Don’t worry, be happy: Bobby McFerrin, Maria Popova, Valeria Pini e la cialtroneria di Repubblica.it

La Repubblica di oggi, 8 giugno 2012, nella sezione Scienze (!!!) pubblica un articolo dedicato a un’analisi della famosissima canzone di Bobby McFerrin “Don’t worry, be happy”:

“Don’t worry, be happy”
Questa canzone ci salverà

Il brano di McFerrin, uscito nel 1988, da più di 20 anni è un vero “inno alla felicità”. La rivista scientifica Brain Pickings svela per la prima volta quali sono i punti di forza di questo testo che trasmette impulsi positivi al nostro cervello e agisce quasi come un medicinale per l’umore

di VALERIA PINI

Il resto dell’articolo lo potete leggere qui: “Don’t worry, be happy” Video Questa canzone ci salverà – Repubblica.it.

Intanto, è comunque un’occasione per riascoltare la canzone di Bobby McFerrin:

Perché questo articolo mi sembra un esempio preclaro di cialtroneria? Proverò a spiegarlo per punti, aiutandomi con qualche citazione dal testo dell’articolo e da altre fonti.

Maria Popova

motherjones.com / Maryana Ferguson

  1. Cominciamo dall’occhiello: «La rivista scientifica Brain Pickings» – che i lettori abituali di questo blog dovrebbero ormai aver imparato a conoscere – non è affatto una rivista scientifica: è un blog che ha anche (non: è identiacemnte eguale a) una newsletter settimanale che viene inviata agli abbonato ogni domenica via e-mail e che contiene i migliori post della settimana (secondo il parere della curatrice, Maria Popova). Non è necessario essere giornalisti investigativi per scoprirlo: basta leggere il colophon del sito.
  2. «Maria Popova, neurologa e direttrice del giornale statunitense Brain Pickings»: che Brain Pickings non sia un giornale lo abbiamo appena visto. E allora, non dovrebbe nemmeno stupirci che Maria Popova non sia una neurologa. Nata in Bulgaria 27 anni fa, lei stessa si autodefinisce sul suo profilo twitter @brainpicker «Interestingness hunter-gatherer obsessed with combinatorial creativity». Luisa Carrada, che cura il blog del mestiere di scrivere, segue da tempo la Popova e il 22 dicembre 2011 ha pubblicato un bel post biografico che vi invito a leggere. Per i più pigri riporto l’essenziale: «È arrivata negli Stati Uniti dalla Bulgaria per fare l’università, ma invece di prendere l’MBA, come sognavano per lei i suoi familiari, si è districata tra mille lavoretti. Ha ancora un visto e fa ancora molti lavori, anche se migliori e sicuramente più remunerati di prima. […] Content curator, dicevamo. La Popova scova, naviga, legge, assembla e segnala. Quello che facciamo tutti in rete, dai post ai tweet. Quello che ci mette lei è quella che chiama la “creatività combinatoria”, cioè la sua capacità di assemblare in un solo post cose anche molto diverse, ma con un filo, uno sguardo, una prospettiva particolare che le unisce. E di saperle raccontare attraverso la scelta di immagini bellissime e un linguaggio evocativo, personale e raffinato. […] è considerata la regina della content curation e grazie al successo di Brain Pickings scrive oggi su testate come The Atlantic e Wired.» Una lunga intervista a Maria Popova, di cui anche Luisa Carrada è (esplicitamente) debitrice è comparsa sul numero di gennaio/febbraio 2012 di Mother Jones: Maria Popova’s Beautiful Mind. Ammetto che per scoprire questo occorreva un quid in più di buona volontà e di giornalismo investigativo.
  3. Un lettore frettoloso potrebbe avere l’impressione che Valeria Pini si sia data da fare per parlare direttamente con Maria Popova, magari non sollevando il suo colloso posteriore, ma almeno con una telefonata. All’inganno contribuiscono le numerose virgolette e frasi come «dice Popova», «spiega Popova», «conclude Popova». Quanto alle frasi tra virgolette, non si tratta di citazioni letterali (ancorché in traduzione) del post originario di Brain Pickings, ma di un abile e fantasioso montaggio prossimo ai cut-up di William Booroughs.
  4. Ma la cosa che trovo in assoluto più stupefacente è che il post di Maria Popova da cui Valeria Pini prende spunto per il suo articolo odierno è del 23 settembre 2011, 9 mesi fa! Se volete leggerlo in versione originale, ecco qui il link: Bobby McFerrin’s “Don’t Worry, Be Happy”: A Neuropsychology Reading. Così giudicate da soli (dal momento che, a detta della stessa Popova, la creatività è combinatoria) anche quanto l’intervento di Valeria Pini abbia aggiunto e quanto abbia sottratto all’originale.

Lascerò il commento finale a Cochi e Renato (e Jannacci) [l’avevo già pubblicato il 13 ottobre 2009, ma là il link a YouTube è stato rimosso]:

Poteri forti: la prima volta

La locuzione “poteri forti” non è sempre esistita. L’ha inventata Pinuccio Tatarella, deputato di Alleanza nazionale, all’epoca del 1° governo Berlusconi, di cui era vice-presidente del consiglio, il 10 agosto 1994:

I poteri forti sono: la Corte Costituzionale, il Csm, Mediobanca, i servizi segreti, la Massoneria, l’Opus Dei, Bankitalia, i gruppi editoriali con le loro intese, la grande industria privata.

Il contesto è un’intervista realizzata da Dario Cresto-Dina e pubblicata su La Stampa. La potete leggere integralmente qui: Archivio – LASTAMPA.it.

