Tolleranza e rispetto

Mi sembra pertinente, in questi tempi cupi, questo bell’intervento di Giovanna Zincone, che risale a circa un anno e mezzo fa (è stato pubblicato su La stampa del 23 febbraio 2007). Sembra passato un secolo, dai richiami alla tolleranza di Chirac, Merkel, Napolitano e Ciampi, tanto è cambiato il clima…

L’EROISMO DELLA TOLLERANZA

di Giovanna Zincone

La tolleranza è il principio cardine delle attuali democrazie europee. Se una civile convivenza richiede la condivisione di alcuni valori comuni, il primo di questi valori, quello che regge tutti gli altri, è la disponibilità a tollerare opinioni, pratiche religiose, costumi diversi da quelli maggioritari. Solo i regimi autoritari chiedono omogeneità di pensiero e di credo religioso, o magari di credo irreligioso. Solo quei regimi provvedono a disfarsi dei dissidenti, e talvolta pure a ripulire il loro territorio dalle minoranze etniche. I regimi liberali non hanno paura della protesta, dell’opposizione anche radicale, né delle diversità di comportamento persino quando sconfinano nella devianza. Non le temono in qualunque ambito esse si presentino. Basta che non facciano del male, che non si macchino di sopraffazione, violenza, meno che meno di sangue. Sembrano punti ovvi, acquisizioni solide delle democrazie europee. Eppure se ne ritorna a parlare con crescente frequenza sulla scena politica, come a segnalare che c’è un problema aperto. La prima a richiamare quest’anno la tolleranza come un valore fondante dell’Unione europea, nel suo discorso di apertura del semestre tedesco di presidenza del Consiglio d’Europa, è stata Angela Merkel, il 30 gennaio a Berlino. Da allora, durante queste prime settimane di febbraio, sulla centralità della tolleranza si sono accumulati consensi eminenti e ponderosi. Sono mattoni a sostegno di un pilastro centrale e tuttavia non solido. In una sorta di intervista di addio alla vita pubblica, è stato poi Jacques Chirac a ribadire il ruolo insostituibile del principio di tolleranza, ma ha pure indicato il rischio che si corroda, proprio in Francia, che lì perisca soprattutto sotto i colpi della destra xenofoba. Se questo accadesse, i conflitti tra minoranze di origine immigrata e maggioranze di tradizione nazionale diverrebbero sempre più aspri e, infine, ingovernabili. Questo teme il Presidente francese. Anche il nostro, Giorgio Napolitano, ha sentito la necessità di invitare al rispetto del principio di tolleranza tutti coloro che vivono in Italia, siano essi italiani per discendenza, stranieri diventati italiani, immigrati rimasti stranieri. Lo ha fatto nell’incontro al Quirinale con un gruppo di immigrati per i quali aveva lui stesso firmato il decreto di attribuzione della cittadinanza italiana. In quella occasione, anche il Presidente italiano ha evidenziato la presenza di molteplici tensioni a cui è sottoposto oggi il principio di tolleranza. Così ha fatto Carlo Azeglio Ciampi in un brillante dialogo con un gruppo di giovani studiosi europei convenuti a Torino. Insomma, sulla diagnosi importanti esponenti delle democrazie europee oggi concordano: la tolleranza che è necessaria all’Europa ha molti nemici. E non si tratta solo e non sempre di nemici esterni, estranei alla sua cultura. Sono gli spiriti mai spenti dei nazionalismi e dei fondamentalismi, che ritrovano vigore. Di fronte a questi rischi occorrono rimedi forti, bisogna imparare a chiedere qualcosa in più della tolleranza. L’ex Presidente Ciampi, nella conferenza torinese, ha invitato a fare un passo avanti. Non bisogna accontentarsi della tolleranza, occorre pretendere rispetto. Nella tolleranza c’è sempre un grumo di disprezzo, che nel concetto di rispetto è assente. Si tollerano comunità ed esseri fastidiosi, mentre si rispettano gruppi che consideriamo diversi da noi, ma tuttavia dotati di pari dignità. Teorici della tolleranza come il filosofo canadese Charles Taylor ci hanno insegnato quanto sia importante per un individuo, per la sua autostima, essere rispettato e non solo tollerato, fin da piccolo, non solo come singolo ma anche come membro del gruppo di appartenenza. Tuttavia non mi pare che tolleranza e rispetto si pongano in ordine gerarchico. Tolleranza non è peggiore di rispetto, è complementare, e qualche volta persino più eroica. Il rispetto dovrebbe riguardare le comunità nel loro insieme. La tolleranza dovrebbe riguardare specifici comportamenti, pratiche, credenze. Immagino di essere un cittadino europeo agnostico e animalista; rispetto le comunità ebree e musulmane nel loro insieme, ma posso deprecare la macellazione rituale, che mi può sembrare ancora più crudele di quella laica. Però la tollero, anche se contraddice il mio profondo amore per gli animali, anche se mi fa male all’anima. Sono un musulmano; rispetto la comunità nazionale in cui sono immigrato, ma trovo ignobile la mercificazione del corpo delle donne, l’impudicizia ostentata. Tuttavia la tollero, anche se mi provoca disgusto. La tolleranza è la difficile e specifica premessa di un generico rispetto. È eroica, perchè ci obbliga a superare i confini dei nostri principi, a volte di quei principi che ci stanno più a cuore. È un atteggiamento mentale e pratico doloroso, ma necessario. Una società umana moderna e plurale, in cui maggioranze e minoranze non accettino di valicare i confini del proprio insieme di valori, è destinata a conflitti insanabili. Lo è a maggior ragione se in quei confini si arroccano non solo un certo numero di comuni cittadini, non solo èlite religiose che un po’ arroccate tendono a esserlo di mestiere, ma anche èlite politiche e semiliberi pensatori.

