Carte: La settimana di Internazionale

Spero che riportare integralmente un articolo, peraltro liberamente disponibile online, non violi troppe norme e, soprattutto, non dispiaccia all’autore. Se invece mi sbaglio, chiedo scusa a tutti e soprattutto a Giovanni De Mauro.

Carte
Ai giornalisti piace pensare di essere più bravi, svegli e intelligenti dei loro lettori. È una sciocchezza. L’intelligenza collettiva di una rete di persone è sempre superiore alle capacità di un singolo, per quanto preparato e competente. Con internet tutto è più facile. Ma l’intelligenza collettiva non è una novità. Nell’estate del 1942 Winston Churchill lanciò il più grande progetto cartografico della seconda guerra mondiale, l’operazione Benson. Si trattava di disegnare con la maggiore precisione possibile la carta della Normandia in vista dello sbarco delle truppe alleate. I ricognitori britannici cercavano di sorvolare le coste per fotografarle, ma la contraerea tedesca era micidiale. Allora la Bbc ebbe un’idea: chiese a tutti gli inglesi che erano stati in vacanza in Normandia di mandare le loro foto scattate sulle spiagge francesi. In una settimana arrivò un milione di foto. In un mese erano diventate dieci milioni. E furono fondamentali per la riuscita dello sbarco. – Giovanni De Mauro

L’articolo è sul sito di Internazionale, che vi consiglio di mettere tra i vostri segnalibri.

Un libro da leggere sull’argomento è The Wisdom of Crowds di James Surowiecki (sì, sono anche uno snob, ma non so davvero se è stato tradotto in italiano), di cui ho già parlato (Il bue di Galton e la democrazia. una modesta proposta).

Rilancio sui Dico

Sono fermamente contrario, perché il riconoscimento di diritti alle coppie di fatto apre la strada a una pioggia d’asteroidi sulle principali città del pianeta.

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Scare quotes

Se esiste una traduzione italiana, io non la conosco. Se qualcuno la sa, si faccia avanti e l’impariamo tutti. Se non esiste, vorrà dire che è uno dei pochi casi in cui siamo giustificati a usare un termine inglese.

Le scare quotes (letteralmente: “virgolette della paura”) fanno riferimento a un uso delle virgolette che non serve tanto a introdurre una citazione, a segnalare un termine tecnico, a riportare la traduzione di un termine straniero (come ho fatto qui sopra) o a fare riferimento al significante piuttosto che al significato (come faccio nel prossimo capoverso), quanto piuttosto a prendere le distanze dal termine usato. La presa di distanza può, volta per volta, segnalare il disaccordo implicito di chi scrive con la parola usata (Aspettami un “attimino”) o con il suo uso corrente (ad esempio, perché fortemente ideologico: Alla manifestazione sull’Iraq, i “pacifisti” hanno messo a ferro e fuoco il centro della città e i “benpensanti” ne hanno approfittato per scaricare la responsabilità sul governo), oppure semplicemente manifestare l’incapacità di trovare un termine migliore (Ti va di “chattare” con me?) o un uso inconsueto o ironico del termine (Marzano e Brunetta, con le rispettive consorti, hanno partecipato a un festino di sesso e cocaina su uno yacht in Costa Smeralda: d’altronde, non sono forse “liberoscambisti”?).

Spesso, nel linguaggio scritto e soprattutto parlato otteniamo lo stesso effetto aggiungendo “cosiddetto” o “tra virgolette”. Sta però entrando anche nel gesticolare italiano un gesto originariamente americano, che consiste nel mimare con due dita nell’aria, ai due lati della faccia, le virgolette. Così:

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La squadra 8

Dal trailer della prossima puntata (cito a memoria): “Allora diciamo che i miei scrupoli sono negoziabili…”

Proverbi pessimisti (4)

Alcuni mi hanno fatto notare che i miei post sono troppo lunghi. Idealmente, mi hanno detto, dovrebbero poter essere contenuti in una schermata. Convengo che leggere a video un testo troppo lungo è faticoso, ma anche i contenuti hanno le loro esigenze di svolgimento. Per i testi più lunghi, suggerisco di stamparli.

Oggi, per accontentarvi, scriverò soltanto testi brevissimi.

“Farsi venire il sangue amaro è brutto, ma è peggio avere il sangue dolce”, come diceva mio nonno che era diabetico.

Running the Voodoo Down

Philip Freeman (2005). Running the Voodoo Down. The Electric Music of Miles Davis. San Francisco: Backbeat Books. 2005.

Non lo raccomando. Destinato soltanto ai fanatici come me del Miles Davis elettrico (quello che fa storcerer il naso ai puristi), e una delusione anche per loro. Documentato, certo, ma le recensioni dei dischi brano per brano sono utili soltanto per consultazione occasionale. Le considerazioni socio-politiche sono sinceramente imbarazzanti: “ofelé fa el to mesté”, si dice a Milano.