Archivio - LASTAMPA.it

Omaggio a Ray Bradbury: 11 citazioni

  1. Love what you do and do what you love. Don’t listen to anyone else who tells you not to do it. You do what you want, what you love. Imagination should be the center of your life.
  2. We have our Arts so we won’t die of Truth.
  3. If you know how to read, you have a complete education about life, then you know how to vote within a democracy. But if you don’t know how to read, you don’t know how to decide. That’s the great thing about our country — we’re a democracy of readers, and we should keep it that way.
  4. That’s the great secret of creativity. You treat ideas like cats: you make them follow you.
  5. [S]tarting when I was fifteen I began to send short stories to magazines like Esquire, and they, very promptly, sent them back two days before they got them! I have several walls in several rooms of my house covered with the snowstorm of rejections, but they didn’t realize what a strong person I was; I persevered and wrote a thousand more dreadful short stories, which were rejected in turn. Then, during the late forties, I actually began to sell short stories and accomplished some sort of deliverance from snowstorms in my fourth decade. But even today, my latest books of short stories contain at least seven stories that were rejected by every magazine in the United States and also in Sweden! So … take heart from this. The blizzard doesn’t last forever; it just seems so.
  6. Ours is a culture and a time immensely rich in trash as it is in treasures.
  7. I want your loves to be multiple. I don’t want you to be a snob about anything. Anything you love, you do it. It’s got to be with a great sense of fun. Writing is not a serious business. It’s a joy and a celebration. You should be having fun with it. Ignore the authors who say ‘Oh, my God, what word? Oh, Jesus Christ…,’ you know. Now, to hell with that. It’s not work. If it’s work, stop and do something else.
  8. I’ve never worked a day in my life. I’ve never worked a day in my life. The joy of writing has propelled me from day to day and year to year. I want you to envy me, my joy. Get out of here tonight and say: ‘Am I being joyful?’ And if you’ve got a writer’s block, you can cure it this evening by stopping whatever you’re writing and doing something else. You picked the wrong subject.
  9. I never consciously place symbolism in my writing. That would be a self-conscious exercise and self-consciousness is defeating to any creative act. Better to get the subconscious to do the work for you, and get out of the way. The best symbolism is always unsuspected and natural. During a lifetime, one saves up information which collects itself around centers in the mind; these automatically become symbols on a subliminal level and need only be summoned in the heat of writing.
  10. Even at [age eleven], I was beginning to perceive the endings of things, like this lovely paper light. I had already lost my grandfather, who went away for good when I was five. I remember him so well: the two of us on the lawn in front of the porch, with twenty relatives for an audience, and the paper balloon held between us for a final moment, filled with warm exhalations, ready to go.
  11. Everyone must leave something behind when he dies, my grandfather said. A child or a book or a painting or a house or a wall built or a pair of shoes made. Or a garden planted. Something your hand touched some way so your soul has somewhere to go when you die, and when people look at that tree or that flower you planted, you’re there.

Adesso potete (dovete) fare 2 cose:

  1. scegliere quali delle citazioni vi piace di più
  2. andare a leggere su Brain Pickings (Remembering Ray Bradbury with 11 Timeless Quotes on Joy, Failure, Writing, Creativity, and Purpose | Brain Pickings), da cui le ho estratte, l’esatto riferimento all’opera o all’articolo o all’intervista da cui sono tratte
  3. meditare

Buon divertimento e buona meditazione.

Ray Bradbury

wikipedia.org

E a te addio, vecchio gufo.

Il vegano e il talebano: errori di scienza, di logica e di etica

Oggi mi è capitato di leggere (grazie a Facebook: e poi scrivono che il web e i social network ci fanno leggere e frequentare soltanto persone e idee eguali alle nostre!) un articolo che mi ha letteralmente fatto infuriare. Ma poi, dopo un bel respiro profondo, ho provato a pensare e adesso provo a condividere con voi le mie riflessioni.

Intanto, giusto per darvi un idea, il titolo e l’occhiello dell’articolo e il link alla pagina dove potete andarvelo a leggere per intero:

Terremoto in Emilia: “io il Parmigiano Reggiano non lo compro”

Il terremoto che ha messo in ginocchio l’Emilia ha colpito anche i magazzini di Parmigiano Reggiano. Negli ultimi giorni si sono dunque moltiplicati gli appelli per salvare il formaggio ‘terremotato’ e sostenere i caseifici che producono il prestigioso parmigiano. Eppure c’è chi, come Filippo Schillaci, ha deciso di non rispondere a questo appello, in nome di “una solidarietà di ordine superiore”, quella verso il pianeta. (ilCambiamento.it)

Parmigiano

ilcambiamento.it

Non conosco Filippo Schillaci (e non ho neppure tanta fretta di conoscerlo, per la verità), ma l’ho googlato e posso condividere con voi quel poco di autobiografico che scrive qui:

È nato a Messina nel 1960. Lavora in part time alla seconda università di Roma. Dal 1996 vive in campagna nei dintorni di Roma autoproducendo buona parte del proprio cibo e utilizzando le risorse rinnovabili del luogo (acqua piovana, energia solare).
Collabora con il Movimento per la Decrescita Felice nel cui ambito si occupa di impatto ambientale dell’alimentazione. I suoi interessi teorici sono orientati prevalentemente sulla critica dell’antropocentrismo e sulla nonviolenza.

Il ragionamento che sviluppa Schillaci è abbastanza lineare (se non vi fidate del mio riassunto – che vi risparmia ad esempio la facile trappola emotiva che equipara il parmigiano-reggiano ai SUV – andate alla fonte):

  1. In nome della solidarietà con i produttori danneggiati dal terremoto vi si chiede di comprare e consumare il parmigiano-reggiano.
  2. La solidarietà verso i terremotati sarebbe anche una buona cosa, relativamente parlando.
  3. Ma non lo è più quando contrasta con una «solidarietà di ordine superiore», «quella verso il pianeta» [il grassetto è di Schillaci].
  4. «Il male, diceva Lanza del Vasto, consiste semplicemente nell’operare per il bene di una parte.» [se, come me fino a qualche minuto fa, avete le idee confuse sui detti di Giuseppe Giovanni Luigi Enrico Lanza di Trabia-Branciforte vi invito a farvene almeno un’idea su wikipedia e sui link raggiungibili da lì].
  5. «Parliamo innanzi tutto di impatto ambientale: produrre qualsiasi cosa costa, no, non in termini economici ma in termini di sottrazione di risorse alla biosfera.» [il grassetto è sempre di Schillaci].
  6. L’industria casearia «è fra tutte le attività umane una di quelle che più stanno devastando la Terra.»
  7. Per di più, il formaggio fa malissimo: «mangiare formaggio significa letteralmente sciogliere le ossa nelle urine.»
  8. Convertitevi al veganesimo, o comunque si chiami, e andate poi a predicarlo come sto facendo io adesso [lo ammetto, non sono le parole letterali di Schillaci, ma un riassunto di quello che scrive nella seconda metà dell’articolo. Hanno se non altro il vantaggio di parafrasare Marco 1, 20: «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”.»)
  9. La conclusione merita di essere riportata integralmente: «E cosa fare allora per i poveri caseificatori che hanno subito un così duro colpo? Ho una modesta proposta: potremmo fare una colletta per aiutarli a convertire le loro aziende in qualcosa di più sostenibile. Ad esempio una fabbrica di SUV. Sì, proprio quelle orrende, mastodontiche, grottesche cassapanche a motore che costituiscono la più recente, ridicola ed estrema degenerazione del consumismo su gomma. Faranno ancora danni producendo SUV, certamente, ma di meno.»