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Tolleranza zero

Secondo Wikipedia, la ” tolleranza zero è un’espressione del gergo politico, che indica un comportamento repressivo nei confronti d’ un certo comportamento o crimine, con tutti i mezzi consentiti dalla legge, e con l’applicazione di pene detentive certe e severe, senza sconti di pena”.

In altri termini, come nell’orwelliana neolingua, una parola (tolleranza) viene utilizzata per nascondere il fatto che in realtà si realizza al massimo grado il suo contrario (il massimo di intolleranza). Una volta interiorizzato lo stravolgimento del significato, vengono interiorizzati e connotati come normali anche i comportamenti cui il vocabolo si riferisce e dissentire dalla verità ufficiale diventa difficile, se non impossibile.

E se tolleranza zero viene a significare, come oggi nel nostro povero paese, l’occultamento (e poi la repressione sistematica) di tutto quello che viene percepito come fonte di allarme sociale, con tutti i mezzi (dal dispiegamento dell’esercito con funzioni di ordine pubblico, alle ordinanze anti-rovistaggio), come sorprendersi se qualcuno pensa che il linciaggio sia uno strumento della stessa politica?

MILANO, MORTO GIOVANE NERO PRESO A SPRANGATE
MILANO  – È morto nel primo pomeriggio, all’ospedale Fatebenfratelli, Abdul G., 19 anni, originario del Burkina Faso e con cittadinanza italiana, aggredito a colpi di spranga a Milano da due uomini in via Zuretti, non distante dalla Stazione Centrale. Il giovane, in compagnia di due amici, era stato accusato di avere rubato della merce dal furgone bar degli aggressori. Ne era nata una lite, accompagnata anche da insulti razzisti da parte dei proprietari del furgone e da colpi di spranga che avevano ferito alla testa Abdul. La notizia della sua morte, dopo diverse ore di coma, è stata confermata dagli agenti della Questura di Milano.
Secondo la ricostruzione degli agenti della questura di Milano, Abdul G. era con altri due amici dopo aver trascorso la notte in un locale in corso Lodi. A bordo dei mezzi pubblici erano arrivati in via Zuretti con l’intenzione di andare al centro sociale Leoncavallo. A quel punto i tre sono stati avvicinati da un furgone bar da cui sono scesi due uomini che li hanno accusati di avere rubato della merce. I due, uno intorno ai 25 anni, l’altro, un adulto sulla quarantina, sono passati alle vie di fatto e hanno cominciato a colpire il giovane e a lanciare epiteti razzisti: “sporchi negri vi ammazziamo”. Gli aggrediti sono riusciti ad annotarsi parte della targa del furgone. [ANSA, 14.9.2008 15:02]

A quando il Ku Klux Klan?

Southern trees bear a strange fruit,
Blood on the leaves and blood at the root,
Black bodies swinging in the southern breeze,
Strange fruit hanging from the poplar trees.

Pastoral scene of the gallant south,
The bulging eyes and the twisted mouth,
Scent of magnolias, sweet and fresh,
Then the sudden smell of burning flesh.

Here is fruit for the crows to pluck,
For the rain to gather, for the wind to suck,
For the sun to rot, for the trees to drop,
Here is a strange and bitter crop.

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The Stuff of Thought

Pinker, Steven (2007). The Stuff of Thought. Language as a Window into Human Nature. New York: Viking. 2007.

