Metropolitana di Roma, fermata Termini: tutto il resto è noia

Alla fine ieri (11 febbraio 2013) a Roma non è nevicato: nevica a ogni morte di papa, hanno detto i romani con la consueta arguzia, non quando il papa si dimette come un premier qualunque (insomma, più Monti che Montini).

E non è neppure arrivata la temuta gelata. I grigi sacchi di plastica pieni di sale che erano comparsi in alcune postazioni strategiche del centro storico sono altrettanto sollecitamente spariti (sarà intervenuto l’esercito? la protezione civile? gli operatori ecologici? o serviranno a insaporire gli involtini primavera nei ristoranti cinesi della capitale per i prossimi decenni?).

Però è piovuto, a tratti abbondantemente. E quindi, come non ci stancheremo di segnalare, a costo di sfinirvi, si è creata la solita bella pozzanghera nel mezzanino di Termini (di recentissima realizzazione). Ne abbiamo già parlato più volte (qui, qui e qui).

Siamo tornati al secchio rosso, dopo quello blu dell’altra mattina. Adesso aspettiamo il secchio lilla per mettersi al passo (o allo scivolone) con la nuova linea M5 dei rivali milanesi.

Piove sul bagnato

Piove sul bagnato

Lavorare sulle fasce

C’era una volta, tanto tanto tempo fa, l’aristocrazia operaia. Erano lavoratori manuali che con i loro utensili prima, e con le loro macchine utensili dopo, sapevano fare cose straordinarie. Dico con le loro macchine, ma è un modo di dire. Eravamo già in una società capitalistica, e gli strumenti del lavoro, gli utensili, le macchine, non erano loro di proprietà. Erano di proprietà del padrone. Loro le potevano usare durante l’orario di lavoro, e ci facevano cose da virtuosi.

Erano i tempi in cui la manifattura si chiamava così perché la manualità aveva ancora una sua importanza, anche se gli operai lavoravano tutti insieme, in fabbrica, e non ognuno da solo, o pochi in piccoli gruppi, nell’officina.

L’idealtipo di questi operai, per me almeno, è il Tino Faussone di La chiave a stella di Primo Levi, di cui abbiamo parlato qui:

È sui trentacinque anni, alto, secco, quasi calvo, abbronzato, sempre ben rasarto. Ha una faccia seria, poco mobile e poco espressiva. Non è un gran raccontatore: è anzi piuttosto monotono, e tende alla diminuzione e all’ellissi come se temesse di apparire esagerato, ma spesso si lascia trascinare, ed allora esagera senza rendersene conto. Ha un vocabolario ridotto, e si esprime spesso attraverso luoghi comuni che gli sembrano arguti e nuovi; se chi ascolta non sorride, lui li ripete, come se avesse da fare con un tonto. [p. 3]
Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una felicità che non molti conoscono. [p. 81]
È malinconicamente vero che molti lavori non sono amabli, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoto, ma se stesso e il mondo. Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché lavoro stesso non sia una pena, ma l’amore o rispettivamente l’odio per l’opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell’individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge. [p. 81]

Faussone è in cima all’aristocrazia operaia: lavora in proprio e viene chiamato in giro per il mondo per la sua competenza e per la sua abilità. In questo è una rarità, se non un’eccezione.

Di solito, invece, si trattava di operai salariati particolarmente bravi. E questo, anche nel capitalismo selvaggio dell’accumulazione originaria  dei robber barons, della giungla di Upton Sinclair, dava loro un potere contrattuale: potevano andare a lavorare da un’altra parte, con buone probabilità che la loro bravura li rendesse appetibili sul mercato del lavoro. In ogni caso, altri padroni (padroni B, chiamiamoli) potevano fare un’asta per assicurarsi le loro prestazioni portandoli via ai primi padroni (chiamiamoli padroni A). L’unico rimedio a disposizione dei padroni A era quello di alzare artificialmente il costo della transazione, sia per il lavoratore sia per i padroni B.

