Proverbi pessimisti (6)

Il consiglio porta notte.

Pare che Bottino Craxi (ve lo ricordate?) solesse affermare che se non vuoi prendere una decisione o pervenire alla soluzione di un problema, la cosa migliore fosse istituire un comitato, una commissione, un gruppo di lavoro, un think tank di esperti.

Petardo

Tutti sanno che cos’è un petardo: un piccolo oggetto esplosivo, che fa molto rumore ma (si spera) pochi danni, utilizzato a capodanno, a carnevale o alle partite di calcio. In meno sanno che – una volta almeno – era una cosa seria: uno strumento da minatori, un segnale ferroviario o un’arma (nella prima guerra mondiale l’esercito italiano usava, al posto delle bombe a mano, petardi offensivi e petardi incendiari).

L’aspetto più bello della parola è l’etimologia: da latino pedĭtum (peto, fragorosa scoréggia).

Fedeltà e costanza (Don Giovanni)

Quando ero più giovane e più irrequieto (o, meglio, diversamente irrequieto) citavo spesso un brano del Don Giovanni di Mozart e Da Ponte e sostenevo di essere costante, ma non fedele.

Fedéle è, secondo me – e forzo un po’ le definizioni dei vocabolari – chi osserva la fede data ed è devoto a una persona (o a un ideale).

Costante è più affine a durevole o continuo (un dolore costante…) e dunque chi persevera nei propositi e nei sentimenti.

Sostenevo di essere costante, ma non fedele, nei miei affetti.

La citazione del Don Giovanni è questa:

DON GIOVANNI:
È tutto amore!
Chi a una sola è fedele,
verso l’altre è crudele:
io che in me sento
sì esteso sentimento,
vo’ bene a tutte quante.
Le donne, poiché calcolar non sanno,
il mio buon natural chiamano inganno. (Atto II, scena prima)

Giallo d’interizia (1)

Siamo in grado di svelarvi i piani segreti di Mancini e Moratti. L’obiettivo è molto più ambizioso di quello di festeggiare lo scudetto con sei giornate d’anticipo. Quello è un obiettivo alla portata di molte squadre, se non di tutte. Ma soltanto l’Inter è in grado di perderlo, adesso. Il piano è questo: accumulare sconfitte fino a trovarsi con soltanto due punti di vantaggio alla vigilia dell’ultima giornata, e poi subire il goal decisivo in pieno recupero. Ragazzi, ce la possiamo fare. L’abbiamo già fatto, anche se non con questa eleganza.

Questo è quello che noi tifosi vi chiediamo. Siamo stanchi di essere accompagnati dall’antipatia e il sospetto che circondano i vincenti.

Inter, per tornare a perdere!

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La via lattea (1969)

Ne La via lattea di Buñuel (uno dei miei film preferiti) c’è una scena che trovo esilarante, e che mi viene in mente ogni volta che qualcuno osa contraddirmi.
Ho trovato il testo della sceneggiatura soltanto in inglese. Abbiate pazienza. Quando avrò più tempo lo tradurrò (ma non contradditemi!)

(Scene shift. A Priest in a restaurant with a Cop who is holding a bottle of brandy.)
COP: Do you want some?
PRIEST: No, thanks. Quite honestly.
COP: And you’re from around here?
PRIEST: Yes, nearby.
[…]
COP: Anyway, getting back to our discussion, there’s nothing miraculous about the miracles of Christ. They’re commonplace occurrences.
PRIEST: Really?
COP: These days science can explain anything. Miracles are natural phenomena, like it or not.
PRIEST: Well, I find that more than ever before science agrees with the scriptures. That’s why the whole world is now Catholic.
COP: What do you mean, Catholic?
PRIEST: That’s right, the whole world.
COP: But what about the Moslems?
PRIEST: Come now, the Moslems are Catholic.
COP: What about the Jews?
PRIEST: Especially the Jews.
[…]
COP: In any case, Father, you’ll never convince me that the body of Christ can be contained in a piece of bread.
PRIEST: Be careful about what you’re saying. The body of Christ is not CONTAINED in the bread. In the sacrament of Communion, the host BECOMES the body of Christ. No matter what we say, transubstantiation does exist.
COP: I’d like to believe you. I’ll admit, I just don’t understand. It’s beyond me.
PRIEST: The host is the body of Christ. That’s it! Don’t believe it’s a mere representation, a symbol, as it were, of the body of our Lord. The Albigensians believed that. And, of course, so did the Calvinists, among others. And that is a serious mistake!
INNKEEPER: I always say that the body of Christ in the host is just like the rabbit in this pâté.
PRIEST: What?
INNKEEPER: I mean that it’s rabbit and at the same time it’s pâté.
PRIEST: You don’t understand! You speak like those 16th Century heretics that were called, as a matter of fact, Pate-liars! Don’t talk like that! You must take the words of Christ literally!
COP: Sorry, but it just doesn’t make any sense to me.
PRIEST: All the more reason to believe! Religion without mystery is no religion at all! In other words, any heresy that attacks a mystery can easily seduce ignorant and superficial people, but heresies will never be able to hide the truth.
OLD BUM: Father, I’d like to ask you, what happens to the body of Christ inside your stomach?
[…]
PRIEST: It suddenly occurred to me the Pate-liars were right. It’s a revelation! I FEEL that the body of Christ is in the host, like rabbit in that pâté. I’m absolutely sure of it!
COP: But you just said the opposite.
PRIEST: I said the opposite? Who, me?
COP: Yes, you.
(Priest throws a cup of coffee into Cop’s face. Innkeeper calls some men in white coats who arrive in a white ambulance)
[…]
(Two medics grab him.)
[…]
(Medic takes him outside.)
INNKEEPER: I never knew. He seemed so normal.
COP: Who is he? Is he really a priest?
MEDIC 2: Yes, he was the parish priest of Chevilly till last year. You probably contradicted him, right?
COP: Maybe.
MEDIC 2: I knew it.