Steven Pinker, studioso del linguaggio in una prospettiva cognitiva, insegna psicologia a Harvard (fino al 2003 insegnava al MIT). È anche un ottimo divulgatore (e polemista) e leggere i suoi libri è un piacere.

Il tema principale di questo è ben riassunto dal sottotitolo (oltre che dal lucidissimo capitolo finale, la parte migliore del libro): il linguaggio è una finestra sulla mente e sulla natura umana. Provo a tradurre le prime righe della Prefazione:

Nel modo in cui usiamo le parole è racchiusa una teoria dello spazio e del tempo. Anche una teoria della materia, e una della causalità. Il nostro linguaggio ha una teoria del sesso (ne ha due, a essere precisi) e concezioni in merito all’intimità, al potere, alla giustizia. La nostra lingua madre è imbevuta dei concetti di divinità, pericolo e degradazione, ma anche di una concezione del benessere e di una filosofia del libero arbitrio. Tutte queste concezioni variano nei dettagli da lingua a lingua, ma condividono una medesima logica complessiva. Ne emerge un modello della realtà tipicamente umano, che si allontana in modo significativo dalla comprensione oggettiva della realtà delineata dalla scienza e dalla logica. Benché queste idee siano intessute nel linguaggio, le loro radici sono più profonde del linguaggio stesso. Affondano nelle regole fondamentali con cui comprendiamo quello che ci circonda, con cui attribuiamo meriti o colpe ai nostri simili e con cui articoliamo le nostre relazioni con loro. [p. vii, traduzione mia]

Il libro è articolato in 9 capitoli. La maggior parte riprende, in veste divulgativa, ricerche condotte da Pinker negli ultimi anni, e questo è l’unico appunto che mi sento di fare al volume: a volte si perde il filo del discorso complessivo, proprio perché il materiale è così ricco e perché Pinker è un affabulatore che si diverte nel raccontare e che sa avvincere il lettore (e l’ascoltatore: è venuto qualche anno fa all’Auditorium di Roma nell’ambito di un festival e vi posso assicurare che è un grande intrattenitore). Per questo, come dicevo prima, il capitolo conclusivo (Escaping the Cave) è particolarmente opportuno, oltre che molto riuscito.

È troppo lungo per provare a tradurre anche questo, ma (per chi ha pazienza e segue bene l’inglese) questa lezione tenuta alla sede centrale di Google il 24 settembre 2007 riassume piuttosto bene le conclusioni del libro (la conferenza, dibattito compreso, dura più di un’ora).

Qualche anno fa (penso nel 2002, ai tempi di The Blank Slate) Pinker è anche stato intervistato da Robert Wright (quello di Nonzero) per la rivista online Slate: metto qui sotto il video, anch’esso interessante, e per i vostri esercizi d’inglese potete seguire con la trascrizione che trovate qui.

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L’ottava vibrazione

Lucarelli, Carlo (2008). L’ottava vibrazione. Torino: Einaudi. 2008.

L'ottava vibrazione

goodreads.com

Non sono d’indole tollerante. Anzi, per indole sono un iracondo, sempre pronto all’invettiva. Ma penso che la tolleranza sia un valore, sia il fondamento del rapporto tra persone libere ed eguali, una base della convivenza civile, una conquista del secolo dei lumi (l’ho pensato persino quando Marcuse consigliava di essere intolleranti). Di conseguenza, a forza di esercizio costante, ho imparato a essere tollerante, e, al prezzo di ferrea autodisciplina, controllo quotidianamente i miei istinti, tanto da avere fama di essere un saggio, un calcolatore piuttosto che un istintivo, un freddo, addirittura uno “senza palle”. Eppure “quello spirto guerrier ch’entro mi rugge” è sempre lì, in agguato, e ogni tanto esplode.

O magari scoppietta soltanto, esaurendosi in un moto di fastidio, come questo che mi ha provocato la lettura di questo romanzo di Lucarelli. Non ho letto nessun altro romanzo di Lucarelli, e non l’avrei letto neppure stavolta (sono un po’ prevenuto, troppo pubblicizzato, troppa fama televisiva, addirittura imitato da Fiorello!) se non fosse stato presentato come un romanzo storico. Il secondo romanzo sull’avventura coloniale italiana (lo so che è una frase fatta, l’ho usata apposta) in pochi mesi, e tutti e due scritti da autori bolognesi: non può essere una coincidenza – mi sono detto –: vediamo.

