Sergio Luzzatto – Partigia

Luzzatto, Sergio (2013). «Partigia». Una storia della resistenza. Milano: Mondadori. 2013. ISBN 9788804629399. Pagine 373. 19,50 €

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Comprato d’istinto ad aprile in libreria (e dunque su carta), attratto dall’immagine in copertina, dal titolo e (lo confesso) dal riferimento a Primo Levi. Letto un po’ per volta, per lo più immerso nella vasca da bagno la domenica mattina (questa è la sorte ormai destinata ai libri di carta), infischiandomi bellamente – prima per ignoranza, e poi per testarda determinazione – delle polemiche che intorno al libro si andavano affollando, dividendo i critici tra favorevoli (capostipite Paolo Mieli sul Corriere) e contrari (Gad Lerner su Repubblica). Dirò subito, senza peraltro schierarmi troppo, che a me il libro è piaciuto e che non lo catalogherei nel filone del revisionismo.

Vorrei però soprattutto parlare d’altro, seguendo spunti che il libro mi ha ispirato.

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Nella prima metà degli anni Settanta – per me gli anni dell’Università, alla Statale di Milano sostanzialmente cogestita (oltre che dalle autorità accademiche) dal Movimento studentesco (poi MLS) di Mario Capanna – era diffuso nella sinistra, parlamentare ed extra-parlamentare, il timore di un colpo di Stato. Ossessione non del tutto peregrina: c’erano stati in Italia più tentativi, da quello di De Lorenzo a quello grottesco di Junio Valerio Borghese (fallito, si dice, per un acquazzone), la strategia della tensione era in pieno dispiegamento (ogni volta che passo un controllo in aeroporto non posso fare a meno di ricordare che in Italia sono saltati soprattutto treni e stazioni), c’era stato il colpo di stato cileno del settembre 1973. C’era gente che di tanto in tanto, avvertita di un pericolo, non dormiva a casa. Se volete avere idea del clima di cui stiamo parlando vi raccomando la bella biografia di Giangacomo Feltrinelli scritta dal figlio Carlo (Senior Service).

Io non ero certo ossessionato come Feltrinelli e dormivo a casa sonni più o meno sereni. Però pensavo di essere schedato (qualche anno dopo ebbi conferma che era vero) e che, in un’ipotesi cilena, prima o poi sarebbero venuti a prendermi. Ma soprattutto pensavo che, in un’ipotesi del genere, sarebbe stato mio dovere far parte della resistenza. E qui, per me, sorgevano i problemi e gli interrogativi. Miope, scartato alla visita militare, che tipo di resistenza avrei potuto fare? Mi avrebbero ammazzato alla prima azione militare? e, soprattutto, i compagni mi avrebbero voluto nella loro banda? quando era evidente che sarei stato una palla al piede? (e adesso potete smettere di ridere, per favore?)

Non ho potuto fare a meno di pensare a questo leggendo il libro di Luzzatto: Primo Levi nel 1943 aveva grosso modo l’età che avevo io nei primi anni Settanta, era entrato da poco in contatto con gli ambienti dell’antifascismo senza aver avuto nessun contatto diretto con la resistenza armata (così mi pare d’aver capito), nell’agosto del 1943 era in vacanza a Cogne. Dopo l’armistizio dell’8 settembre si trasferì con la madre e la sorella all’Albergo Ristoro di Amay, una frazione di Saint Vincent: sfollati ed ebrei che ritengono prudente stare alla larga dalle città ormai sotto il pieno controllo nazista e repubblichino. Qui Levi matura la sua scelta partigiana, che mi sembra così simile a quella che avrei fatto anch’io: una scelta politica e anche morale, accompagnata da un’esperienza militare nulla, e che quindi doveva mettere in conto l’elevata probabilità di restare ammazzato o di essere catturato alla prima azione.