Nascono così una serie di strumenti: la liquidazione, retribuzione differita che cresce con la durata della permanenza presso lo stesso padrone; la pensione di anzianità, proporzionale anch’essa agli anni passati nella stessa occupazione; e gli scatti di anzianità, progressioni di salario che si realizzano dopo un certo numero di anni trascorsi nella stessa posizione.

Come avrete già capito, gli operai specializzati (e qualificati: non è la stessa cosa) sono disposti su un continuum, che va dal vertice di Tino Faussone al grado zero di Lulù Massa (il protagonista di La classe operaia va in paradiso di Elio Petri), che è un operaio di catena, ma un virtuoso del cottimo, almeno all’inizio del film.

Ecco, dopo arriva il fordismo, e con il fordismo l’operaio-massa. Nella prima metà del XX secolo negli Stati Uniti. Molto dopo da noi. L’aristocrazia operaia viene spazzata via dall’operaio massa. Anche Ludovico Massa, detto Lulù, si risveglia dalla falsa coscienza dello stakanovista per scoprirsi una pedina tra le tante (se volete vedere il film, su YouTube c’è tutto).

Adesso il valore è la flessibilità, la mobilità. Dunque, l’anzianità non andrebbe premiata, ma scoraggiata. E allora, perché gli incentivi alla tenure restano nei contratti, amati dai sindacati come dai datori di lavoro. Per la verità, nel privato i datori di lavoro cominciano a chiederne l’abolizione, come mi raccontava mia moglie. Nella pubblica amministrazione, invece il feticcio dell’anzianità resta, caro al sindacato ma, in realtà, anche all’amministrazione, che ne fa uno strumento di governo un po’ paternalistico.

Me lo sono chiesto qualche tempo fa, quando nell’amministrazione pubblica in cui lavoro ho dovuto dedicare molte ore ai cosiddetti «passaggi di fascia». Trovo curioso che in una situazione in cui il dipendente pubblico di ruolo, che per avere vinto un concorso matura un diritto quasi reale a restare abbarbicato al suo scoglio come una cozza (c’è stata una volta che uno mi ha detto, scherzando ma non proprio: «Io 15 anni fa ho vinto un regolare concorso, e quindi lo stipendio il 26 del mese mi spetta; se volete anche vedermi lavorare, mi dovete dare un incentivo, o almeno una prospettiva di carriera!»), ci si preoccupi di premiare l’anzianità. Eppure, per farla breve, i contratti di lavoro prevedono che oltre ai “livelli” (per passare di livello ci vuole un concorso, anche se non sempre e non necessariamente un concorso “pubblico”, cioè aperto a tutti) ci siano delle “fasce” che si raggiungono per anzianità. Tipicamente, dopo un certo numero di anni passati in un dato livello nella fascia di base si “matura” il diritto di passare alla fascia superiore, che dà diritto a uno scatto retributivo.

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Questa la sostanza della cosa. Ma siamo nel regno dell’apparenza, quello che rende la nostra burocrazia più borbonico-spagnolesca che sabaudo-napoleonica o germanico-calvinista. Quindi non si matura un diritto alla fascia, ma soltanto un requisito oggettivo a poter essere preso in considerazione per il passaggio di fascia. Che viene attribuito sulla base di una relazione scritta dall’interessato, che racconta che cosa ha fatto negli anni trascorsi nella fascia inferiore; poi il suo diretto superiore controfirma la relazione (ne prende visione senza responsabilità sui contenuti? oppure l’assevera nel merito?); e se per caso – ma evidentemente accade quasi sempre – il candidato ha cambiato posizi0ne lui oppure se si sono avvicendati più superiori, le firme aumentano a dismisura.