Massaua, Eritrea, 1896, alla vigila di Adua. Non vi racconto niente della storia perché è pur sempre un poliziesco e io non sono una carogna. Mi limiterò a elencarei vezzi della scrittura di Lucarelli che mi hanno irritato e infastidito:

  • I vari personaggi che si intrecciano (è un romanzo “corale”, come dicono i critici) e che arrivano in Colonia da varie regioni d’Italia sono caratterizzati dalla loro cadenza, dal loro dialetto, dai loro tic verbali. Ma non occasionalmente, o la prima volta che parlano: tutte le volte che aprono bocca, o pensano. Così l’umbro, l’abruzzese, il veneto. Stucchevole.
  • Lo stesso accade per i personaggi indigeni e più in generale per il “colore coloniale”: Lucarelli ci elenca il termine locale e la traduzione italiana. Non basta: il termine locale ce lo propina in tigrino, bileno, amarico, kunama, arabo e così via.
  • Lucarelli usa in continuazione il verbo “agganciare” per significare “tenere con le mani o con i piedi”. OK, una volta va bene. Ma troppe diventa un artifizio retorico (lo stesso trucco che usa Genna nel suo Hitler con “esorbitare”).
  • Lucarelli mescola presente e passato (e, a volte, anche prima e terza persona singolare) nello stesso paragrafo. E se ne vanta pure! (“… discutendo con Simona Vinci, che scrive al presente, e con Eraldo Bladini, che scrive soprattutto al passato, e poi con Deborah Gambetta e con Giampiero Rigosi, e non sapendo io che parte prendere visto che tutti mi sembravano aver ragione – tempo della modernità, tempo della storia – mi è venuto in mente di provare a metterceli dentro tutti, i tempi verbali, a seconda delle mie esigenze, per fermare, muovere, rallentare, accelerare, anche zoomare su qualcosa” p. 456).

Basta così. Ne abbiamo parlato fin troppo. Vi risparmio gli altri luoghi comuni di cui il libro è intriso, dalla “cagna nera” alla misteriosa bambina che balla… Ma l’autore mi risponderebbe che il fumettone è nazional-popolare…

Un’ultima cosa: l’ottava vibrazione – spiega la poesia di Tsegaye Gabre Medhin, il poeta nazionale etiope, posta a conclusione del libro – è il nero, l’ottavo colore dell’iride. E devo ammettere (anche se la luce non è soltanto vibrazione, e anche se i colori dell’iride sono 7 per convenzione recente e perché il 7 è attraente, ma potremmo anche più ragionevolmente dire che sono 6, e anche se il nero è piuttosto l’assenza di luce) che l’immagine è molto bella, come è evocativa la copertina del libro.

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Fatalità

Per me la canzonetta italiana che meglio rappresenta la “musica leggera” (nel senso in cui la è quella di Gilbert O’ Sullivan) è – ma mi rendo conto che è una scelta idiosincratica, legata all’età, all’occasione in cui l’ho sentita (Per voi giovani nella prima edizione, quella di un giovane Renzo Arbore pre-Alto gradimento), oltre che della grande orecchiabilità della canzonetta stessa, è questa Fatalità de I Bertas, gruppo sardo. Siamo nel 1967.

Fatalità  aver trovato te
te che sei come me
Fatalità  buongiorno come stai?
Tu che fai?
Non lo so sto con te
Ero là  seduto al bar
per fatti miei
davanti ad un caffè che non andava giù
quando tu m’hai chiesto se
volevo un po’ di zucchero o no
è andata ti sei presentata cioè
perfetta per me!
Fatalità  aver trovato te
te che sei come me
Fatalità  domani che si fa?
non lo so neanch’io
si vedrà
Ero là  seduto al bar
per fatti miei
davanti ad un caffè che non andava giù
quando tu m’hai chiesto se
volevo un po’ di zucchero o no
è andata ti sei presentata cioè
perfetta per me!
Ero là  seduto al bar
per fatti miei
davanti ad un caffè che non andava giù
quando tu m’hai chiesto se
volevo un po’ di zucchero o no
è andata ti sei presentata cioè
perfetta per me!
perfetta per me!

Gilbert O’ Sullivan

Wikipedia dixit:

Viene abitualmente definita musica leggera la musica popolare contemporanea, destinata ad un pubblico vasto quanto più è possibile. L’espressione traduce in modo non letterale il termine inglese easy listening, in quanto definisce un tipo di musica di facile ascolto, spesso ridotta a semplice intrattenimento. In effetti, la musica leggera raggruppa in sé un insieme di tendenze musicali affermatesi a partire dal XX secolo, caratterizzate da un linguaggio relativamente semplice e in alcuni casi schematico. La musica leggera è strettamente inserita nel circuito di diffusione commerciale mondiale con incisioni discografiche, video, festival, concerti-spettacolo, trasmissioni e reti televisive e radiofoniche. Se la semplicità del linguaggio musicale distingue la musica leggera dalla cosiddetta “musica colta”, la presenza di una vera e propria industria la differenzia dalla musica popolare.