Pulp Fiction (1994)

The Wolf (Harvey Keitel): I’m Winston Wolfe. I solve problems.

Questo è quello che sto facendo ora, al lavoro. Meno efficacemente di Wolfe.

Breve storia di lunghi tradimenti

Tullio Avoledo (2007). Breve storia di lunghi tradimenti. Torino: Einaudi. 2007.

I libri di Tullio Avoledo ti catturano alla prima pagina, e ti lasciano un po’ deluso quando li finisci (fa eccezione L’elenco telefonico di Atlantide, che ha un finale inatteso – una coda, a essere precisi).

Di questo vorrei mettere in luce tre aspetti: la satira, il post-modernismo, la trama e il trattamento dei personaggi. Il tutto, se possibile senza svelarvi troppo e senza togliervi la voglia di leggerlo.

La satira. Avoledo è uno scrittore satirico, e penso ne sia consapevole. La satira, nei suoi libri, opera a due livelli: quello della scelta dell’ambientazione – ancor più che della trama – e quello delle battute e del monologo interiore dei personaggi. Al primo livello, il mondo della banca (ne L’elenco telefonico di Atlantide e in questo Breve storia di lunghi tradimenti, che ne è in molti sensi la continuazione) è descritto in modo spietato e divertentissimo. Lo stesso accade per quello della nostra politica provinciale devoluta e cialtrona ne Lo stato dell’unione. Oltre allo sguardo lucido su questi ambienti, godibilissomo anche per chi non ci lavora dentro e ci è entrato in contatto anche occasionalmente (e chi, ahimè, non ha mai avuto a che fare con le banche e, meno di frequente, con un assessore?), Avoledo mette alla berlina il mondo dei consulenti e il loro pomposo gergo, i tic dei ricchi e famosi e quelli dei poveri e sfigati, colleghi condomini o atipici che siano. Alla radice di questo tipo di satira c’è lo straniamento, ma uno straniamento più affine a Swift che a Brecht.

Al secondo livello, c’è la brillantezza, a volte folgorante, dei dialoghi, delle riflessioni del protagonista, delle descrizioni e degli “a parte” dell’autore. Questo contribuisce al divertimento, ancor più che al piacere della lettura, e ti acchiappa come le patatine: ancora una (pagina) e poi basta, e intanto divori tutto il pacchetto.

Il post-modernismo. Non so se questo ad Avoledo farebbe piacere (io mi offenderei, se lo dicessero di me), ma lo trovo un autore post-moderno. Nel senso che nei suoi libri c’è di tutto, non sempre e non soltanto a fini di satira, ma perché sembra che non possa fare a meno di farlo: i libri, la musica (e sembra di capire che sia onnivoro ed ecumenico nei suoi gusti e nelle sue competenze), il cibo, gli ambienti. Entra tutto nel romanzo, senza filtro. Ho letto in un’intervista che non introduce di proposito elementi di fantascienza nei suoi romanzi, ma che gli si impongono (“Non sono materiali che scelgo. Sono mattoni che volano nel mio cantiere senza che riesca a capire da dove vengono.”). Ecco, penso che sia vero per tutti gli elementi che entrano nei suoi romanzi. Avoledo non soltanto è onnivoro, ma poi ti riversa addosso tutti i suoi metaboliti. Risultato: spesso mi diverto, a volte mi irrito. Penso anche che questo sia uno degli aspetti che mi porta a quella sottile insoddisfazione finale di cui parlavo all’inizio.