Una decisione politica e morale che distingue e distinguerà per sempre chi scelse la clandestinità e la resistenza rispetto ai “ragazzi di Salò”, come ha egregiamente notato Giorgio Bocca su Micromega rispondendo al famoso (e imperdonabile) discorso di Luciano Violante al suo insediamento come presidente della Camera dei deputati:

[Capire i ragazzi di Salo? S]ono cinquant’anni che noi non ecumenisti cerchiamo di farlo, percorrendo tutte le ramificazioni della psicologia umana: quelli che andarono a Salò perché ignoravano la storia, compresa quella del fascismo, quelli che per l’onore, per il mussolinismo, perché orfani di fascisti, per un ritorno al diciannovismo, per il Duce tradito, anche quelli che erano più nazisti che fascisti. Ma cercar di capire i moventi e le pulsioni personali o di gruppo non significa cancellare, stravolgere quella che fu la storia di Salò in quei venti mesi, la storia di uno Stato fantoccio, tenuto in piedi dagli occupanti nazisti, e subìto per sopravvivere o alimentato dalla speranza che i tedeschi vincessero, che cioè si attuasse il mondo della rigenerazione razziale, dei popoli eletti pronti a praticare una nuova schiavitù mondiale.
Anche noi della montagna eravamo giovani e ignoranti e mossi dai più svariati motivi personali e dalle casualità, ma una cosa ci era molto chiara: se vincevano i nazisti finivamo impiccati o in fuga verso remoti rifugi. Non ci venga a dire, onorevole Violante, che i «ragazzi di Salò» queste cose non le sapevano.

Seconda considerazione, a proposito dei 2 ragazzi che – secondo la ricostruzione di Luzzatto – furono giustiziati dalla banda cui apparteneva Primo Levi nel dicembre del 1943: sono caduti della resistenza o no? il loro nome deve degnamente stare sui monumenti? devono essere loro dedicate strade?

Io penso di sì, e provo a spiegare il perché. A questo punto, dopo le figuracce fatte prima, posso anche confessare di un essere un pacifista quasi estremo. Penso che la guerra, in qualunque sua forma e quali che siano le sue giustificazioni morali (che citavo prima) sia una cosa brutta sporca e cattiva, da cui tutti, tutti, escono malissimo. E che però, proprio per questo, non può e non deve andare troppo per il sottile nel decidere chi merita di essere definito eroe e chi no. Quei due ragazzi sono caduti – anche se per mano amica – dopo avere fatto, come i loro compagni, la scelta partigiana: scelta partigiana che poteva avere e aveva, come abbiamo visto anche nel caso di Primo Levi, mille singole motivazioni personali, ma trovava il comune denominatore nella scelta etica del prendere posizione, costi quel che costi.

So ben poco più di quello che racconta Luzzatto sulla vicenda di quei due. Ma so qualche cosa di più – anche se non ho fatto uno studio storiografici e se i dubbi sono molti – su una storia più vicina a me. Nel borgo selvaggio ma non propriamente natio, non lontano dalla casa sul confine dei ricordi che oscura e silenziosa se ne sta, c’è una via che l’odonomastica resistenziale del Comune ha dedicato a un giovanissimo martire della resistenza. La versione ufficiale vuole che il giovane, insieme a 2 altrettanto giovani compagni, sia morto su un argine del fiume, il giorno dopo la liberazione del centro principale, in uno scontro con una sacca di tedeschi sbandati. Gira da anni un’altra versione, di cui ignoro la fonte, che insinua che invece il ragazzo morì sì a liberazione avvenuta, ma per un tragico incidente occorsogli armeggiando una bomba a mano.

Ammettiamo per un attimo che questa seconda versione sia quella più vicina alla verità. Cambierebbe lo status di martire della resistenza di questo ragazzo? la cosa dovrebbe indurre il Comune a revocare la dedicazione della strada, per votarla magari a un ragazzo di Salò? Io penso proprio di no, perché qualunque sia stata la causa prossima della sua morte, questa circostanza nulla toglie alla scelta di questo ragazzo di entrare, non ancora ventenne, nelle Brigate Garibaldi.

Bisignani-Madron – L’uomo che sussurra ai potenti: Trent’anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate

Bisignani, Luigi e Paolo Madron (2013). L’uomo che sussurra ai potenti: Trent’anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate. Milano: Chiarelettere. 2013. ISBN 9788861904859. Pagine 624. 9,99 €

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Comprato per curiosità e accidia, due consigliere non sempre affidabili, dopo aver letto un recensione positiva.