Non la voglio fare troppo lunga e mi soffermerò su alcuni punti che, spero, contribuiranno a chiarire il titolo che ho voluto dare a questo post.

Errori di scienza. Scrive Schillaci: «produrre qualsiasi cosa costa, no, non in termini economici ma in termini di sottrazione di risorse alla biosfera.» Qui si confondono 2 piani, che invece sarebbe meglio – per chiarezza – tenere distinti. Il primo è quello fisico, quello che Schillaci chiama piano della sottrazione di risorse alla biosfera. Su questo non c’è scampo. È scientificamente provato dal secondo principio della termodinamica (“In un sistema isolato l’entropia è una funzione non decrescente nel tempo” o, come diceva qualcuno, “è facile fare una frittata rompendo le uova, molto più difficile rifare le uova a partire dalla frittata”): la tendenza generale può essere invertita soltanto localmente, in contesti lontani dall’equilibrio, ma al costo comunque di un aumento dell’entropia complessiva del sistema. Questo è esattamente quello che fanno gli esseri viventi: nuotare per un po’ contro la corrente dell’entropia sottraendo risorse alla biosfera. Quando si smette di farlo si è tecnicamente morti. Quindi: anche i vegani vivi sottraggono risorse alla biosfera. Forse meno di me, questo lo posso ammettere (ma non concedere).

Dunque, quando si parla di termodinamica (cioè di pianeta, di risorse, di energia e di “biosfera”) il gioco non solo non è a somma nulla, ma è a somma negativa. Quando si parla di economia il discorso è diverso: la grande invenzione dell’economia, che ha cambiato la storia umana (e anche la storia della vita sulla terra) è che sono possibili giochi a somma positiva. Più esattamente, che alla radice dello scambio economico c’è un guadagno per entrambi i giocatori: se io so fabbricare gli ami ma sono una pippa a pescare, e tu sai pescare ma non sai fabbricare gli ami, piuttosto che farci ognuno gli ami e la pesca da sé (“producendo” tot ami e tot pesci), ci conviene scambiare ami contro pesci e staremo meglio entrambi (più ami e più pesci di prima da dividere tra noi). Questo, in sé e per sé, non c’entra nulla con la sottrazione di risorse alla biosfera (comunque inevitabile). Quello che misura il calcolo economico (la vituperata crescita e il vituperato PIL) è l’aumento di “cose consumabili” (pesci, ami, beni, servizi, tutto il cocuzzaro con cui anche Schillaci vive e prospera) reso possibile dal “combinato disposto” di divisione del lavoro e scambio.

Certo, nell’operare economico (divisione del lavoro + scambio) si consumano risorse (quello che Schillaci chiama sottrazione di risorse alla biosfera, e che è dizione imprecisa, perché anche la biosfera – come insieme dei viventi – sottrae risorse alla parte non-biosfera del “sistema isolato” Terra): ma questo è vero di qualunque processo biologico. Il problema, come ci hanno detto fino alla noia, è quello della sostenibilità: cioè il consumo di risorse deve trovare un limite nella capacità del sistema di riprodursi. Fin qui siamo, penso, tutti d’accordo. Il che non toglie che confondere questi 2 piani è un errore di logica.

OK. Andiamo avanti però. Il formaggio è una brutta cosa (oltre che perché scioglie «le ossa nelle urine») perché l’industria casearia, e quella zootecnica su cui si basa, sono attività umane tra le più devastanti per l’ambiente. Sono anche, però, tra le attività umane quelle – assieme all’agricoltura – che ci hanno permesso, quasi 10.000 anni fa, di passare da una specie di cacciatori-raccoglitori, a una specie di agricoltori-allevatori. Cosa evidentemente bruttissima, almeno per la metà allevatori, ma che ci ha dato la possibilità di crescere da qualche decina di migliaia di uomini del paleolitico ai 7 miliardi di oggi. E anche le città, la scrittura e – in ultima istanza – l’elettricità e il computer su cui Schillaci scrive. A meno che non abbia uno schiavo o un servo che gli trascriva tutto quello che pensa e detta. E non è una battuta: il progresso c’è stato, e non è solo quantitativo (la crescita demografica) ma anche qualitativo (oggi ci sono tante diseguaglianze di fatto, ma almeno in linea di principio siamo tutti eguali e dotati di pari opportunità; non così, nella maggior parte dei Paesi occidentali, ancora 200 anni fa: curioso che i nostalgici dell’arcadia del Settecento inglese si vedano sempre signorotti locali e mai contadini indentured).

E già che ci siamo a fare esercizi di ucronia distopica, vale forse la pena di accennare che – secondo alcune ricostruzioni accreditate dell’evoluzione umana (per una estremamente sintetica si può vedere il capitolo 5. di The Social Conquest of Earth di Edward O. Wilson) – il genere Homo si è separato dai suoi antenati come l’Ardipithecus quando la sua dieta è diventata parzialmente carnivora. Proprio perché la carne contiene più energia per grammo dei vegetali, una volta che un carnivoro ha individuato evoluzionisticamente una nicchia ecologica, mantenerla costa meno energia. E meno energia per sopravvivere significa più energia per “scoprire” quello che via via ci ha fatto umani: la cooperazione nella caccia, il gruppo plurigenerazionale, il fuoco e la cottura del cibo, il rifugio stabile e via via tutto quello che ci fa umani.

La nostra evoluzione sarebbe dunque basato su un “peccato originale”, quello di cominciare a consumare carne. Produrre carne, ci ricorda Schillaci, “costa di più in termini di sottrazione di risorse”. Ma attenzione, anche un vegano produce carne: la propria. Trasforma quello che mangia, al netto di quello che elimina con il metabolismo, in muscoli, ossa, tessuti animali. È un lavoro: costa tempo ed energia. Quello che fa il carnivoro è “esternalizzare” parte di questo processo produttivo: lo fa fare all’erbivoro e si appropria dei pregiati elementi nutritivi della sua carne, pregiati perché meno costosi per il carnivoro. Il che significa, per il carnivoro, risorse di tempo ed energie liberate dalla necessità di brucare dalla mattina alla sera (ecco perché le mucche ruminano dalla mattina alla sera e il vostro gatto passa il tempo a poltrire).

