Nakagami, Kenji (1982). Mille anni di piacere. Torino: Einaudi. 2007.
La tentazione di una recensione alla Paolo Villaggio, o alla Carlo Vanzina, è forte (“Nakagami? ‘na cagata”), ma forse ingiusta.
Il problema di questo libro è che non è un capolavoro, e che se non ci fossero in gioco il fascino dell’esotismo nipponico, un titolo pruriginoso e una brava studiosa (Antonietta Pastore) non sarebbe stato tradotto neppure dopo 25 dalla pubblicazione dell’originale.
Perché l’ho comprato io, allora? Mah. Era poco prima di Natale, anch’io subisco il fascino dell’esotismo nipponico e del titolo pruriginoso, il colore della copertina è bellissimo e il cartoncino un po’ ruvido è piacevole al tatto… Più seriamente, mi ha incuriosito scoprire dal risvolto che in Giappone esisteva una sorta di “casta di intoccabili”, come in India, gli eta, emancipati soltanto nel 1871. Dopo quella data, proibito il termine antico, furono chiamati burakumin, ma le discriminazioni e, in alcuni casi, le persecuzioni e i pogrom continuarono, fino ai nostri giorni.
Purtroppo, questo interessante sfondo sociologico non basta a fare un bel romanzo (o una bella serie di racconti – nemmeno questo si capisce bene): l’autore è incerto tra un tono favolistico alla sudamericana, un realismo magico alla García Márquez o una crudezza alla Céline. E allora il lettore rimpiange i modelli. È uno di quei casi in cui viene da esclamare: “Ma con tutto lo yogurt che c’è, c’era proprio bisogno di Yoplait?”
Salviamo almeno una pagina:
Una volta zia Oryu fece questa riflessione: più della primavera amava l’estate, quando tutto ciò che aveva vita si espandeva in tutta la sua forza e raggiungeva la piena fioritura e il pieno sviluppo; più dell’estate amava l’autunno che conosceva il limite delle cose, che vedeva la debolezza espandersi in silenzio e tante vene chiudere gli occhi impallidendo, il verde diventare a poco a poco argenteo e i fiori rossi color del ferro; più dell’autunno amava l’inverno tutto rinsecchito e più dell’inverno la primavera gonfia di germogli (p. 199).

giovedì, 10 gennaio 2008 alle 17:20
La pagina citata fa pensare all’autoreferenzialità di Escher: la scala che scende in un ciclo infinito, le due mani che si disegnano.