Io vi dirò invece che il libro è da evitare. Pagine e pagine di dialogo che nella più verosimile delle ipotesi sono avvertimenti in stile mafioso affinché chi ha orecchie per intendere intenda, nella più ingenua (che Bisignani vorrebbe accreditare) sono pettegolezzi più o meno innocui.

Poiché alla fine l’ho pur letto, tanto vale fare qualche considerazione.

La sensazione più importante che ho tratto dalla conversazione di Bisignani è che l’Italia, quella del potere che ruota intorno alla politica e all’imprenditoria e alla finanza, non soltanto a Roma ma anche a Milano e Torino e Genova e Siena e Napoli, sia dominata almeno dalla metà degli anni Settanta dalla casualità, o meglio dall’interazione largamente stocastica delle varie conventicole e clan, peraltro largamente intrecciate, dal momento che balza agli occhi in tutta evidenza che potevi essere al tempo stesso cattolico-papalino, frammassone, uomo dei servizi e colluso con la malavita organizzata. Questa mi sembra, per quel poco che vedo dal mio punto di osservazione e per quello che mi racconta qualche amico più introdotto di me, una costante.

L’altra faccia di questa medaglia, o forse la stessa faccia, è che sulla pianificazione o programmazione che dir si voglia – feticcio tanto venerato a chiacchiere quanto disatteso nei fatti – e sulla sua versione modernizzata del binomio mission/vision si costruiscono miti (quello degli ultimi due presidenti del consiglio Monti e Letta e dei loro ministri, tanto per non fare nomi), ma poi si opera a vista, con eterni rinvii seguiti da decisioni meramente tattiche, dettate da un’emergenza/urgenza figlia proprio degli eterni rinvii. Invocando lo stato di necessità e urgenza, quando basterebbe forse ricordare la nostra eccellenza calcistica nella combinazione catenaccio/titìc-titàc/contropiede fortunoso. Bisignani lo dice di Andreotti, ma la considerazione può essere facilmente estesa a tutta la classe politica, anche a coloro che da Andreotti si dichiarano lontanissimi:

Il suo più grande difetto è stato di essere un tattico e non uno stratega. Andreotti, pur appartenendo ormai alla storia, ha vissuto giorno dopo giorno nella cronaca. [1483: riferimento alle posizioni Kindle]

L’altra cosa abbastanza impressionante, ancorché ben nota, è che le persone prescelte per cooptazione da questa grande rete trasversale (che non è né curiale né massonica né malavitosa né filoamericana né berlusconiana né composta di grigi grand commis perché è tutte queste cose insieme) non possono essere difese con la protervia del potere ben nota a Esopo e Fedro:

Vacca et capella, et patiens ovis injuriae, socii fuere cum leone in saltibus. Hi quum cepissent cervum vastis corporis, sic est locutus partibus factis leo: ego primam tollo, nominor quia leo; secundam, quia sum fortis, tribuetis mihi: tum, quia plus valeo, me sequetur tertia: malo adfligetur, si quis quartam tetigerit.

Una vacca, una capra e una timida pecora andarono a caccia nei boschi insieme a un leone, e catturarono un grosso cervo. Il leone, che aveva deciso di farne le parti, disse: “Poiché io sono il leone prendo la prima parte, e anche la seconda, perché sono il più forte. Inoltre, visto che valgo più di voi, mi spetta anche la terza parte. Infine, che nessuno osi contendermi la quarta parte, altrimenti ne subirà le conseguenze”.

Allora occorre inventarsi ex post, cioè a decisione assunta nelle segrete stanze, una procedura di selezione adamantina e inattaccabile (ma finta) e un curriculum vitae di tutto rispetto (tipo: igienista dentale multilingue). Mi raccontava un vecchio amico, a proposito di un grand commis di cui si parla anche in questo libro (anche se come di un «talentuoso sciupafemmine») che aveva avuto occasione di conoscerlo, non ancora venticinquenne, a un corso post-universitario in materia di sviluppo economico. Il nostro stava sempre in ultima fila, con un gruppetto di romani di buona famiglia (il mio amico e altri frequentavano il corso dopo aver vinto una selezione e con una modestissima borsa di studio), ostentando di non temere gli esami (temutissimi dagli altri, perché comportavano l’allontanamento dalla scuola e la decadenza dalla borsa). Suscitava anche scalpore che il nostro (e anche qualcuno dei suoi amici per la verità) fosse stato ammesso prima di laurearsi e fosse dunque, formalmente, un osservatore. Dunque il nostro difficilmente può aver ottenuto da quel corso un diploma di merito come tecnico della programmazione economica, come millanta la sua biografia, anche perché – racconta orgogliosamente il mio amico – «quell’anno soltanto io ottenni il massimo dei voti».