A questo punto viene formata una commissione interna, che non fa un vero concorso, ma comunque valuta “nel merito” le relazioni presentate. Ma che in ogni caso poi attribuisce il passaggio di fascia, solo che ne esistano i requisiti soggettivi (x anni trascorsi nella fascia inferiore): non si è mai visto che una fascia non venga attribuita. Quand’anche si stesse parlando di un tossicodipendente assenteista conclamato, perché «si creerebbe un precedente», cosa che evidentemente non vogliono né l’amministrazione né il sindacato.

A rendere la situazione ancora più paradossale, le retribuzioni dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni sono congelate dal 24 maggio 2010 e la norma stabilisce chiaramente che gli aumenti che sarebbero dovuti intervenire durante il blocco (la cui fine non sembra imminente) non potranno essere recuperati mai. Quindi tutto l’esercizio che ho appena descritto, che costa tempo e danaro ai lavoratori e all’amministrazione, ha come unico risultato che sul cedolino dello stipendio e sugli altri documenti dell’ufficio del personale il dipendente troverà scritto, ora, terza fascia invece di seconda fascia. Bello, no? Son soddisfazioni. Ma non un centesimo in più.

E non finisce qui. Nel contratto è anche previsto che un’esigua minoranza dei lavoratori (al massimo il 10%, mi pare stabilisca il contratto integrativo), se è trascorsa almeno le metà della durata della permanenze prevista per il passaggio alla fascia successiva, possa accedere a un passaggio anticipato di fascia, con procedure naturalmente un pochino più complesse e time consuming, ma con lo stesso risultato pratico: potersi fregiare di una dicitura cui non corrisponde alcun vantaggio economico, né lavorativo, né di prestigio. Credetemi.

Questo paese non ha speranze.

Alan Bennett – Smut

Bennett, Alan (2010-2011). Smut: Stories. New York: Picador. 2012. ISBN 1846685265. Pagine 214. 7,78 €

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Un lettore onnivoro e impenitente si deve aspettare di tutto dai suoi impulsi. Anche di essere indotto a comprare e a leggere un libro da Facebook. La storia è questa (anche se su FB tutto è ultrapubblico tacerò i nomi): il 27 luglio 2012 un’amica (nell’accezione FB ma, mi auguro, anche in quella più ampia della vita reale) pubblica il seguente “aggiornamento di stato”: «Eh sì. Per me, letturine sporche. Anche.». E sotto questo libro, con il link alla bella copertina adelphiana e il testo del risvolto di copertina:

adelphi.it

Questa volta Alan Bennett svela una inusitata vena piccante: «lo scrittore più amato della Gran Bretagna» – ma non meno amato dai nostri numerosissimi lettori di Nudi e crudi e La sovrana lettrice – ci tuffa infatti in due farse scanzonate e impertinenti. Entriamo così nell’atmosfera briosa di Mrs Donaldson ringiovanisce, dove una rispettabile vedova di mezza età, dedita al mestiere di simulatrice di malattie in una clinica universitaria, si trova inopinatamente nel ruolo di apprendista voyeur; e poi nell’esilarante girandola di amplessi e ricatti incrociati di Mrs Forbes non deve sapere, la sorniona pochade familiare dove finiremo per godere del più grande fra i privilegi – quello di scoprire i segreti per primi. Tutto da ridere? Come sempre con Bennett, non proprio. Il nostro «maestro dell’osservazione» guarda il mondo come uno Swift fattosi malinconico e bonario; e con un’ironia mai livida, spesso affettuosa, irride le inibizioni, i convenzionalismi, le piccole miserie delle persone che si dichiarano normali nella loro vita di ogni giorno. Riuscendo anche questa volta, con la sua maliziosa levità, a insinuarsi nella psiche di tutti.

Nel mio animo alberga, neppur troppo sotterranea per la verità, una componente licenziosa e libertina. Più precisamente porcellina o porcellona, anzi. E quindi mi sono fiondato a comprare il libro su Kindle. Poi sono passati i mesi, altre urgenze, meno carnali e più intellettuali, hanno guidato le mie letture. Fino a quando, qualche giorno fa, l’ho aperto e divorato.