Il trattamento dei personaggi e la trama. La trama, soprattutto, mi sembra il tallone d’Achille di Avoledo. Ben costruita, per carità, fantasiosa, a volte fino ai limiti del bizzarro. Le divagazioni – che sono tante – sono più un piacere che una distrazione (a feature, not a bug), anche se a volte il legame con la vicenda principale è tenue o pretestuoso. Ma c’è sempre un punto, nei suoi romanzi, all’avvicinarsi della fine, in cui affiora la stanchezza, cala un velo opaco sulla brillantezza delle cose raccontate e anche del modo di raccontarle. La cosa è aggravata dal fatto che, per quanto diversi, i romanzi da Avoledo raccontano sempre la stessa storia, dal punto di vista narratologico (si dice così?): il protagonista, maschio intelligente ma un po’ sfigato e rompipalle, finisce in una vicenda incredibile, si innamora di una donna bellissima, trascura per questo i solidi affetti, si mette nei guai, i solidi affetti crollano di schianto o si logorano (non erano poi così solidi, evidentemente), il protagonista si abbrutisce e poi il libro finisce (la vicenda, in realtà, non giunge a scioglimento; semplicemente finisce il libro). Spesso, così, la bassa marea nella narrazione coincide con una crisi del protagonista. E questo mi porta a discutere il trattamento dei personaggi: all’inizio sono così ben delineati che ti pare di conoscerli, e questo è un merito grandissimo per un narratore; ma a un certo punto – come dire – mostrano la corda (they spread too thin, si direbbe in inglese). Ti accorgi che stai leggendo un romanzo d’intrattenimento, sia pure di qualità elevata, e non un romanzo-romanzo. Insomma, non leggo molti romanzi italiani, e Avoledo è tra i miei “giovani” autori preferiti (è più o meno mio coetaneo!). Ma tra i “giovani” autori italiani, l’unico che scrive romanzi-romanzi è Sandro Veronesi. Augh! ho detto!

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È la stampa, bellezza (1)

Titolo di prima pagina di Metro di oggi (18 aprile 2007): “La strage sul lavoro anche ieri due morti”.

Il tema è tragico, e vorrei che nessuno, in Italia e nel mondo, morisse così. Il fatto che il rispetto delle norme di sicurezza scongiurerebbe gran parte degli incidenti – e che il mancato rispetto delle norme sia frutto di calcolo economico (oltre che di sciatteria), nel senso che il costo della loro applicazione viene cinicamente comparato con l’entità del danno (valore della vita perduta per la probabilità dell’evento) – rende il fenomeno particolarmente odioso.

Ma non è di questo che voglio parlare. Voglio soffermarmi, invece, sull’opera di disinformazione che la stampa, e i media in generale, fanno su questo e sugli altri fenomeni, e su quello che possiamo fare noi, da soli, per informarci più correttamente. Premetto subito che il testo dell’articolo di Metro è particolarmente onesto, se paragonato quanto hanno detto e scritto organi d’informazione più titolati. Non riesce, però, a evitare la frase di prammatica: “Le morti bianche sono ormai una vera e propria emergenza nazionale”. Tutto ciò di cui parlano i (tele)giornali è emergenza! per essere newsworthy (“notiziabile”, l’ho sentito tradurre!) la notizia deve essere fuori dalla norma (l’uomo che morde un cane) e se non lo è la si rende tale.

Il resto dell’articolo, in questo caso, ci aiuta a ragionare. Secondo Onorio Rosati, segretario generale della Camera del lavoro di Milano, che anticipa i dati dell’osservatorio nazionale che verranno diffusi a fine aprile: “i dati del 2006 già registravano una crescita, con 1.280 decessi rispetto ai 1.265 morti del 2005”.

Prima considerazione: la crescita del 2006 è una brutta notizia, ma non è una crescita molto consistente sotto il profilo quantitativo (lo so, per le 15 famiglie in più che piangono una persona cara, che magari era quella che portava in casa il solo reddito è una tragedia). La variazione è dell’1,2%. Potrebbe essere una fluttuazione casuale, e non l’emergere di una tendenza. Per poter valutare è necessario almeno vedere una serie storica più lunga.

Seconda considerazione. In un anno ci sono 365 giorni. Nel 2005 e nel 2006, quindi, in Italia si sono verificate in media 3,5 morti bianche al giorno. Paradossalmente, quella di ieri è stata una giornata buona. Altro che emergenza, verrebbe da commentare, se non si trattasse di un argomento su cui non si scherza.