Se ne potrebbe discutere per ore. Il seguito è ancora più controverso:

Le caratteristiche principali della musica leggera sono:

* spiccata orecchiabilità;
* utilizzo abbondante della melodia;
* uso di tempi musicali pari (primo tra tutti il 4/4);
* testi di facile comprensione;
* utilizzo del cosiddetto formato canzone (strofe alternate al ritornello).

Andate avanti voi con il resto della voce dell’enciclopedia.

Io vorrei limitarmi a fare qualche esempio.

Comincerei dal fenomeno Gilbert O’ Sullivan, cantante irlandese che attraversò il firmamento delle popolarità mondiale come una meteora nel 1972, ci ossessionò per qualche mese e poi sparì. Godetevi l’improbabile pettinatura…

Cominciamo da Alone Again (Naturally)

Tutt’altro che una canzoncina, se leggete le parole!

In a little while from now,
If I’m not feeling any less sour
I promised myself to treat myself
And visit a nearby tower,
And climbing to the top,
Will throw myself off
In an effort to make it clear to who
Ever what it’s like when your shattered
Left standing in the lurch, at a church
where people saying,
“My God that’s tough, she stood him up!
No point in us remaining.
We may as well go home.”
As I did on my own,
Alone again, naturally

To think that only yesterday,
I was cheerful, bright and gay,
Looking forward to, but who wouldn’t do,
The role I was about to play
But as if to knock me down,
Reality came around
And without so much as a mere touch,
Cut me into little pieces
Leaving me to doubt,
Talk about God in His mercy
For if He really does exist
Why did He desert me
In my hour of need?
I truly am indeed,
Alone again, naturally

It seems to me that
There are more hearts
Broken in the world
That can’t be mended
Left unattended
What do we do? What do we do?

(instrumental break)

Alone again, naturally

Now looking back over the years,
And what ever else that appears
I remember I cried when my father died
Never wishing to hide the tears
And at sixty-five years old,
My mother, God rest her soul,
Couldn’t understand, why the only man
She had ever loved had been taken
Leaving her to start with a heart
So badly broken
Despite encouragement from me
No words were ever spoken
And when she passed away
I cried and cried all day
Alone again, naturally
Alone again, naturally

E questa è Clair, il sue secondo (e ultimo) successo.

Clair, the moment I met you I swear
I felt as if something somewhere
Had happened to me
Which I couldn’t see

And then
The moment I met you again
I knew in my heart THAT we were friends
It had to be so
It couldn’t be no

But try as hard as I might do I don’t know why
You get to me in a way I can’t describe
Words mean so little when you look up and smile
I don’t care what people say,
To me you’re more than a child
Oh! Clair, Clair

Clair, if ever a moment so rare
Was captured for all to compare
That moment is you
It’s all that you do

But why in spite of our age difference do I cry
Each time I leave you I feel I could die
Nothing means more to me than hearing you say
I’m going to marry you
Will you marry me Uncle Ray?
Oh! Clair, Clair

(Instrumental Break)

Clair, I’ve told you before
Don’t you dare
Get back into bed
Can’t you see that it’s late
No you can’t have a drink
Oh! all right then but wait just a bit
While I, in an effort to baby sit,
Catch of my breath what there is left of it.
You can be murder at this hour of the day
But in the morning this hour
Will seem a lifetime away
Oh! Clair, Clair

Oh Clair

Che fine ha fatto? È vivo e lotta in mezzo a noi, e si è conservato (invidia, in questo video del 2007 ha 61 anni!) come nuovo, capello cotonatissimo incluso…

Domani 2 (Il giudizio universale)

“Il giudizio universale” è un film del 1961 diretto da Vittorio De Sica, con soggetto e sceneggiatura di Cesare Zavattini. Lo spunto (geniale e quintessenzialmente zavattiniano): al mattino di una normale giornata napoletana, una voce stentorea (il basso Nicola Rossi Lemeni) che sembra arrivare dall’alto dei cieli annuncia che “Alle 18 comincia il Giudizio Universale”. C’è chi si pente, chi non ci crede, chi sghignazza, poi comincia a piovere.