Sgombriamo subito il campo: non siamo di fronte a un romanzo porno, neppure nell’accezione soft delle 50 sfumature di tutto. Meno che mai ai sulfurei bagliori del divino marchese o dell’Histoire d’O. Nemmeno all’ikebana pubico di Lady Chatterley:

With quiet fingers he threaded a few forget-me-not flowers in the fine brown fleece of the mound of Venus.
‘There!’ he said. ‘There’s forget-me-nots in the right place!’
She looked down at the milky odd little flowers among the brown maiden-hair at the lower tip of her body.
‘Doesn’t it look pretty!’ she said.
‘Pretty as life,’ he replied.
And he stuck a pink campion-bud among the hair.
‘There! That’s me where you won’t forget me! That’s Moses in the bull-rushes.’

Siamo piuttosto di fronte a un divertito racconto britannico, pieno di compiaciuto understatement e di piacevolissima lettura. Il primo racconto è decisamente migliore del secondo, anche se è quest’ultimo a contenere le citazioni più memorabili e i dialoghetti più abrasivi. Il risvolto di copertina forse esagera i pregi dell’opera. Ma è il mestiere suo, e la fa molto bene, tanto che ho la tentazione di scrivere che è il brano più riuscito del libro…

Chissà se è poi piaciuto alla mia amica di FB-

* * *

Qualche citazione che, per una volta, dànno un’idea molto precisa dello stile e del tono dell’autore (riferimento come sempre alle posizioni sul Kindle).

She was (or thought herself) a conventional middle-class woman beached on the shores of widowhood after a marriage that had been, she supposed, much like many others…happy to begin with, then satisfactory and finally dull. [140]

‘If you are getting married in church, Graham, the vicar likes you to pretend you believe in God. Everyone knows this is a formality. It’s like the air hostess going through the safety drill. God’s in His heaven and your life jacket’s under the seat.’ [1307]

‘[…] What’s she like? Pretty?’
‘No,’ said Graham honestly. ‘
Big tits?’
‘Not particularly.’
‘Expecting?’
‘No.’
‘So what’re you marrying her for?’ [1352]

One of the functions of women, Mr Forbes had long since decided, was to impart an element of trouble into the otherwise tranquil lives of men. [1503]

There was, too…and this may be harder to understand…there was affection. Monstrous as she was, a tyrant and a snob, Graham’s mother was an ogre of such long-standing that her feelings (though they could often only be guessed at) nevertheless merited respect. Not yet an ancient monument she was a survival and on that score alone her outlook and her armour-plated ignorance merited preservation. [1843]

Metropolitana di Roma, fermata Termini: una nuova puntata

Riassunto delle puntate precedenti:

  • il 10 aprile 2010 iniziano i lavori per il rifacimento della stazione Termini delle linee metropolitane A e B
  • costo previsto 63 milioni di euro
  • grandi disagi per le migliaia di persone che ogni giorno passano dalla stazione: deviazioni, percorsi di guerra, entrate e uscite chiuse
  • i lavori avrebbero dovuto concludersi (dopo vari rinvii) il 31 dicembre 2012
  • non è stato così, i lavori sono ancora in corso, alcune entrate sono ancora chiuse.

Alcune critiche, però, le abbiamo già fatte (qui e qui) e possiamo riassumerle così:

  • il problema dei flussi in entrata e in uscita che si intersecano non è ancora stato risolto, nonostante i buffi «fumettoni» appiccicati a terra
  • il pavimento di pietra liscia color antracite, indubbiamente più bello di quello in gomma, è però decisamente scivoloso (e comunque i «fumettoni» rovinano l’effetto estetico)
  • le contropareti di metallo smaltato bianco, belle e luminose, sottraggono parte del già esiguo spazio dei corridoi e delle banchine.

Soprattutto, continua a pioverci dentro. Esattamente nello stesso punto segnalato a novembre.