Terza considerazione. Non mi ricordo nel 2005 e nel 2006 un solo articolo di giornale sull’argomento, non con questa evidenza, quanto meno. Bene che i giornalisti se ne occupino adesso, ma allora di che si occupavano? Ovvio, di qualche altra emergenza, vera o creata ad arte: gli incendi boschivi, le piogge torrenziali, i rifiuti in Campania, il riscaldamento globale, i pezzi di ghiaccio che cadono dal cielo (ve lo ricordate, qualche anno fa? ne eravamo bombardati, a leggere i giornali e a guardare i telegiornali! Poi, come erano venuti, sono spariti nel nulla).

Quarta e ultima considerazione. Cito ancora l’articolo di Metro: “dall’inizio del 2007 (escluse le due vittime di ieri) ci sono stati 304 morti sul lavoro”. È un ulteriore campanello d’allarme, no? O così sembra dal contesto. Ma facciamo un altro piccolo calcolo (niente paura, sempre roba da elementari). Dall’inizio dell’anno all’altro ieri sono passati 105 giorni. In media, quest’anno, ci sono stati finora 2,9 morti bianche al giorno. Se si fosse mantenuta la media giornaliera dell’anno scorso, avremmo avuto nello stesso periodo 368 morti. Si sono salvate, nei primi mesi di quest’anno, 64 vite umane. Se questo ritmo dovesse continuare fino alla fine dell’anno, i morti sarebbero 1.057, 223 in meno dell’anno scorso. Il ragionamento è un po’ semplificato, perché purtroppo anche gli incidenti sul lavoro hanno una loro stagionalità (nell’edilizia sono più frequenti nei mesi caldi e di bel tempo), ma aiuta a capire dove si annidano le trappole della disinformazione.

Conclusione: che fare, per informarci più correttamente? la parola d’ordine è disintermediazione. Che vuol dire: andare direttamente alle fonti e usare gli strumenti che abbiamo, soprattutto il nostro senso critico. Le fonti: abbiamo il web e Google, tutto è a portata di mouse. In questo caso, e con qualche difficoltà, in 10 minuti ho trovato la banca dati dell’Inail (ma è soltanto un esempio). Il senso critico: non dobbiamo avere paura di “far di conto”, anche se a scuola ci hanno terrorizzato con la matematica e, nel nostro paese di santi navigatori legulei e commissari tecnici della nazionale, preferiamo una bella argomentazione capziosa a un solido ragionamento quantitativo. Tre punti su questo. Primo, molti strumenti li abbiamo già: e sono le elementari capacità aritmetiche e ancora di più l’abitudine alla comparazione, a mettere in rapporto tra loro misure quantitative. Secondo, altri li possiamo trovare sul web: soprattutto un aiuto a interpretare le cifre (i famosi metadati di cui ho già parlato sul blog). Un buon esempio è il sito dell’Istat, alla voce Strumenti. Terzo, dobbiamo imparare a discernere le informazioni statistiche di buona qualità. Qui il discorso è lungo e complicato, ma in genere le fonti statistiche ufficiali internazionali sono di buona qualità, se non altro perché devono rispondere a standard internazionali, sono sottoposte alla critica attenta degli accademici e delle associazioni di cittadini e consumatori e, soprattutto, sono sotto gli occhi di tutti. Una presentazione interessante la trovate sul sito Il valore dei dati: saperne di più, decidere meglio.

Corporation

An ingenious device for obtaining individual profit without individual responsibilty.

(Ambrose Bierce, The Devil’s Dictionary)

Il direttore

In un posto di lavoro (non il mio, credetemi), uno dei direttori ha affisso (o fatto affiggere) sul battente della sua porta un foglio di dimensione A3 (grosso modo 42 centimetri per 30) su cui campeggia la scritta a caratteri cubitali: IL DIRETTORE.

Sorge spontanea la domanda… anzi ne sorgono molte: l’ha scritto per sé o per gli altri? teme che non gli venga riconosciuto il ruolo? ha una bassa considerazione di sé? pensa o sa di non meritarsi quel posto? oppure semplicemente è una persona svagata, che senza un aiuto visibile non trova la strada per la sua stanza?

A seconda delle risposte, possiamo suggerire di aggiungere un poster con le sue sembianze e qualche insegna di status, o uno specchio; oppure di installare un sentiero luminoso (come quello che sugli aerei si dovrebbe accendere in caso di evacuazione – no, non voglio vedere come funziona veramente) con delle frecce che guidino alla stanza.

Sono curioso di sapere se qualcuno di voi conosce casi simili.

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