Reduci dal successo internazionale di La ciociara, De Sica e Zavattini hanno carta bianca da De Laurentiis per realizzare il film, con un international all stars cast sul libro-paga: Paolo Stoppa, Vittorio Gassman, Fernandel, Alberto Sordi, Melina Mercouri, Renato Rascel, Maria Pia Casilio, Giacomo Furia, Silvana Mangano, Alberto Bonucci, Andreina Pagnani, Giuseppe Porelli, Elisa Cegani, Agostino Salvietti, Regina Bianchi, Marisa Merlini, Mario Passante, Lamberto Maggiorani, Ugo D’Alessio, Nino Manfredi, Nando Angelini, Domenico Modugno, Carlo Taranto, Akim Tamiroff, Luigi Bonos, Pasquale Cennamo, Franco Franchi, Mike Bongiorno, Lino Ventura, Anouk Aimée, Georges Rivière, Ciccio Ingrassia, Eleonora Brown, Jack Palance, Ernest Borgnine, Lilly Lembo, Jimmy Durante.

Il film, deludente, si disperde in mille rivoli. Ma l’incipit è travolgente.

Cesare Pavese

100 anni fa, il 9 settembre 1908, nasceva a Santo Stefano Belbo Cesare Pavese.

Per me Pavese è stato un folgorante incontro di gioventù. E ho incontrato prima le poesie di Lavorare stanca dei romanzi. Poesie così diverse dall’ermetismo di Ungaretti, che ci veniva proposto come modello di modernità in contrapposizione alla triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio. Ne fui molto influenzato, tanto da farne l’oggetto di una mia tesina portata alla maturità.

Ce ne sono poche, e nemmeno le più belle, sul web. Ecco qualche esempio.

Lavorare stanca

Traversare una strada per scappare di casa
lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira
tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo
e non scappa di casa.

Ci sono d’estate
pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese
sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge
per un viale d’inutili piante, si ferma.
Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?
Solamente girarle, le piazze e le strade
sono vuote. Bisogna fermare una donna
e parlarle e deciderla a vivere insieme.
Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte
c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi
e racconta i progetti di tutta la vita.

Non è certo attendendo nella piazza deserta
che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade
si sofferma ogni tanto. Se fossero in due,
anche andando per strada, la casa sarebbe
dove c’è quella donna e varrebbe la pena.
Nella notte la piazza ritorna deserta
e quest’uomo, che passa, non vede le case
tra le inutili luci, non leva più gli occhi:
sente solo il selciato, che han fatto altri uomini
dalle mani indurite, come sono le sue.
Non è giusto restare sulla piazza deserta.
Ci sarà certamente quella donna per strada
che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.

L’uomo solo

Lontano nella notte

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Ieri, dopo 65 anni, Roma è caduta davvero

Intanto ieri (8 settembre 2008) un buco nero fin troppo reale inghiottiva le illusioni di chi (non io!) si era illuso che i fascisti dopo la purificazione di Fiuggi non fossero più fascisti.

Non dico la mia, troppo schifato (mio nonno, come molti altri ufficiali del regio esercito, finì in campo di concentramento in Germania per aver saputo interpretare con rigore il giuramento di fedeltà allo Stato italiano – 600.000 militari italiani fecero quella scelta, raccontata in un bel libro di Alessandro Natta, L’altra resistenza).

Mi limito a riprendere qualche intervento da il manifesto di oggi (9 settembre 2008).

PERCHÉ STUPIRSI?