Insomma, uno resta con l’impressione che il problema non sia soltanto quello che nel nostro Paese la mobilità sociale intergenerazionale è bloccata (questo è purtroppo ben noto), ma anche quello che i meccanismi di promozione sociale non passano attraverso il merito e neppure il censo o l’appartenenza di classe, ma attraverso la cooptazione della rete dei gruppi di potere esistenti.

* * *

Bisignani dice la sua anche a proposito del caso ENI-Petromin, di cui ci siamo occupati recensendo L’intrigo saudita di Donato Speroni (in corsivo le domande di Madron, in tondo le risposte di Bisignani):

Craxi però non si è mai fidato di Gelli.
Craxi diffidava di Gelli e lo considerava colluso con i suoi antagonisti nel partito, Claudio Signorile e Fabrizio Cicchitto. Ad aumentare la sua diffidenza c’era anche la convinzione che parte dell’intermediazione per il contratto petrolifero tra l’Eni e la Petromin, l’ente petrolifero saudita, fosse finita in Italia per finanziare operazioni editoriali.
Sulla famosa tangente Eni-Petromin la magistratura indagò senza venirne a capo.
Io seguii la vicenda poiché Stammati, come ministro del Commercio con l’estero, autorizzò il pagamento dell’intermediazione. Anche Andreotti cercò in tutti i modi di vederci chiaro, ma resta ancora oggi un mistero, a parte alcune provvigioni finite nelle tasche di dirigenti secondari dell’Eni.
Ma che coincidenza. Sia Stammati che il presidente dell’Eni Mazzanti iscritti alla P2.
Mazzanti, presidente socialista del gruppo, non ha mai voluto esplicitamente dire, forse per paura di gravi ritorsioni, che quella mediazione interessava invece la casa reale saudita. [3115-3122]

* * *

Infine, a proposito della sua breve permamenza recluso al carcere di Opera durante l’inchiesta Mani Pulite, un quadretto degno del Don Raffaè di Fabrizio De André:

[…] Ho però un bel ricordo di Giuseppe. E, appena uscito, andai subito a trovare la sua famiglia.
Chi è Giuseppe?
Il detenuto napoletano che mi portava il cibo. Senza che gli avessi chiesto nulla, oltre al pasto d’ordinanza cucinava per me degli spaghetti di Gragnano, condendoli con il miglior sugo di pomodoro che abbia mai assaggiato. [1781]

http://http://www.youtube.com/watch?v=tVxcBsMqMVw

Bruce Springsteen – 3 ottobre 2009

Non ero ieri sera al concerto romano di Bruce Springsteen. Sono bloccato a casa da un problema di salute. Ma forse non ci sarei andato nemmeno se fossi stato meglio, perché della conca polverosa delle Capannelle ho dei pessimi ricordi.

Sono stato a un concerto di Bruce Springsteen una volta sola, ed è stata un’esperienza memorabile. Era – come i più sagaci di voi già sospetteranno – il 3 ottobre 2009. Il più grande dei miei figli, all’epoca, era per un periodo di studio allo IAS di Princeton (in questo blog ne abbiamo parlato a proposito del libro di George Dyson Turing’s Cathedral) e mia moglie e io abbiamo approfittato dell’occasione e del nostro anniversario di matrimonio per andare a passare qualche giorno a New York. Poiché la data del nostro anniversario coincide con il compleanno del figlio (un anno esatto di distanza), come festeggiamento condiviso ci aveva preso i biglietti per il concerto di Bruce Springsteen.