Si può tornare indietro e scegliere à la carte? Mi prendo l’evoluzione da Ardopithecus a Homo ma senza toccare carne? Mi prendo la vita di gruppo ma non le rivalità tribali sanguinose tra maschi e tra gruppi? Mi prendo l’agricoltura ma non l’allevamento? Mi prendo l’Arcadia ma non la scrofola e il rachitismo? Temo proprio di no. Temo che, ancorché non preordinata da nessun grande piano divino, la strada che abbiamo seguito nel “labirinto dell’evoluzione” (ancora Wilson) sia un processo ergodico.

E l’etica – dirà qualcuno – avevi promesso di giustificare il titolo del post. L’etica entra in gioco quando entra in gioco il proselitismo (di Schillaci, in questo caso, ma più in generale dei vegani, e dei vegetariani, e dei propugnatori più o meno felici della decrescita). Perché io sono tollerante, e chi non vuol mangiare la carne o il parmigiano è liberissimo di farlo. Ma quando mi dice che dovrei farlo anch’io e dovrebbero farlo tutti un po’ mi infastidisco. E penso alle conseguenze. Siamo 7 miliardi di Homo sapiens sapiens (OK, chi sta bene e chi sta male, chi ha e chi non ha, obesi e denutriti: qui stiamo parlando di una popolazione, non a rischio di estinzione e anzi in crescita) e lo siamo perché c’è stato quello che prima ho chiamato progresso economico. Compresa l’agricoltura intensiva (ancora di recente la rivoluzione verde) e la zootecnia intensiva. Facciamo un esperimento mentale. Diamo retta alla proposta di eliminare i metodi produttivi più costosi in termini di sottrazione delle risorse. Fatto. Meno produzione agricola e niente carne e formaggio ( e anche niente pesce). Fatto. Non c’è da mangiare per tutti. Chi si sacrifica? Facciamo una grande lotteria? O lasciamo che decida l’economia, che tanto si sa già chi perderebbe?

A proposito, se i vegani volessero chiudere un occhio, in questa fase di transizione in cui alcuni miliardi di umani sono destinati a morire d’inedia, ci sarebbe la soluzione del cannibalismo. È già successo, sapete, anche se soltanto su piccola scala, quando in alcune isole del Pacifico (come Mangaia) la produzione agricola e il pescato divennero insufficienti.

Quanto all’esperimento che Schillaci propone nella conclusione del suo articolo – trasformare i caseifici in fabbriche di SUV – sappiano i lettori che qualcosa di simile fu tentato, nella Cina maoista: costò, si stima, tra i 14 e i 43 milioni di morti per fame. Sintetizzo da Wikipedia.

Grande balzo in avanti è anche il nome che in origine fu dato al secondo piano quinquennale, previsto per gli anni 1958-1963. Dopo il suo fallimento, il nome si riferisce ai primi tre anni del periodo. […]
L’idea centrale consisteva in uno sviluppo rapido e parallelo di agricoltura e industria, in modo da evitare l’importazione dall’estero di macchinari pesanti, finanziando il settore industriale attraverso uno sfruttamento di massa del lavoro a basso costo, garantito dall’enorme disponibilità di manodopera contadina.
Gli appezzamenti privati furono aboliti e furono introdotte mense collettive. Il Politburo si riunì ad agosto e stabilì che le comuni sarebbero diventate la nuova forma di organizzazione economica e politica della Cina rurale. Per la fine del 1958, furono create 25.000 comuni, ognuna delle quali contava in media 5.000 famiglie. Le retribuzioni in denaro furono sostituite con punti lavoro. Le comuni erano relativamente autosufficienti: a fianco dei campi agricoli, sorsero piccole industrie, scuole e organizzazioni militari.
Mao considerava il grano e l’acciaio come i pilastri portanti dell’economia e dichiarò che la Cina avrebbe raggiunto l’Inghilterra in 15 anni, nella produzione di acciaio. Il Politburo stabilì che la produzione di acciaio sarebbe dovuta raddoppiare in un anno, soprattutto grazie all’introduzione di piccole fornaci “da cortile”.
Zeng Xisheng, primo segretario provinciale dell’Anhui, mostrò a Mao nel settembre del 1958 una di queste fornaci presso Hefei. L’unità dichiarò che l’acciaio così prodotto era di elevata qualità (sebbene fosse stato probabilmente prodotto altrove). Mao incoraggiò la creazione di piccole fornaci in ogni comune e quartiere cittadino. Enormi sforzi furono richiesti a contadini, operai e singoli cittadini, al fine di produrre acciaio a partire da rifiuti e scarti di metallo. L’energia necessaria per alimentare le fornaci fu ricavata tagliando gli alberi.
Per raggiungere le quote di produzione stabilite, la pressione sulla popolazione fu molto elevata, soprattutto sui contadini: gli oggetti più svariati, dalle reti dei letti agli utensili da cucina (ritenuti ormai inutili a causa dell’obbligo di mangiare alla mensa comune) furono requisiti e destinati alla fusione, mobili, porte e finestre furono sottratti per essere bruciati. Decine di milioni di contadini (60 milioni secondo alcune fonti) furono allontanati dai lavori agricoli per produrre acciaio, così come gli operai, gli insegnanti e addirittura il personale degli ospedali.
Come avrebbe potuto prevedere un qualunque tecnico con minime nozioni di metallurgia, l’acciaio prodotto nelle fornaci “da cortile” si rivelò inutilizzabile. Ad ogni modo, la mancanza di fiducia negli intellettuali, allontanati nel 1957, e la fede ideologica nel “potere delle masse”, condussero Mao a spingere verso un progetto sconsiderato senza consultare tecnici ed esperti. L’esperienza della Campagna dei cento fiori impedì ogni accenno di dissenso.
[…] Secondo il suo medico privato, Li Zhisui, Mao visitò una tradizionale acciaieria in Manciuria nel gennaio del 1959 e constatò che solo una grande fabbrica alimentata a carbone è in grado di produrre acciaio di qualità. Egli decise comunque di non bloccare il progetto delle piccole fornaci per non soffocare l’”entusiasmo rivoluzionario delle masse”. […]
Fra il 1959 e il 1962 ebbe luogo una gravissima carestia che colpì l’intero paese provocando decine di milioni di morti. La cifra ufficiale riconosciuta in Cina è di 14 milioni, ma gli studiosi forniscono stime dai 20 ai 43 milioni. Nei primi anni ’80, Judith Banister, impiegata del Governo USA, pubblicò un influente articolo in “China Quarterly”, diffondendo fra i media statunitensi le sue stime di 30 milioni di morti.
Sia all’interno del Partito Comunista che fra gli studiosi cinesi e occidentali, esistono due linee di pensiero che attribuiscono la principale causa della carestia rispettivamente ai disastri naturali o alla politica del Grande Balzo.
Il periodo 1959-1962 fu inizialmente conosciuto come “I tre anni difficili” o “I tre anni di disastri naturali”, nome attribuito dal Partito per sottolineare l’attribuzione di responsabilità alle condizioni climatiche, assolvendo il Partito stesso. Numerosi ufficiali locali furono uccisi in esecuzioni pubbliche per aver diffuso informazioni errate. […]
Successivamente, numerosi autori hanno considerato l’errore umano come principale causa della carestia. Un articolo del Times pubblicato il primo dicembre 1961 attribuì le cause della carestia, così definita da molti giornali occidentali mentre Mao parlò di semplice “periodo di scarsità”, alla pianificazione politica invece che alle condizioni climatiche. Il 27 giugno 1981, il governo cinese ha precisato che la carestia fu dovuta “alla cattiva comprensione delle leggi dello sviluppo economico e dei fondamentali essenziali dell’economia cinese […] al fatto che il compagno Mao Zedong insieme a molti compagni dirigenti … avevano perso la testa per i successi riportati […] e volevano ottenere risultati immediati e portare all’estremo, il ruolo dei fattori soggettivi“.
La dislocazione di milioni di contadini per la produzione di acciaio e per le opere idrauliche, provocò in alcune aree l’abbandono dei raccolti. La campagna di eliminazione dei quattro flagelli e in particolare l’eliminazione dei passeri, causò lo sviluppo di parassiti che danneggiarono i raccolti.
Sebbene i raccolti si fossero ridotti, i quadri locali, sotto le forti pressioni dalle autorità centrali, affinché riportassero esiti positivi del Grande balzo, entrarono in competizione fra loro nell’annunciare raccolti eccezionali ed esagerati. […]
La razione alimentare giornaliera fu ridotta, sia nelle campagne che nelle città, ma fu nelle campagne che si raggiunse un livello di carestia gravissima. La distribuzione geografica della carestia fu sensibilmente diversa rispetto a quella delle carestie di origine naturale che storicamente colpivano la Cina. Nel 1960, furono colpite le province che adottarono le direttive di Mao con maggior enfasi (Anhui, Gansu, Henan); il Sichuan, una delle più popolose, conosciuta come “il granaio del cielo” per la sua fertilità e raramente colpita dalle carestie, soffrì il maggior numero di morti a causa dello zelo con cui il leader provinciale Li Jinquan promosse il Grande balzo.