Però tre cose le ho trovate lo stesso.

La prima è una considerazione semplice semplice, ma profonda: “In the CD age, practically all recorded music exists in pristine digital simultaneity” (p. 169). Vuol dire semplicemente questo, come ogni collezionista sa: che l’era del CD (e dell’MP3) completano il percorso già iniziato con il vinile. Gli interpreti sono spogliati della storicità della loro esecuzione, che non è più legata a un tempo e a un luogo, e li possiamo ascoltare tutti come contemporanei, e confrontarli immediatamente. Louis Armstrong, Dizzy Gillespie e Miles Davis sono semplicemente tre trombettisti diversi, non tre tappe della storia del jazz. E questo è vero anche nello sviluppo di un singolo musicista, è vero anche per il Miles Davis degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta.

La seconda è un’inaspettata citazione di Schopenhauer: “Si tratti di musica o di filosofia, di pittura o di poesia: l’opera del genio non è un oggetto da usare. Essere inutile rientra tra le caratteristiche delle opere di genio: è la loro patente di nobiltà. Tutte le opere dell’uomo esistono allo scopo di conservare o di facilitare la nostra esistenza, tranne quelle di cui stiamo ora parlando: esse sole esistono per se stesse e, in questo senso, possono essere considerate il fior fiore dell’esistenza, o il suo guadagno netto” (Arthur Schopehauer, Il mondo come volontà e come rappresentazione. Milano: Mondadori. 1989. p. 1246). Non penso di essere d’accordo, ma è una citazione che comunque mi piace riportare.

La terza è la constatazione, che condivido, che le registrazioni in studio di Miles Davis, soprattutto quelle dell’ultimo periodo (1981-1991), non rendono giustizia della musica che si godeva ai suoi concerti. Sono stato per la prima volta a un concerto di Miles Davis alla fine del 1970 o nella primavera del 1971, allla sala grande del Conservatorio di Milano. Non sapevo che cosa mi aspettava (il sabato prima avevo ascoltato Ray Charles); lui aveva una giacchetta sgargiante, rossa e gialla mi pare, e suonò per la maggior parte del tempo di spalle e con la tromba rivolta a terra. Uscii frastornato, sconcertato e innamorato di quella musica, così eccitante anche se diversa da quella che ascoltavo in quegli anni (e ascolto ancora). Da allora non ne sono più uscito. Poi sono stato a tutti i suoi concerti romani degli anni Ottanta, da quello sotto una tenda che segnava il suo ritorno sulle scene dopo sei anni di sesso e droga senza prendere in mano la tromba, all’ultimo, nel 1991, in una torrida serata di luglio allo stadio Olimpico (morì qualche mese dopo). Prima di lui suonò Pat Metheny, uscito distrutto dal confronto ravvicinato. Ma quello che ricordo con più piacere lo sentii una sera di luglio, sulle scale sotto il Palazzo della civiltà del lavoro. Ero in decima fila, seduto vicino a Nanni Moretti. Lottai contro un muro di suono e rimasi sordo per un giorno intero. Fu grandissimo ed ero felice.

Certo adesso mi toccherà comprare un altro po’ di dischi, compreso l’integrale dei suoi concerti al festival di Montreaux (1973-1991). 20 CD, un vero salasso. Ma tant’è.

Tchaikovsky – Sinfonia n. 5 in mi minore, op. 64

Sentita ieri sera all’Auditorium (sala Santa Cecilia), con l’orchestra dell’Accademia condotta da Christoph Eschenbach. Non lo avevo mai sentito dirigere (ha iniziato la carriera come pianista e ha 65-70 anni) e mi è piaciuto molto. L’orchestra l’ha seguito con un suono compatto e ricco sotto il profilo timbrico, tanto da suonare diversamente da come suona di solito. Anche l’agogica impressa all’esecuzione è stata notevole, soprattutto nel movimento iniziale della Sinfonia n. 4 in re minore, op. 120, di Schumann. Ma soprattutto mi ha impressionato la sua capacità di non essere convenzionale (le due sinfonie sono di esecuzione frequente, e càpita spesso di sentire una sorta di interpretazione routinaria); Eschenbach, invece, è riuscito a farci sentire particolari, strumenti, controcanti, picccole frasi, pur all’interno di quella massa sonora tesa e compatta di cui parlavo prima.

Forse, a conti fatti, l’interpretazione di Schumann gli è riuscita meglio di quella di Tchaikovsky; ma io amo Tchaikovsky più di Schumann (di quello sinfonico, almeno, perché quello pianistico è tutto un altro discorso).