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Concerto memorabile, non solo per questi motivi strettamente personali. Il Boss aveva compiuto 60 anni il 23 settembre. Il tour era il Working on a Dream Tour (dal titolo del 16° album in studio del nostro, uscito il 27 gennaio). Tra l’altro, fu l’ultima tournée in cui suonò Clarence Clemons (che sarebbe morto nel 2011). Il 21 maggio 2009, durante il concerto allo Izod Center di East Rutherford nel New Jersey (lo sapete tutti, immagino, che Bruce Springsteen è nato proprio lì vicino, nel New Jersey), annunciò che tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre avrebbe tenuto 3 concerti al Giants Stadium, prima della sua demolizione (the band will «say goodbye to old Giants Stadium … Before they bring the wrecking ball, the wrecking crew is coming back!»). Furono poi aggiunte 2 date, portando i concerti a 5.

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Il Giants Stadium era lo stadio dei New York Giants, ma ci ha giocato 2 partite anche la nazionale italiana nei mondiali del 1994 e ci ha detto messa papa Wojtyła il 5 ottobre 1995 (stabilendo un record di presenze, 82.948 persone, battuto soltanto dagli U2 nel concerto del 24 settembre 2009, con 84.472 spettatori). Noi eravamo seduti piuttosto in alto e laterali, ma questo non ci ha impedito di goderci il concerto.

Ma prima di parlare di musica vorrei sottolineare la perfetta organizzazione logistica dell’evento. Nel prezzo del biglietto era incluso il trasporto in bus da e per lo stadio, con partenza dal Port Authority Bus Terminal di Manhattan.

L’idea di Bruce Springsteen era di suonare, accanto alla setlist abituale, un intero album in ognuno nei concerti:

We had done so many shows and were going to come back around one more time, so we were like, ‘OK, what can we do that we haven’t done? Let’s try to play some of the albums.’ There were some people who were starting to do it, it sounded like a good idea, and my audience fundamentally experienced all my music in album form. People took Born to Run home and played it start to finish 100 times; they didn’t slip on a cut in the middle. And we made albums – we took a long time, and we built them to last. … Those records are packed with songs that have lasted 30–35 years. It simply was a way to revitalize the show and do something appealing and fun for the fans, but it ended up being a much bigger emotional experience than I thought it would be.

A noi capitò Born in the USA. In occasione di questi concerti il Boss presentò anche la nuova canzone Wrecking Ball, scritta dal punto di vista dello stadio (grosso modo coetaneo di Springsteen stesso): Springsteen si gettava sul pubblico, alla Peter Gabriel, durante Hungry Heart; particolare cura nell’illuminazione (soprattutto in The Rising). Per finire i fuochi d’artificio (quelli qui sotto sono proprio quelli del 3 ottobre).

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Ecco la setlist completa del concerto:

  1. Wrecking Ball
  2. Out in the Street
  3. Outlaw Pete
  4. Hungry Heart
  5. Working on a Dream
  6. [Born in the U.S.A.] Born in the U.S.A.
  7. Cover Me
  8. Darlington County
  9. Working on the Highway
  10. Downbound Train
  11. I’m on Fire
  12. No Surrender
  13. Bobby Jean
  14. I’m Goin’ Down
  15. Glory Days
  16. Dancing in the Dark
  17. My Hometown
  18. The Promised Land
  19. Last to Die
  20. Long Walk Home
  21. The Rising
  22. Born to Run
  23. Raise Your Hand (Eddie Floyd cover) (Instrumental)
  24. Jersey Girl (Tom Waits cover)
  25. [Encore] Kitty’s Back
  26. Detroit Medley
  27. American Land
  28. Waitin’ on a Sunny Day
  29. Thunder Road

OK, non voglio farvi schiattare dall’invidia. Su YouTube c’è l’audio integrale delle 3 ore di concerto.

Neil Gaiman – The Ocean at the End of the Lane: A Novel

Gaiman, Neil (2013). The Ocean at the End of the Lane: A Novel. New York: William Morrow. 2013. ISBN 9780062255679. Pagine 259. 10,59 €

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Ho già avuto occasione di scrivere, in un post su questo blog, che Neil Gaiman è un autore di culto: o lo si ama, o lo si adora incondizionatamente. 