Tra i 14 e i 43 milioni di morti per fame.

Potremmo finire qui, ma ho un’ultima cosa, un ultimo sassolino da togliermi dalla scarpa: Quella frase di Lanza del Vasto, così isolata, non significa nulla. Se io, operando il bene di una parte, non ne danneggio nessun’altra, non faccio il male. Anzi, Nella vita reale, le situazioni in cui si può migliorare la condizione di una parte senza peggiorare quella di nessun altro sono da perseguire attivamente, finché si giunge a un’allocazione delle risorse tale che non si può migliorare la condizione di un soggetto senza peggiorare la condizione di almeno un altro (noi economisti le chiamiamo di ottimo paretiano). Una fàcilata, sotto il profilo etico. I problemi cominciano, nell’imperfetta vita reale, quando si è costretti a scegliere tra un bene e un male, o tra due mali di diversa entità, o di diversa natura. Per questi casi, ogni aiuto è ben accetto. Come quello proposto nel 1939 da una coppia di economisti, Nicholas Kaldor e John Richard Hicks, con il loro criterio di efficienza (o di compensazione), che può essere applicato anche nei casi in cui un ottimo paretiano non esiste: una modificazione nell’allocazione delle risorse è efficiente se il benessere ottenuto da alcune componenti supera le perdite di benessere subite da altri componenti, ed essi sono compensati delle perdite subite da coloro che sono stati avvantaggiati dalla nuova allocazione.

Il coprifuoco dei gatti giapponesi

Una delle poche parole giapponesi che so è neko, che significa gatto. E so anche che i giapponesi adorano i gatti: anche Hello Kitty (ハローキティ Harō Kiti) è nata lì, nell’ormai lontano 1974.

Con tutto questo, a Tokyo non è facile poter tenere un gatto in casa: gli appartamenti sono piccoli e gli affitti esosi; spesso si lavorano orari impossibili, cui si aggiungono tempi dedicati al tragitto casa-lavoro-casa per noi inconcepibili; per di più, spesso i contratti d’affitto vietano esplicitamente di tenere animali domestici in casa.

Ecco allora nascere i cat café (猫カフェ): il primo apre a Osaka nel 2004; un anno dopo, il primo di Tokyo è il Neko no Café. Secondo il Ministero dell’ambiente nipponico, i cat café sono attualmente 150 in tutto il Paese, e almeno 25 a Tokyo.

Cat café

theatlanticwire.com

Andare in un cat café e giocare con i gatti costa 1500 ¥ l’ora (circa 15 €) – caffè e bevande non incluse.

I cat café sono un po’ come i locali dove operano le entreneuse: i gatti hanno tutti un nome, e sono elencati su un book con tanto di fotografia. I clienti hanno delle preferenze esplicite, e possono comprare loro dei croccantini al posto dello champagne. Non si possono prendere in mano o in braccio i gatti, ma se loro vengono da te e si strofinano o ti vengono in grembo li puoi lasciar fare. I minorenni (per la verità, i bambini e le bambine con meno di 13 anni) non possono entrare. I gatti (come le entreneuse) fanno perfino i turni: al Calico Cat Café, aperto dal 2009 nella centrale Shinjuku di Tokyo, in una tipica serata 53 gatti si mescolano ai clienti nei due piani del locale, mentre altri 40 riposano nel giardino sul retro.

Ma tutto questo è destinato a finire. Il 1° giugno è entrata in vigore la Legge per la gestione e il benessere degli animali, che vieta di vendere ed esporre animali, compresi cani e gatti, dopo le ore 20: il timore è che gli animali, chiusi in piccole gabbie ed esposti al caldo e alla luce abbagliante, possano soffrire gravemente. La lobby dei cat café è riuscito a ottenere 2 ore di più, fino alle 22. Ma finora erano aperti fino all’1 di notte, e si riempivano soltanto la sera, con una clientela composta soprattutto di giovani impiegate. Adesso, si teme che il coprifuoco possa portare alla chiusura dei cat café e alla crescita del randagismo.

