Don Giovanni di Peter Handke

Handke, Peter (2004). Don Giovanni (raccontato da lui stesso). Milano: Garzanti. 2007.

Forse non il miglior Handke. Anzi, per me, che sono un appassionato del Don Giovanni della musica e del mito, una grossa delusione. Il libro mi sembra singolarmente fuori fuoco, anche per chi conosce Handke, e non va veramente a parare da nessuna parte.

Eppure, Handke a tratti si avvicina molto a scoprire un Don Giovanni che noi, che lo conosciamo e ne siamo affascinati, riconosciamo come profondamente vero.

Don Giovanni era un orfano, e lo era non in qualche senso traslato: anni prima aveva perso la creatura a lui più vicina, che non era suo padre o sua madre, bensì, almeno così mi parve, suo figlio, il suo unico figlio. Anche con la morte del proprio figlio si poteva dunque diventare orfani, eccome […].
Portare il lutto attraverso il mondo e a esso trasmetterlo, al mondo. Don Giovanni viveva del suo lutto come di una forza. Era qualcosa di più di lui e lo sormontava. Armato per così dire – e non solo per così dire – del suo lutto, si sapeva di certo non immortale, ma invulnerabile. Il lutto era qualcosa che lo rendeva indomabile, e in contromossa (o meglio mossa dopo mossa) assolutamente permeabile e ricettivo a qualunque cosa accdesse, e al tempo stesso, all’occorrenza, invisibile (pp. 35-36).

E poi non fu lui a dare inizio allo scambio di sguardi con la sposa. Fu anzitutto lei a fissarlo negli occhi. […]
Don Giovanni mi raccontò come fosse sobbalzato sotto gli sguardi della sposa. Non erano sguardi particolari, nient’altro che aprire gli occhi. Occhi così belli, e lei, senza intromettersi, con quegli occhi così belli gli faceva gli occhi più dolci. E il sobbalzare di lui, di Don Giovanni, non aveva niente in comune con uno spavento. Era un risveglio improvviso e insieme quieto dopo un sonno o una vita vegetativa durati anni. Quiete: col subitaneo cessare del mormorio dei costanti monologhi nella sua testa. Davanti alla fronte gli si creò ampiezza (pp. 45-46).

Don Giovanni non era un seduttore. Non aveva mai sedotto una donna. È vero, ne aveva incontrate alcune che poi glielo avevano rinfacciato. Ma quelle donne avevano mentito, oppure non ci stavano più con la testa, e dunque in realtà avevano voluto dire qualcosa di molto diverso. E al contrario, anche Don Giovanni non era mai stato sedotto da una donna. […] Lui aveva un potere. Solo che il suo potere era un altro.
Lui, don Giovanni, si sentiva intimidito da questo potere. È possibile che un tempo fosse stato disinvolto. Ma intanto da un pezzo indietreggiava di fronte all’idea di esercitare il potere. Mi raccontò direttamente, e non certo nei toni dell’orgoglio e della presunzione, anzi osservò quasi per inciso che quelle donne sulle quali verteva il discorso, almeno nella storia qui, riconoscevano in lui, non nel primo istante dell’incontro, bensì dopo, appunto al momento della conoscenza, il loro padrone. Gli altri uomini erano stati e sarebbero stati esattamente quello che erano, e lui, don Giovanni, quelle donne lo contemplavano, sì, contemplavano come loro signore, l’unico, per sempre (senza «signore e padrone»). E come tale lo rivendicavano, quasi («quasi») come una sorta di salvatore. Salvare da cosa? Semplicemente salvare. O semplicemente: loro, le donne, portarle via, da qui, e da qui, e da qui (pp. 51-52).

Il potere di don Giovanni nasceva dagli occhi. […] Col suo sguardo – e non con la sua contemplazione, che in nessun modo saltava all’occhio – lui liberava il desiderio della donna. Era uno sguardo che comprendeva più e altro ancora oltre a lei sola, che la superava e dunque la lasciava perdere, e allora da quello sguardo lei si sapeva capita e apprezzata; uno sguardo che agiva. […]
Grazie allo sguardo di don Giovanni su di lei e in più sullo spazio attorno a lei, quella donna arrivava alla consapevolezza della sua solitudine fino ad allora, e alla decisione che adesso vi avrebbe subito posto fine. […] Prendere coscienza della solitudine… energia, pura e assoluta, del desiderio (pp. 52-54).

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