Questo è il suo primo romanzo “per adulti” (sì, perché nel mondo anglosassone – lo sappiamo per averne parlato qui – la letteratura YA, per giovani adulti, è classificata a parte) in quasi 10 anni, dopo Anansi Boys del 2005. Non delude le aspettative, e non sono certo l’unico a dirlo: sul Guardian/Observer l’hanno recensito sia Edward Docx il 26 giugno 2013 (The Ocean at the End of the Lane by Neil Gaiman – review – ma non leggetelo perché racconta tutta la storia!) sia Antonia S. Byatt (The Ocean at the End of the Lane by Neil Gaiman – review – che secondo me ha capito molto di più, ma che contiene comunque qualche spoiler), Mentre sul NYT l’ha fatto Benjamin Percy il 27 giugno 2013 (It All Floods Back – la recensione che secondo me ha colto meglio la cifra del romanzo).

The Ocean at the End of the Lane è un Bildungsroman alla rovescia, in almeno 2 accezioni.

La prima è efficacemente riassunta nella citazione di Maurice Sendak posta a epigrafe del romanzo:

I remember my own childhood vividly … I knew terrible things. But I knew I mustn’t let adults know I knew. It would scare them.

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Essere bambini – e dunque tornare bambini – significa riaprire il libro delle possibilità, quello che si chiude a poco a poco, ogni giorno che viviamo. Il protagonista di questa storia lo sa benissimo («Adults follow paths. Children explore.»).

A questo proposito, con la sua storia Neil Gaiman affronta un tema che era stato di Douglas Coupland in The Gum Thief:

A few years ago it dawned on me that everybody past a certain age – regardless of how they look on the outside – pretty much constantly dreams of being able to escape from their lives. They don’t want to be who they are any more. they want out. […]
Do you want out? Do you often wish you could be somebody, anybody, other than who you are – the you who holds a job and feeds a family – the you who keeps a relatively okay place to live and who still tries to keep your friendships alive? In other words, the you who’s going to remain pretty much the same until the casket? […]
I used the phrase “a certain age”. What I mean by this is the age people are in their heads. It’s usually thirty to thirty-four. Nobody is forty in their head. When it comes to your internal age, chin wattles and relentless liver spots mean nothing (Douglas Coupland, The Gum Thief, pp.1-2).

La risposta di Gaiman è però diversa: noi siamo noi a 7 anni, come nel romanzo si adombra più volte – a partire dallo spartiacque della fallimentare festa di compleanno – fino alla considerazione che compare nell’ultimo capitolo, prima dell’epilogo:

A story only matters, I suspect, to the extent that the people in the story change. But I was seven when all of these things happened, and I was the same person at the end of it that I was at the beginning, wasn’t I? So was everyone else. They must have been. People don’t change. [2470: il riferimento è alle posizioni Kindle)

La seconda accezione in cui The Ocean at the End of the Lane è un Bildungsroman alla rovescia è molto più profonda, nel senso più vero e profondo è la ragione d’essere del romanzo, oltre che l’universo in cui esso si sviluppa.

Se proviamo a leggere il romanzo non come una fantasia fantasy (anche se un po’  horror) ma come una storia coerente in un universo alternativo al nostro ma coerente. ci troviamo in quella che Benjamin Percy chiama «a kind of quantum physics school of magic» (ve l’avevo detto che è il recensore che, secondo me, ha meglio compreso le correnti sotterranee del Gaiman-pensiero). Il romanzo vi accenna obliquamente, presentandoci la capacità degli Hempstock di tagliare e cucire il continuum spazio-temporale, di incanalare l’energia, di ricordare il big bang. Particolarmente rivelatrice è l’esperienza del protagonista nell’oceano del titolo:

I saw the world I had walked since my birth and I understood how fragile it was, that the reality I knew was a thin layer of icing on a great dark birthday cake writhing with grubs and nightmares and hunger. I saw the world from above and below. I saw that there were patterns and gates and paths beyond the real. I saw all these things and understood them and they filled me, just as the waters of the ocean filled me.
[…]
Could there be candle flames burning under the water? There could. I knew that, when I was in the ocean, and I even knew how. I understood it just as I understood Dark Matter, the material of the universe that makes up everything that must be there but we cannot find. I found myself thinking of an ocean running beneath the whole universe, like the dark seawater that laps beneath the wooden boards of an old pier: an ocean that stretches from forever to forever and is still small enough to fit inside a bucket, if you have Old Mrs. Hempstock to help you get it in there, and you ask nicely. [2084-2095]

Oltre alle Hempstock, che ne sono le guardiane e le vestali, soltanto un bambino di 7 anni ha accesso al continuum spazio-temporale che sottende l’universo, alla sua materia oscura (qualche connessione con i mondi paralleli di Philip Pullman?) che sostanzia tutto quello che deve esserci ma non riusciamo a trovare (che gli adulti non riescono a trovare). Soltanto il ritorno, ancorché fugace e subito dimenticato, alla condizione infantile, soltanto la destrutturazione del sé adulto, consente di tornare a quello stadio staminale totipotente che permette di comprendere profondamente la realtà e, soprattutto, le altre persone.