Marco Revelli

C’è una qualche ragione di stupore nel fatto che alla celebrazione della difesa di Roma l’8 settembre – l’8 settembre!, nel giorno in cui quelli come lui, i nostalgici della Patria Littoria e, insieme, i ministri della difesa, dovrebbero, per decenza, chiudersi in silenziosa meditazione -, il ministro La Russa non abbia trovato di meglio che tessere l’elogio dei combattenti di Salò? Ignazio La Russa è un fascista (può sembrate anacronistico, ma è così). Era fascista trent’anni fa, quando bazzicava piazza San Babila. Ha continuato a essere fascista per tutto il tempo in cui ha ricoperto alte cariche in un partito, il Msi, che aveva nel proprio simbolo il sacello del duce e che ostentava come un onore la discendenza dalla Repubblica sociale. E’ rimasto fascista nonostante la riverniciatura di Fiuggi. E’ fascista culturalmente. Politicamente. Anche antropologicamente, lasciatemelo dire, tanto da sembrare una caricatura del fascista. Lo è allo stesso modo di Alemanno, di Gasparri, di Storace… Quello che ha detto a Porta San Paolo lo aveva già detto, in forma certamente più cruda, prima del ’94, nelle sezioni del suo partito dove troneggiava di solito il testone di Mussolini e pendevano ai muri i gagliardetti della «decima mas». E lo avrà ripetuto chissà quante volte ai raduni reducistici della Divisione Littorio o della «Ettore Muti» (quelli, per intenderci, che rastrellavano con i tedeschi le nostre valli e bruciavano le borgate ribelli). Quello che colpisce e indigna, nei fatti di ieri, è che ora lo dica non più da «uomo di partito», ma da ministro – e non un ministro qualunque -: da Ministro della Difesa, uno che rappresenta il braccio armato della nostra nazione, e che decide della vita e della morte sia dei nostri soldati che di quelli che se li trovano davanti. Quella «lettura» della storia italiana viene dal cuore del potere governativo, dal suo nucleo più duro, e inquietante, perché preposto «all’esercizio della forza». Ma anche questo è un segno dei tempi. Della profonda trasformazione – e degenerazione – del nostro sistema politico. Del mutamento strutturale – di «regime», potremmo dire – dell’assetto istituzionale italiano. Se il fascista La Russa può permettersi di usare, da quel podio, «istituzionalmente», un linguaggio che negli ultimi anni aveva dovuto moderare e mascherare, se può dire quello che pensava e che pensa, è perché avverte che se lo può permettere. Che si sono abbassate le difese immunitarie del paese rispetto a quella retorica e a quelle argomentazioni. Che nel senso comune prevalente, la memoria di quegli eventi è ferita, neutralizzata, in ampia misura azzerata. Sembra che, interpellato, il ministro abbia risposto di aver «detto cose molto meno impegnative di quelle che disse Violante sui ragazzi di Salò, o di quello che ha detto lo stesso Veltroni». E purtroppo colpisce un punto dolente, perché lo strappo di Porta San Paolo avviene su un terreno già preparato da tempo. Si insinua in un vuoto di consapevolezza e di coscienza storica lasciato da chi, per rincorrere mode mediatiche e troppo facili riconoscimenti dall’avversario politico, ha bruciato troppi ponti. Cancellato troppe linee identitarie. Giocato troppo spregiudicatamente con la propria e l’altrui storia. I «regimi» nascono, e soprattutto si manifestano, anche così: non solo con i fatti, ma con le parole. E se dei fatti (e misfatti) di questo governo le vittime sono gli «ultimi», quelli su cui è facile maramaldeggiare (i migranti, i rom, i precari, i senza voce…), delle parole vittima sono i «primi»: i fondatori di questa Repubblica che si appanna e svanisce. Quelli che l’8 settembre, in solitudine, nel naufragio della patria, scelsero. Un’Altra Italia, da allora non certo maggioritaria, ma autorevole, capace di voce e di memoria. Ostacolo e limite a ogni tentativo di ritorno. E’ quella la vittima sacrificale di Porta San Paolo. Il segno che, sessantacinque anni dopo, Roma è caduta. Lo misureremo nei prossimi giorni, dall’intensità della risposta, quanto profonda sia la caduta. Ma se quelle parole dovessero «passare». Se venissero archiviate come cronaca nel gossip dominante. Se la pur dignitosa e autorevole replica del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dovesse restare la sola, e non si materializzasse – di contro – una ferma, diffusa, condivisa e forte risposta, allora dovremmo concludere che il cerchio si chiude. E l’autobiografia della nazione si ripropone, nel suo eterno ritornare.

***

Vuoto di storia, vuoto di idee

Ida Dominijanni

«Ipnotizzato da Berlusconi, dal berlusconismo e soprattutto dall antiberlusconismo, il centrosinistra italiano non sembra rendersi conto non dico dell’entità della sconfitta subìta, ma del carattere periodizzante delle elezioni di aprile e delle radicali novità di storia politica che esse comportano». E l’incipit di un articolo di Biagio De Giovanni – filosofo, ex intellettuale di punta del Pci, svoltista convinto nell’89, poi parlamentare europeo – pubblicato sul “Riformista” di venerdì scorso, che mi pare importante rilanciare per la doppia rilevanza che assegna – finalmente – alla dimensione storica nell’analisi della débacle politica e culturale della sinistra. Doppia rilevanza, perché secondo De Giovanni la sconfitta di aprile non solo segna una cesura nella storia della Repubblica, ma è maturata, e rischia di diventare definitiva, proprio sul terreno della lettura della storia repubblicana: è qui che si sta giocando la partita dell egemonia culturale fra centrodestra e centrosinistra ed è qui che il centrosinistra la sta rovinosamente perdendo. […]
Su che cosa si esercita la costruzione di questa nuova legittimazione, ovvero di questo affondo del centrodestra sul piano dell’egemonia culturale? Secondo De Giovanni in primo luogo su quattro questioni cardinali: la rotazione dell’interpretazione del dualismo italiano dalla prospettiva della questione meridionale a quella della questione settentrionale; l’offensiva del revisionismo storico sulla Resistenza e sulla Costituzione (ultima puntata ieri); la visione «tremontiana» della globalizzazione cui non c’è replica da sinistra; l’abbattimento della forza e della stessa ragion d’essere del sindacato.
[…]
Su che cosa, se non su un filo di senso condiviso della storia, possono darsi sia continuità sia discontinuità generazionale? Se quel filo non si comincia a ritessere, né un Blair né un Obama verranno dal nulla.