La fonte di questa storiella sui gatti è un articolo di Atlantic Wire (Goodnight Kitty: Curfew Curtails Tokyo’s Cat Cafés).

Il magico mondo delle entreneuse ce lo ricordano invece, a modo loro, I Gufi:

Si chiamava Ambroeus
e faceva l’entreneuse
in un trani con balera
proprio in fondo a Via Marghera

Aprire una bottiglia di birra con un giornale

Le istruzioni vengono, tramite Lifehacker (Open a Beer Bottle with a Newspaper.) dal sito Instructables (How to open a beer bottle with a newspaper).

Si tratta di piegare ripetutamente un foglio di giornale, fino a farne una specie di piede di porco di carta.

Aprire la birra con il giornale

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Aprire la mbirra con il giornale 1

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Aprire una birra 2

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Aprire 4

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Io ci ho provato, ma posso ben dire di non esserci riuscito.

Aperta?

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D’altronde, ve lo avevo confessato di essere ambisinistro.

Plutone non è un pianeta: le prove schiaccianti

Una breve animazione di C. G. P. Gray (prossimamente altri video di questo bravo autore), segnalata ancora una volta dal bel sito di Maria Popova:

Is Pluto a Planet? An Animated Explanation Sets the Record Straight | Brain Pickings

La cassetta degli attrezzi dello scettico (Panicology 2)

Alla presentazione da parte dei media di storie che contengono informazione statistica o scientifica, a meno di essere creduloni, è facile reagire con il cinismo. Noi incoraggiamo piuttosto lo scetticismo. Per questo, vi proponiamo una cassetta degli attrezzi per l’interpretazione dei dati e delle informazioni in cui ci imbattiamo nella vita quotidiana.

  • Interesse particolare: Chi ha fatto quella specifica affermazione? Poteva avere un suo interesse? Ci ha detto tutto?
  • Espressioni ambigue: Dovrebbero far scattare subito un campanello d’allarme – soprattutto quelle fortemente connotate emotivamente, come “peste”, o quelle che sembrano indicare una strada senza ritorno verso la catastrofe, come “inevitabile”. È inevitabile che dopo il giorno venga la notte, ma non che ci sarà un attacco terroristico. Puoi essere in “irreparabile in ritardo” per una riunione iniziata un’ora fa, ma un’eruzione vulcanica, un terremoto o un’epidemia può essere “in ritardo” soltanto sulla base di un’argomentazione basata sul calcolo delle probabilità. Altre parole potrebbero avere un significato “tecnico” diverso da quello corrente. Quando le statistiche ufficiali parlano delle “forze di lavoro” contano tutti quelli che hanno lavorato almeno un’ora nella settimana di riferimento, e dunque un boom degli occupati potrebbe dipendere dall’impiego di studenti come baby-sitter o come barman una sera alla settimana. Voi lo considerate lavoro?
  • Rilevazioni e sondaggi: Chi li ha fatti? Sono attendibili? Hanno una motivazione ovvia? Chi li ha finanziati? Interi ambiti di studio possono diventare pericolosamente dipendenti dal finanziamento da parte di una sola fonte, sia essa commerciale, governativa o di un gruppo di pressione. I quesiti sono formulati in modo neutrale? Quanto è grande il campione? Troppo piccolo e i risultati saranno distorti; troppo grande e gli autori potrebbero cercare di persuadervi schiacciandovi sotto una mole di dati. La dimensione del campione e i margini d’errore sono pubblicati? Quando un produttore di cibo per gatti afferma che 4 gatti su 5 preferiscono il suo prodotto, lo ha fatto assaggiare solo a 5 gatti? Come sono stati raccolti i dati?
  • Dati: Confrontateli tra loro. Guardate a tutti i possibili effetti di un cambiamento, non soltanto a uno. Confrontate passato e presente. Confrontate tra loro i Paesi. E se non ci sono i dati per fare questi confronti così ovvi, chiedetevi il perché: qualcuno vi sta nascondendo qualche cosa?
  • Percentuali e valori assoluti: Chi ha una storia da raccontare o una tesi da sostenere sceglie sempre il modo più impressionante di presentare le cose.
  • Aneddoti e statistiche: I timori si diffondono per passaparola e per notizie televisive e di stampa che riprendono vicende individuali strazianti; le autorità spesso rispondono con statistiche roboanti. Un confronto sensato tra aneddoti e statistiche è molto difficile. In un certo senso, possono entrambi essere “veri”.
  • Grafici: Come i testi e le cifre, possono essere soggetti a errori o a distorsioni deliberate. Non date loro credito acriticamente soltanto perché tecnici all’apparenza.
  • Scala temporale: Questa è una cosa importante, che parole come “inevitabile” confondono. Il livello del mare sta salendo, ma in un arco temporale molto più lungo di quello della pianificazione urbanistica: quindi c’è tutto il tempo per adattarsi e porvi rimedio. Molte serie di dati hanno 3 componenti: una tendenza di lungo periodo, variazioni cicliche di più breve durata e le singole osservazioni (spesso erratiche). È importante esserne avvertiti, in modo da non cadere in inganno.
  • Perché adesso?: Chiedetevi perché la notizia viene divulgata proprio ora e se sarebbe stato altrettanto degna di pubblicazione in un diverso momento. Gli articoli sul riscaldamento globale sono più frequenti d’estate; quelli sui pericoli dei viaggi alla vigilia delle vacanze; i sondaggi sul sesso per San Valentino.
  • Disfattismo: State in guardia quando vi viene detto che a proposito di qualche cosa non c’è niente da fare: se così fosse, perché dircelo? Solo per allarmarci e per diffondere il panico?
  • Paure classiste: Diffidate dei timori legati a vantaggi di cui una qualche élite gode ma che si vogliono negare agli altri. Per esempio, quando si afferma che le crisi ambientali o sanitarie sono provocate o esacerbate dai voli low cost, dai cibi esotici, dall’automezzo privato, dalla scelta dei trattamenti sanitari, dall’istruzione universale e così via.
  • Scenari: Molti modelli di studio economici e scientifici producono una intera gamma di scenari futuri: accertatevi che quello che vi viene presentato non sia il solo scenario peggiore.
  • Considerate anche gli aspetti positivi: Non date per scontato che, se alcune cose vanno per il peggio, tutte seguano la stessa tendenza. Questo è il mestiere dei media sensazionalistici. Prendete il riscaldamento globale: è vero che tra 100 anni sarà più caldo, ma che cosa potrebbe aver escogitato l’intelligenza umana nel frattempo? Nuove fonti energetiche? Un metabolismo umano geneticamente modificato? Una fotosintesi più efficiente?  Fantascienza, direte. Certo, ma guardate che cosa è stato fatto negli ultimi 100 anni.
  • Il senso delle proporzioni: È un male se 100 persone muoiono di influenza aviaria, ma in un Paese di 50 milioni di abitanti è una frazione molto piccola. Quanti sono morti per altre cause?
  • Il senso del ridicolo: Cercate di tenere i piedi per terra, anche se i personaggi pubblici non lo fanno. Il ministro dell’interno tedesco Wolfgang Schaeuble insiste che il terrorismo islamico è la più grande minaccia alla stabilità tedesca. Vi sembra anche solo remotamente credibile o sta semplicemente cercando di dare importanza al suo ruolo nel governo?
L'urlo di Munch