Di qui il pretesto per questa nota. Ragazzi, se conoscete Tchaikovsky soltanto per Il lago dei cigni o Lo schiaccianoci (magari perché avete visto Fantasia di Walt Disney) e avete di lui l’immagine del compositore brillante, dalla melodia facile, tutto trine merletti e crinoline, allora è venuto il momento di cambiare opinione. Tchaikovsky è un grande musicista tragico, che si affaccia senza paura (ma con molte vertigini) sugli abissi del suo animo, e dunque dell’animo umano in generale. Per convincerne ascoltate, ma non una volta sola, la quinta e la sesta sinfonia.

Per iniziare, suggerirei l’interpretazione di Evgeny Mravinsky con la Filarmonica di Leningrado pubblicata dalla Deutsche Gramophon. Fatemi sapere.

Pseudonimo, eteronimo, avatar

Un pseudònimo (dal greco pseudo – falso – e ónoma – nome) è il “nome, diverso da quello reale, usato da uno scrittore, un poeta, un giornalista, un artista e simili che non voglia o non possa firmare le proprie opere con il vero nome” (Vocabolario Treccani).

Avatàr (dal sanscrito avatāra) è “in senso proprio, nel brahmanesimo e nell’induismo, la discesa di una divinità sulla terra, e in particolare ciascuna delle dieci incarnazioni del dio Visnù. Per estensione, nell’uso letterario, reincarnazione, ritorno, trasformazione e simili” (Vocabolario Treccani). La parola è molto utilizzata nel mondo virtuale (web, chat, giochi di ruolo): in molte ambientazioni, saghe e giochi del filone fantasy, avatar ha “ereditato” il significato originale, indicando l’incarnazione fisica di esseri celesti o trascendentali; nella realtà virtuale come nei videogiochi (e soprattutto nei giochi di ruolo), l’avatar identifica il personaggio controllato dal giocatore o una immagine che lo identifica; nei programmi di instant messaging, nei forum e nelle chat, l’avatar indica un’immagine (come una foto o un disegno) che identifica un utente insieme al proprio pseudonimo (nick-name) (Wikipedia)

Eterònimo (dal greco étero – altro – e ónoma – nome) è il “nome d’altro autore sotto cui si cela l’autore vero” (Vocabolario Treccani). Il termine è assurto a notorietà grazie all’opera dell0 scrittore e poeta portoghese Fernando Pessoa, che creò numerose identità per scrivere poesie e romanzi. La differenza tra uno pseudonimo e un eteronimo è questa: lo pseudonimo sostituisce il vero nome dell’autore, che rimane sconosciuto; l’eteronimo coesiste con l’autore, formandone una sorta di estensione del carattere, vevendo apparentemente di vita propria, con uno stile spesso diverso da quello dell’ortonimo (Wikipedia).

A questo punto, il significato di ortònimo dovrebbe essere facile.

Attenti a non confondere l’eteronimìa con l’eteronomia (che è il contrario dell’autonomia!).

Boris Limpopo è uno pseudonimo che aspira a diventare eteronimo.

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L’inganno del valori

Vorrei invitarvi a leggere l’editoriale di Barbara Spinelli, pubblicato oggi su La Stampa.

Non aggiungo miei commenti, ma mi limito ad attirare la vostra attenzione con lo pseudo cut-up di alcune frasi, con cui concordo pienamente e le cui implicazioni mi fanno rabbrividire:

“La politica dei valori è un termine che rispetta poco il principio di non contraddizione – per definizione la politica governa valori discordanti.”

“Di laicità si discute molto, e spesso a sproposito: viene descritta come un’ideologia dello scetticismo, del relativismo. […] Questa tendenza a identificare lo Stato laico con una filosofia serve lobby e disegni di potere coltivati in nome di culture religiose. Se la laicità è una filosofia come le altre, allora tutte le filosofie, religiose o no, possono governare la città, imponendo o impedendo leggi.”

“La laicità non è un’ideologia. È un metodo che consente a individui di diversa cultura, a credenti e non credenti, di convivere senza distruggersi. È lo strumento che permette di separare la politica da fede e cultura, e di evitare che la sovranità sia spartita tra i due poteri, temporale e spirituale.”

“Affermatasi lungo i secoli, l’autonomia della politica da cultura e religione vacilla.”

“Assistiamo alla restaurazione di grandi colpe, grandi peccati, e alla sete di punizione che la restaurazione promette.”

“Vengono fabbricati anche capri espiatori per questa politica intimista: lo straniero, l’omosessuale, perfino il malato. Il benefico tabù che dai tempi di Auschwitz protegge l’ebreo non vale, singolarmente, per le altre vittime dei Lager: omosessuali, zingari, malati psichici.”

Continuate a dormire, amici di Boris, ma attenti agli incubi.