miscellaneous

David Weinberger (2007). Everything is Miscellaneous. New York: Times Books. 2007.

È un libro importante. Forse molto importante, dopo aver superato il tono un po’ predicatorio, un po’ da guru, che hanno molti divulgatori americani. E la mania di aprire ogni capitolo con un’introduzione o un aneddoto e di chiuderlo con un riassunto di quello che si è detto nelle pagine precedenti.

Comunque a me è piaciuto molto, mi ha dato un sacco di idee e lasciato molte curiosità. Mi sono trovato molte volte a fermarmi a pensare, o a lasciare il libro per andare a vedere qualcosa sul web. Tutte cose che non mi succedono poi così spesso, nonostante la mia proverbiale capacità di distrarmi (se fossi nato adesso in America mi avrebbero imbottito di Ritalin).

L’idea di fondo è questa: tradizionalmente, abbiamo bisogno d’ordine perché le cose (gli atomi) occupano spazio, che è limitato; l’ordine ha bisogno di classificazioni, possibilmente gerarchiche, perché una cosa può stare in un posto solo. Il modello è l’albero. Mia moglie viene da una famiglia grande, ma anche numerosa: 10 tra fratelli e sorelle. Il caos regnava sovrano. I più piccoli tra i suoi fratelli, probabilmente per reazione, si ricavarono uno spazio nel garage, e lo tenevano in ordine perfetto. Troneggiava una grande scritta: “ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa”. Nel mondo digitale non abbiamo più bisogno di questo ordine: lo spazio è (potenzialmente) infinito e costa sempre meno. Gli oggetti digitali sono informazione e metainformazione, che può essere connessa in molti modi. Tutto questo, per di più, è un processo sociale. Di qui “il potere del nuovo disordine digitale” (The Power of the New Digital Disorder è il sottotitolo del libro).

Vi ho dato un’idea molto semplicistica, ma è impossibile riassumere il tutto.

Il libro, come accade sempre più spesso, ha anche un sito, molto stimolante.

Trovate anche il testo integrale del primo capitolo, che vi consiglio di leggere per farvi un’idea.

20 luglio – L’uomo sulla luna

Il 20 luglio 1969 i primi uomini calcarono il suolo lunare (veramente, per noi europei, erano le prime ore del mattino del 21).

Chi all’epoca era troppo piccolo o non era ancora nato non può capire, penso, come ci sembrasse storica quella data. Ero convinto, e molti altri miei coetanei con me, che nel 2000 i viaggi spaziali sarebbero stati ordinari come allora i viaggi aerei e che probabilmente avrei festeggiato i miei 50 anni con una gita sulla Luna o su Marte.

Molti restarono alzati tutta notte. In Italia, la telecronaca (anche i collegamenti in mondovisione erano una cosa recente – il primo era stato quello del giugno 1967, quando i Beatles cantarono All you Need is Love dal vivo) fu condotta dai leggendari Tito Stagno (in studio) e Ruggero Orlando (dall’America). Io ero a Dublino e la seguii sulla tv irlandese.

Sapevo tutto sulla Luna – sapevamo tutto, dovrei dire, perché la copertura mediatica fu massiccia: la polvere, la gravità pari a 1/6 di quella terrestre per cui gli astronauti procedevano a balzelloni, il ritardo di circa un secondo nelle conversazioni (384.000 km sono tanti anche alla velocità della luce). Qualche anno dopo feci la fila (alla Fiera di Milano, mi pare) per vedere i sassi portati dalla Luna da Neil Armstrong e Buzz Aldrin. Dopo un po’ lo spazio passò di moda. Adesso è di moda dire che lo sbarco sulla Luna non avvenne mai.

Si stima che allo sbarco assistettero 500.000.000 di persone. Armstrong e Aldrin scesero con il modulo lunare Eagle, mentre quel poveraccio di Michael Collins restava in orbita lunare nella capsula (la quintessenza della sfiga: 384.000 km per niente!). Armstrong, che era il comandante, uscì per primo e disse la storica frase: “That’s one small step for a man, one giant leap for mankind“. Chissà quanto se l’era studiata e preparata, ma sbagliò lo stesso e disse invece “That’s one small step for man, one giant leap for mankind“. Poi piantarono la bandiera americana (d’alluminio, perché altrimenti sarebbe rimasta moscia, data l’assenza di atmosfera e dunque di vento) e Aldrin si fece fotografare mentre la salutava militarmente (Armstrong era un civile). Infine lasciarono una placca firmata da Nixon (bella traccia lasciata ai posteri e agli extraterrestri!).

“We came in peace for all mankind”: alla fine degli anni 60 ci credevamo.