Ultima notazione: sono un vecchio duro, capace di affrontare tutto (quasi tutto, ma questa è un’altra storia) a ciglio asciutto. Ma le ultime pagine di questo romanzo mi hanno commosso.

Correte a leggerlo.

* * *

Qualche piccolo assaggio  (consueti riferimenti alla posizione Kindle):

Books were safer than other people anyway. [133]

[…] money, just money, and nothing more. Little tokens-of-work. [609: questa definizione del danaro come token-of-work è una notazione preziosa e profonda, che sembra uscita dal Marx del Manoscritti economico-filosofici del 1844]

“That’s the trouble with living things. Don’t last very long. Kittens one day, old cats the next. And then just memories. And the memories fade and blend and smudge together …” [663]

“Men!” hooted Old Mrs. Hempstock. “I dunno what blessed good a man would be! Nothing a man could do around this farm that I can’t do twice as fast and five times as well.” [1348]

“It’s always too late for sorries […] [1504]

“Nobody actually looks like what they really are on the inside. You don’t. I don’t. People are much more complicated than that. It’s true of everybody.” [1620]

“[…] Never enough of you all together in one place, so there wouldn’t be anything left that would think of itself as an ‘I.’ No point of view any longer, because you’d be an infinite sequence of views and of points …” [2111: bella spiegazione materialistica del sé o, se volete, dell’anima]

“There are pacts, and there are laws and there are treaties, and you have violated all of them.” [2302]

10 luglio 1943: lo sbarco in Sicilia e l’uomo che non c’era

Ricorre oggi il settantesimo anniversario dello sbarco anglo-americano in Sicilia.

Molti lo hanno ricordato e, pertanto, vi rinvio tranquillamente alla bella ricostruzione che Davide Maria De Luca ha pubblicato oggi su ilpost (Lo sbarco in Sicilia, 70 anni fa).

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A me interessa ricordare lo sbarco del 10 luglio per una diversa ragione. Completata la riconquista del Nordafrica da parte degli alleati, i nazisti temevano uno sbarco nel Mediterraneo, ma ignoravano se sarebbe avvenuto in Grecia, in Italia meridionale, in Sicilia o in Sardegna. I servizi segreti inglesi organizzarono una fantastica operazione di depistaggio, che aveva tra i suoi ideatori Ian Fleming (il futuro creatore di James Bond): il macabro nome di codice era «Operazione Carne Trita».

Io ne ho parlato, in questo blog, recensendo il romanzo di Ian McEwan (Ian McEwan – Sweet Tooth) e il bel libro di Ben Macintyre (Ben MacIntyre – Operation Mincemeat).

Il libro è stato tradotto in italiano negli Oscar Mondadori (L’uomo che non c’era. Come il controspionaggio inglese nascose a Hitler lo sbarco in Sicilia) e vi consiglio di leggerlo.

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Per stuzzicarvi l’appetito (nel caso le mie recensioni non vi fossero state sufficienti), ecco la presentazione dell’editore:

All’alba del 10 luglio 1943 le truppe alleate sbarcarono in Sicilia nel primo attacco alla “Fortezza Europa” in mano a Hitler. Un attacco destinato ad avere un grande successo e ad aprire una nuova, cruciale fase nelle operazioni belliche. Un vero trionfo, dovuto in buona parte a un uomo morto sei mesi prima, un “uomo che non c’era”. Attorno a lui venne costruita un’imponente rete di depistaggi, un vero e proprio imbroglio escogitato da un avvocato inglese, Ewen Montagu, e noto come “operazione Mincemeat”, senz’altro il più spettacolare, sfacciato e riuscito piano dissuasivo della Seconda guerra mondiale, volto a convincere i servizi informativi nazisti che il grande sbarco alleato nel Mediterraneo avrebbe avuto luogo in Grecia e non sulle coste siciliane. Nota fino a poco tempo fa in modo solo parziale, la vicenda è emersa in tutta la sua complessità solo recentemente, e in questo volume viene ricostruita grazie a documenti dei servizi segreti, fotografie, memoriali, diari dei protagonisti. Che raccontano una vicenda tanto avvincente e incredibile quanto vera.