wikipedia.org

* * *

In questo modo si conclude Panicology, il libro di Aldersley-Williams e Briscoe che ho recensito un paio di giorni fa. È, a parer mio, la parte migliore del libro e merita di essere meditata da tutti, indipendentemente dalla recensione (lo so che molti di voi, quando vedono che il post è una recensione, dicono «Che palle!» e cliccano su un’altra pagina). Sopra c’è la mia traduzione ma, poiché mi sono preso qualche libertà, propongo qui sotto ai più volonterosi l’originale.

For those not inclined to credulousness, it is easy to be cynical about the media in its presentation of stories involving statistical or scientific information. We would rather encourage skepticism. With this in mind, we offer this toolkit for the interpretation of data or information that come our way.

  • Vested interest: Ask yourself who has made a particular statement. Why might they have done this? Are we being told the whole story?
  • Weasel words: These should ring alarm bells – especially emotive ones such as “plague,” or ones that put us on a one-way trip to disaster such as “inevitable” and “overdue.” It is inevitable that night follows day, but it is not inevitable that there will be a terrorist attack.You can be overdue for a meeting that started an hour ago, but a volcanic eruption, an earthquake, or an outbreak of disease is only ever overdue based on arguments of probability. Other words may not have the obvious meaning. Government surveys of the “work force” count anyone who has worked one hour or more in a week, so a boost in the numbers working could be down to children babysitting or students spending an evening behind a bar. Is this what you consider work?
  • Surveys: Who conducted it? Are they credible? Do they have an obvious motive? Who paid them? Whole fields of study can become unhealthily dependent on funds from one source, whether that source is commercial, governmental, or charitable. Were the questions neutrally worded? How big is the sample? Too small, and the result may be skewed; too big, and the authors may be trying to use sheer weight of numbers to persuade you. Is the sample size and margin of error shown? When a pet food manufacturer says that four out of five cats prefer their product, did they only feed five cats? How were the data collected?
  • Figures: Try to compare figures. Look at as many of the effects of a change as possible, not just one. Compare the present with the past. Compare one country with another. If the data aren’t there to make the obvious comparison, ask yourself what is being obscured.
  • Percentages and actual numbers: People with a story to tell will choose the more impressive way of putting things.
  • Anecdote and statistics: Fears are spread by word of mouth, press, and television reports based on harrowing individual stories; authorities frequently counter these with broad statistics. Meaningful comparison between the two is hard. Both may be “true”.
  • Graphs and charts: Like words and figures, these may be subject to error or deliberate distortion. Don’t automatically believe them because they look technical.
  • Timeframe: This is an important factor that words like “inevitable” gloss over. Sea levels are rising, but over a longer period than housing planning cycles, so there is time to adapt. Many data series have a long-run trend, a shorter cyclical variation, and then (often erratic) individual data points. Be aware of each so as not to be tricked.
  • Why now: Ask yourself why the story is appearing now, and whether it would be equally newsworthy at another time. Global warming stories appear more in the summer. Travel fears play well as people set off on their holidays. Sex surveys are often released in time for Valentine’s Day.
  • Defeatism: Be wary when told there is nothing we can do about something. Why then are we being told about it? Is it merely to alarm us, or to put us in a state of fear?
  • Scare snobs: Distrust scares where an elite is trying to deny others advantages they already enjoy, for example environmental and health crises exacerbated by cheap flights, exotic food, private modes of transport, choice in medicine and education.
  • Scenarios: Many economic and scientific studies model a range of future scenarios. Make sure that the outcome described is not just the worst-case scenario.
  • Accentuate the positive: Don’t discount the possibility that even if some things are getting worse, others may get better-which negative newspaper stories make it their business to do. It will get warmer in 100 years, but what might human ingenuity have devised by then? New energy sources? Genetically modified human metabolism? Improved photosynthesis? Science fiction, you might say, and so it is-for now. But think what has been achieved over the last 100 years.
  • The big picture: It’s bad if 100 people die of bird flu, but in a country of 50million, this is very few. How many died of everything else?
  • A sense of proportion: Try to keep one, even if the top brass won’t. Germany’s Interior Minister Wolfgang Schaeuble, insists that Islamic terrorism is the single largest threat to Germany’s stability. Does this seem remotely credible, or is somebody just bigging himself up?

Aldersey-Williams e Briscoe – Panicology

Aldersey-Williams, Hugh e Simon Briscoe (2009). Panicology: Two Statisticians Explain What’s Worth Worrying About (and What’s Not) in the 21st Century. New York: Skyhorse. 2009. ISBN 9781602396449. Pagine 304. 10,30 $

Panicology

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Quello di cui questo libro ha da dire è ben riassunto dal sottotitolo: liberamente traducibile in “Due statistici spiegano di che cosa preoccuparsi (e di che cosa invece no) nel XXI secolo.” Ancora di più ci aiuta la sinossi resa disponibile da Amazon:

What exactly are your chances of being struck by a meteorite?
Think you’re having less sex than the French?
How high will sea levels actually rise?
We live in an increasingly uncertain world. There’s so much to worry about it is often hard to know what to really panic about. But stay calm! For Panicology is the perfect answer to the conundrums and questions that bedevil modern life. Putting a lit match to the lies, headlines and statistical twaddle that seeks to frighten us, it explores 40 reasons for worry: from binge-drinking to Frankenstein foods, bird flu to alien abductions – and explores what, if any, effect they will have on your life.
Why worry in ignorance when you can be a happy, informed sceptic?