Come si rimedia? Nel lungo periodo non lo so, ma non lo sa neanche Metroroma, che in 3 mesi non ha trovato una soluzione. Nel breve periodo, si è fatto ricorso a una tecnologia anni Sessanta. Qualcuno ricorda il Carosello con Gino Bramieri? E mo? Moplen. Un bel secchio di plastica e passa la paura.

Rimetto la stessa foto che avevo messo a novembre – così evito di fare una cosa illecita, che fare foto sarebbe vietato (anche se non capisco perché). L’unica differenza è che oggi il secchio era blu, non più rosso. Il resto tutto uguale. Sempre latitante un avviso che avverta del pericolo di scivolare, come è obbligatorio (penso) nei luoghi pubblici. Qui, come è facile immaginare, passano ogni giorno migliaia di persone.

Piove sul bagnato

Piove sul bagnato

Jeff Noon – Channel SK1N

Noon, Jeff (2012). Channel SK1N. Kindle. 2012. ASIN B008RZD9ZI. Pagine 228. 5,96 €

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Sono un grande lettore e ammiratore di Jeff Noon, di cui negli anni Novanta ho divorato i 4 volumi della tetralogia di Vurt (Vurt, Pollen, Automated Alice, Nymphomation) e, più tardi, il bellissimo Falling Out of Cars di cui ho scritto agli albori di questo blog (qui e qui). Di Jeff Noon ammiravo non soltanto la scrittura personalissima ed elegante, ma anche e soprattutto la capacità di prendere il quotidiano e distorcerlo, facendolo vedere in una luce diversa con l’espediente della torsione, a volte semplice, a volte anche molto complessa. Noon raccontava l’Inghilterra d’oggi (soprattutto, la Manchester d’oggi) e insieme ci faceva vedere quanto essa fosse straniante e aliena.

Poi Jeff Noon è stato silente per 10 anni (Falling Out of Cars è stato pubblicato nel 2002)  e soltanto alla fine dello scorso anno è uscito questo nuovo romanzo: soltanto in edizione e-book.

Naturalmente mi sono precipitato a comprarlo e a leggerlo: cocente delusione.

Jeff Noon non ha certo perso la capacità di scrivere (e di giocare con le parole, una delle sue caratteristiche più notevoli), anche se il romanzo è appesantito da un eccesso di lirismo (alcuni brani sono scritti come poesie in verso libero) e di sperimentalismo (interi capitoletti di segni diacritici e d’interpunzione). Il problema è che il tema del romanzo è – a parer mio – del tutto irrilevante e per nulla originale. Lasciamo parlare le note di copertina:

Welcome to the new interface.
Channel SK1N tells the story of Nola Blue: pop prodigy, the girl every teen wants to be, or be with. She has talent, hit tunes, international fame, everything she could possibly want. But when she begins to pick up TV signals on her skin, Nola is forced on a journey far beyond the boundaries of the mega-stardom she was moulded for.
This is a Frankenstein tale for the X-Factor Generation. Saturated with the same parasitic media that prey on Nola, Channel SK1N broadcasts Noon’s lyrical mastery on a viral frequency.

Vi suona familiare? Non è un caso. Videodrome di David Cronenberg è del 1983! Nel film, al protagonista Max Renn si apre una fessura nello stomaco, dove entrano pistole e videocassette. Trent’anni dopo, le prime immagini di Channel SK1N escono dallo stomaco di Nola Blue: una lunga incubazione, evidentemente.

wikimedia.org/wikipedia

Un’altra vicenda cui Channel SK1N è chiaramente debitore è quella del Pleasure Dome, versione intimistica dell’universo artificiale di The Truman Show di Peter Weir (e qui siamo nel 1998).

wikimedia.org/wikipedia

Qualcuno avverta Jeff Noon che in questi anni la televisione è diventata largamente irrilevante e che nessuno – meno che mai i ggiovani che erano i lettori del Noon della serie di Vurt – guarda più la televisione. Meno che mai i reality alla Grande fratello e, mi sa, neppure i talent show alla X-Factor. Posso sbagliarmi, naturalmente, perché non sono un esperto e non appartengo certo alla X-Factor Generation (ma non so se è un bene o un male), ammesso che esista. Ma mi appello ai miei diritti di lettore per dire chiaramente che il romanzo non mi è piaciuto.