Scoiattolo

Secondo il Vocabolario Treccani:

scoiàttolo s. m. [der. in –àttolo del lat. *scuriussciurus, dal gr. σκίουρος: v.sciuridi]. –

  1. Nome di varie specie di roditori della famiglia sciuridi, di medie dimensioni, arboricoli e diurni, con corpo slanciato, muso appuntito, occhi e orecchie grandi, lunga coda rivestita di pelo folto, tenuta rivolta verso l’alto. In partic. sono così chiamate le specie appartenenti al genere Sciurus, tra cui lo scoiattolo rosso(Sciurus vulgaris), comune in Italia nei boschi, di colore bruno rossiccio o nerastro, e lo s. grigio (Sciurus carolinensis), originario dell’America Settentr. ma oggi diffuso anche in alcune regioni europee, soprattutto in Gran Bretagna, di maggiori dimensioni e mantello color grigio bruno. Alla famiglia sciuridi appartengono inoltre gli s. giganti, del genere Ratufa, diffusi nelle foreste tropicali dell’India, Indocina e arcipelago della Sonda, mentre ad altre famiglie appartengono i varî roditori noti col nome di s. volanti, provvisti di un’ampia membrana, detta patagio, che si estende ai lati del corpo, fra gli arti anteriori e posteriori, e fra questi e la base della lunga coda, utilizzata per planare tra gli alberi.
  2. In similitudini e usi fig., con riferimento all’agilità e alla mobilità di cui lo scoiattolo (spec. quello rosso e quello grigio) è dotato: agileveloce come uno s.arrampicarsi come uno s.quel ragazzo è proprio uno s.gli Scoiattoli di Cortina, celebre gruppo di arrampicatori e guide ampezzane. ◆ Dim. scoiattolino.

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Parola di origine latina e greca dunque, con una transizione da σκίουρος a scuriussciurus abbastanza usuale. Sì, ma σκίουρος è una parola interessante, perché sarebbe l’unione di σκιά (ombra) e οὐρά (coda). Lo scoiattolo sarebbe dunque l’animale che si fa ombra con la coda: e ci può stare, come dicono qui a Roma.

Dal latino all’italiano ci si arriva attraverso il diminutivo (quindi scoiattolino è il diminutivo di un diminutivo: ricordatevene quando lo dite alla vostra ragazza): scurius → scuriatolus (attraverso l’aggettivo scuriatus).

In provenzale si è invece passati (sempre via diminutivi) da scurius a → scuriolus → squiriolus. Da cui il francese écureuil e l’inglese squirrel.

Naturalmente, se lo privi della bella pelliccia diventa uno scuoiattolo.

 

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Metropolitana di Roma, fermata Termini: Questa volta il secchio di plastica non basta

Ci siamo occupati molte volte della ristrutturazione del nodo Termini della metropolitana di Roma, iniziata nell’aprile del 2011 e inaugurata alla vigilia delle elezioni comunali del 26-27 maggio, segnalando – tra l’altro – la circostanza che a una pioggia appena abbondante c’erano infiltrazioni d’acqua.

Questo blog ha segnalato il problema quiquiqui e qui. Se ne è occupato anche il blog romafaschifo.com (ROMA FA SCHIFO: Il nuovo nodo MetroA\MetroB della Stazione Termini ancora deve inaugurare. In compenso già ci piove dentro. Ma di brutto eh!).

Il simbolo delle infiltrazioni nei mezzanini, per me, era diventato il secchio di plastica, unico segno di un intervento di chi dovrebbe gestire il servizio.

Piove sul bagnato

Piove sul bagnato

Temo che ieri, però, un secchio non sia stato sufficiente …

excite.it

… e neppure 2!

tgcom24.mediaset.it