I due scrivono molto bene (sono inglesi, non americani, e questo aggiunge in humour senza togliere nulla alla chiarezza), ma il libro è a volte un po’ superficiale. Non mi piace per nulla (lo trovo troppo puerile) la piccola trovata di dare un punteggio da 1 a 5 ai diversi aspetti del panico (rappresentato da una gallina in fuga), del rischio (i dadi) e di quanto in nostro potere (un pugno chiuso).

Per me, anche per motivi professionali, la parte più interessante è l’Introduzione, dove gli autori spiegano chiaramente la loro filosofia e che cosa li ha spinti a scrivere il libro: il panico è una pulsione forte e irrazionale, che non soltanto ci fa stare male, ma è anche una pessimo consigliere nelle scelte da fare. Soltanto il senso critico e l’informazione quantitativa attendibile ci possono aiutare: in questo, i temi di Aldersley-Williams (l’autore di Periodic Tales, che sto leggendo) e Briscoe (ex Statistics Editor del Financial Times e attualmente vice-presidente di Timetric) sono affini a quelli trattati da Dan Gardner in Risk, che ho recensito di recente.

Il loro spirito è ben riassunto (sempre nell’Introduzione) da una citazione tratta da Memoirs of Extraordinary Popular Delusions and the Madness of Crowds di Charles Mackay Il libro è nel pubblico dominio e lo trovate qui):

Men, it has been well said, think in herds; it will be seen that they go mad in herds, while they only recover their senses slowly, and one by one.

***

Qualche citazione. Il riferimento è come di consueto alle posizioni sul Kindle:

Numbers are the “fact” generator in today’s society and the currency in any debate about risk. But they are not all of equal quality – some are manipulated by governments while others are produced by people with a vested interest. Often, proper figures don’t exist – they are opinion surveys or come from administrative systems that do not give us data on the definition we want, leading to poor policy and weaker assessment.Yet those who wish to make a point on television or in the newspapers do it using numbers. Sound-bite statistics, sometimes invented and often inaccurate, seize the imagination even if they crumble under close inspection. [106]

The only alternative is to retreat into anecdote and hopelessly selective assumptions. [115]

Temporary migration, based on a permit system, might be appealing to a skeptical public and might be acceptable for some categories of low-skilled workers, but such newcomers are likely to be less adaptable and integrate more slowly. Ongoing, regular labor needs are unlikely to be met most satisfactorily by recycling temporary workers. [1327]

It will then become clearer that globalization is about massive waves of income redistribution: from workers to consumers, as they can shop around ever more widely for cheaper goods;from expensive labor to cheap labor, as employment expands rapidly in developing countries; and from energy users toward energy producers, as the demand for energy soars in developing countries. [1522]

[…] the key labor market divide going forward will not be between high-skilled and low-skilled workers, but between services that can be delivered electronically from off-shore and those that cannot be. [1532]

“It is a profound privilege to die from stress-related diseases,” says a professor from Stanford University. The point he makes, of course, is that in developed countries we have never had it so good, and that worrying about stress is itself a sign of how charmed our lives are. As a society we have wealth, job choice, and travel opportunities unimaginable only a generation ago, and in our free time we can gamble, drink, surf the Internet, and watch television on super-sized plasma screens to our heart’s content. We have legal safeguards against many of society’s ills, and the hard toil and infectious diseases that filled the Victorian graveyards with youthful corpses have all but gone. And yet it seems we are as miserable as sin and bogged down with stress. [1596]

A study by Britain’s Health and Safety Executive, the government body responsible for health and safety regulation, suggested that about half a million workers suffered from work-related stress in the latest year, the largest category after backache. [1622]

Do we mean overwork, acute boredom, or something more medical, such as depression or anxiety? [1656: a proposito della troppo vaga definizione di stress]

The National Weather Service puts the average U.S. death toll due to lightning at seventy-three people a year; the global figure must be over a thousand. [1717]

Ideally, we should focus on conserving habitat – then the species that live there will be saved automatically. But being the sentimental souls we are, we prefer to cherish glamorous species of rare orchid or the iconic panda. Fortunately, this is almost as good. If the Chinese succeed in saving the panda – despite the country’s galloping industrialization, conservation efforts are doing well, and recent fieldwork has shown there are more pandas than were thought – it will be because they saved enough of its habitat, and with it hundreds of other species without really trying. [2415]

Arthur C. Clarke famously wrote that any sufficiently advanced technology is indistinguishable from magic. So why is the magic now black? [2557]

[…] agriculture always has a detrimental effect on the natural ecology-that, in a sense, is its purpose. [2602]

It is impossible to prove a negative, however, and so doubts persist […] [2765]

[…] official agencies are increasingly taking into account not only scientific evidence but also the vagaries of public opinion, evidence-based or not. [2769]

Rugarli, Bachtin e i metadati (7)

Il libro di Rugarli che ho appena recensito (Le galassie lontane) riporta una curiosa conversazione a tavola a proposito delle teorie di Michail Michajlovič Bachtin, che sono decisamente rilevanti per la frammentaria discussione che andiamo conducendo sul tema dei metadati (per le altre puntate seguite i link: prima, seconda, terza, quarta, quinta e sesta).

Bachtin

wikipedia.org

«La scoperta di Bachtin» Stanish tenne cattedra, «sta nell’aver messo il dito sulla inadeguatezza, sulla incompletezza delle parole. Le parole, contrariamente all’opinione più diffusa, non dicono niente di ciò che vorrebbero dire. O quasi niente. Sono fucilate che non colpiscono mai il bersaglio. Se affermo o scrivo “albero”, in realtà ho evocato una entità del tutto generica, perché di alberi, faggi, castagni, ciliegi, peri e così via, ve n’è un numero quasi infinito, e ciascuno perde o non perde le foglie, dà o non dà frutti commestibili, ha dimensioni, forme, colori assolutamente diversi. L’indeterminatezza non si esaurirebbe, se sostituissi al termine “albero” un termine più specifico, che so?, un termine come “acero”, perché gli aceri non sono eguali tra di loro. Il ragionamento dove porta? Non è che le parole siano da buttare via, niente affatto. Però è necessario sapere che esse alludono… che sono paragonabili a brevi accensioni di luce nella nebbia… e che guidano verso uno spazio congetturale, dove quello che manca, quasi tutto, deve essere aggiunto da chi ascolta o da chi legge. Spero di essere stato chiaro.» [p. 133]