* * *

Che resta allora? Dietro a tutta quest’impoesia (come direbbe Benedetto, vecchio e sordo), dopo avere setacciato tutta la sabbia, resta qualche pepita di poesia? ¡Claro que sí! (riferimento come sempre alle posizioni sul Kindle).

‘Truth is not born from beauty. It’s born from dirt.’ [1072]

[…] her metabolism like an animal living inside, needing to be fed. [1497]

‘We have flooded ourselves with the media in all its many forms. Our minds are now open to signals. We have become aerials.’ [1711: la frase è evidentemente debitrice a quest’altra – «We no longer have rootes, we have aerials» – riportata in epigrafe e tratta da Virtual Geography: Living with Global Media Events di McKenzie Wark]

‘This isn’t an illness. This is a change in the world’s zeitgeist.’ [1716]

And then her body started to respond and to speak softly of its own desires. A child’s voice rose from her skin like a cloud telling a story, a tale of the drifting moon lost at sea and the ship made of beeswax that lugged the moon home again. [1739]

The road itself, filmed from the air and projected on her skin, becoming knowledge.
Body knowledge, skin knowledge. [2011]

She could hear subconscious drift and babble. Images, emotions, thoughts. Lines of dialogue. Crackle-fire of synapse, skull noise. Character, personality, the sound of blood moving through veins. Each member of the audience was monitored and measured. Data flowed across Nola’s skin. So many bags of skin, each one containing bone, hair, veins, muscle, nerves, teeth and nails, eggs, organs, blood, sputum, sperm, mucus, excrement, urine, hormones, brain matter, impulses, hunger, love, greed, hatred, lust, tenderness, desire, the whole chaotic tumult of the psyche seeping out through the borderlines of flesh, and then through the screen. [2190]

Of fog and fragments and jewels she was made. [2417]

‘Are you going to swear?’
George looked at the producer. ‘What? Yes. Obscenities. Of course. Very, very probably.’
Cleo turned to the crew. ‘Okay. I need a five-second delay, with autobleep.’ [2535]

All the couch-bound commentators, home-video terrorists, moonlagged astronauts, cowboy builders, soapstar cocaine sniffers, flagging actors, high-flying superheroes, all the back-pedalling politicians and the femme fatales, every last amateur chef, make-over expert, petrolhead, cultural reviewer, shock-tactic micro-entity, every trailer-trash confessor of barely comprehended perversions, all the pretend-at-life kings and queens of daytime dreams; Nola was all of them brought together, in pieces, in motion,
in dreams. [2802-2804]

Il NYTimes sdogana Gérard de Villiers e SAS Malko Linge

Almeno dai tempi del commediografo latino Terenzio (Homo sum: nihil humani mihi alienum puto) si sa che ognuno di noi ha due poli, come una calamita, e nasconde (per quanto gli riesce e con molte eccezioni) i propri lati oscuri. Il mondo è pieno di buoni predicatori e pessimi razzolatori. I figli d’una mignotta più cinici e privi di scrupoli ingrossano le schiere dei baciapile. Eccetera eccetera. La saga di Star wars lo chiama il lato oscuro della forza (the dark side of the Force).

mondoinformazione.com

Questa premessa non vi tragga in inganno. Non sto per svelarmi tutti i miei lati oscuri. La protezione che mi offre il mio liso nom de plume è troppo esigua, come una mutandina di Belen o di Viviane Castro (qualcuno se ne ricorda?).