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Lezioni di storia

Alberto Piccinini

«Dovreste ringraziare Fini per aver definito il fascismo il male assoluto, perché adesso siamo liberi di dire a alta voce tutte le altre cose buone che è stato il fascismo» (Ignazio La Russa, novembre 2003)
«Se guardiamo a Somalia, Etiopia e Libia, a come sono ridotte adesso e a com’erano prima con l’Italia, credo che questa pagina della storia sarà riscritta e ci sarà una rivalutazione del ruolo dell’Italia» (Gianfranco Fini, ottobre 2006)
«Il fascismo non è la parentesi oscura della storia, come disse Croce sbagliando» (Maurizio Gasparri, 2002)
«L’Italia fascista non ebbe mai responsabilità sullo sterminio degli ebrei» (Domenico Gramazio, 2005)
«Nessuna coalizione ci potrà mai chiedere di andare in un’agenzia di viaggi, fare un biglietto per Gerusalemme per andare a maledire il fascismo» (Francesco Storace, novembre 2007)
«Ora non è che per far contenti Rutelli e D’Alema ci metteremo pure a riallagare le paludi pontine e a portare la malaria a Latina, a mandare al rogo l’enciclopedia italiana» (Maurizio Gasparri, novembre 2003)
«Meglio fascisti che froci» (Alessandra Mussolini a Vladimir Luxuria, 2006).

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Domani?

Una vecchia storiella racconta della rilevazione condotta a un congresso di sessuologia sulla frequenza dei rapporti dei delegati. Un solo delegato ammette di farlo una sola volta all’anno, ma con grande sorpresa di tutti lo afferma con esagerato entusiasmo. E poi spiega: “Ma è domani!”.

Domani potrebbe essere il giorno della fine del mondo se, come teme un professore di chimica di Tübingen, un esperimento condotto al CERN di Ginevra dovesse produrre un buco nero capace di inghiottire il pianeta. Ne è così convinto, il professore, da aver intrapreso una causa presso la Corte europea per violazione della Carta europea dei diritti umani, che garantisce il diritto alla vita (ma se il caso dovesse arrivare in un’aula di tribunale, vorrebbe dire che il professore aveva torto; e se avesse ragione, non ci saranno né aule né tribunali, non in quest’angolo di universo).

Certo, il pensiero che la fine del mondo abbia inizio a Ginevra…

Che fare nell’attesa? continuare con il tranquillo tran tran di ogni giorno, o dedicarsi a 24 ore di sesso droga e rock&roll come facevano alcune sette chiliastiche? Ognuno si regoli come crede…

Qui sotto l’articolo del Guardian comparso sull’edizione dell’8 settembre 2008.

Will the world end on Wednesday?

Jon Henley
The Guardian,
Monday September 8 2008

Purple haze shows dark matter flanking the ‘Bullet Cluster’. Photograph: AP.

Be a bit of a pain if it did, wouldn’t it? And the most frustrating thing is that we won’t know for sure either way until the European laboratory for particle physics (Cern) in Geneva switches on its Large Hadron Collider the day after tomorrow.

If you think it’s unlikely that we will all be sucked into a giant black hole that will swallow the world, as German chemistry professor Otto Rössler of the University of Tübingen posits, and so carry on with your life as normal, only to find out that it’s true, you’ll be a bit miffed, won’t you?

If, on the other hand, you disagree with theoretical physicist Prof Sir Chris Llewellyn Smith of the UK Atomic Energy Agency, who argues that fears of possible global self-ingestion have been exaggerated, and decide to live the next two days as if they were your last, and then nothing whatsoever happens, you’d feel a bit of a fool too.

Rössler apparently thinks it “quite plausible” that the “mini black holes” the Cern atom-smasher creates “will survive and grow exponentially and eat the planet from the inside”. So convinced is he that he has lodged an EU court lawsuit alleging that the project violates the right to life guaranteed under the European Convention of Human Rights.

Prof Llewellyn Smith, however, has assured Radio 4’s Today programme that the LHC – designed to help solve fundamental questions about the structure of matter and, hopefully, arrive at a “theory of everything” – is completely safe and will not be doing anything that has not happened “100,000 times over” in nature since the earth has existed. “The chances of us producing a black hole are minuscule,” he said, “and even if we do, it can’t swallow up the earth.” So, folks, who do you believe?