haisentito.it

Un lato oscuro, però, lo posso svelare: per anni soprattutto (ma, ahimè, non solo) nei lunghi viaggi in treno (che in era pre-AV erano davvero lunghi, 6-8 ore tra Milano e Roma) ho letto Segretissimo. Ma non tutto quello che la collana offriva, ma quasi esclusivamente le avventure di SAS (Sua Altezza Serenissima) Malko Linge, principe austriaco e agente speciale della CIA. Protagonista dei romanzetti fascisti, razzisti, imperialisti, sessisti, sadici, violenti e francamente pornografici di Gérard de Villiers. Per di più, i romanzi di de Villiers sono esplicitamente seriali; mescolano un ben dosato amalgama di sesso violenza esotismo e attualità politica; sembrano scritti con una cartina e una guida turistica davanti agli occhi; fanno pensare a una squadra di negri che prepara almeno i canovacci (altrimenti, come farebbe l’arzillo ottantenne a pubblicarne 5 all’anno?); e, soprattutto, sono inzeppati di pubblicità latente (Malko beve soltanto quello champagne o quella vodka, scende in quella catena di alberghi, si serve di quell‘arredatore – tutti rigorosamente francesi, manco a dirlo).

nytimes.com

Ecco fatta la confessione. Mi sento sollevato? No, per la verità.

Ma pensavo fosse (fosse stata, per l’esattezza: il combinato disposto dell’Alta velocità e dell’e-book non dà più alibi) una debolezza imperdonabile finché non ho letto il lungo articolo di Robert F. Worth sul Magazine del New York Times del 30 gennaio 2013 che , pur senza nascondere nessuno degli aspetti negativi del personaggio e del suo autore, ne fa un fenomeno di politica estera, se non di letteratira o di costume. Leggere per credere (qui un breve estratto, per l’articolo intero seguite il link).

The Spy Novelist Who Knows Too Much

The book was the latest by Gérard de Villiers, an 83-year-old Frenchman who has been turning out the S.A.S. espionage series at the rate of four or five books a year for nearly 50 years. The books are strange hybrids: top-selling pulp-fiction vehicles that also serve as intelligence drop boxes for spy agencies around the world. De Villiers has spent most of his life cultivating spies and diplomats, who seem to enjoy seeing themselves and their secrets transfigured into pop fiction (with their own names carefully disguised), and his books regularly contain information about terror plots, espionage and wars that has never appeared elsewhere.

Un altro ritrovamento di ambra grigia su una spiaggia inglese

Chi ne sa anche poco di statistica e probabilità (materia ormai introdotta nei programmi di matematica delle scuole secondarie) sa che anche eventi indipendenti e relativamente rari possono presentarsi in modi che contraddicono le nostre aspettative. Restiamo comunque stupiti quando in un lancio di monetine ci viene testa per 5 volte di fila o se due fratelli muoiono entrambi perché, a distanza di anni e di km, un’aquila lascia cadere sulla loro testa una tartaruga.

Quindi, la circostanza che nel giro di 6 mesi ci siano stati su 2 spiagge inglesi 2 ritrovamenti fortuiti di ambra grigia, quando il fenomeno è rarissimo e accade di solito nel Pacifico [come racconta Christopher Kemp nel suo Floating Gold: A Natural (and Unnatural) History of Ambergris, che ho recensito qui, ma di cui avevo parlato anche qui], lascia – se non stupefatti – almeno un po’ pensosi.

Del primo ritrovamento era stato protagonista un bel bambino biondo di 8 anni, Charlie Naysmith, che aveva trovato un pezzo di 6 etti di ambra grigia (valore stimato in 50.000 €) su una spiaggia vicino a Bournemouth, sulla costa meridionale inglese, di fronte all’estrema punta della Normandia. Ne avevamo parlato qui.

Charlie Naysmith / bournemouthecho.co.uk

Più di recente, il 31 gennaio (se ho ricostruito bene) un disoccupato inglese, Ken Wilman, ne ha trovato un pezzo di quasi 3 kg mentre passeggiava con il suo cane su una spiaggia di Morecambe (vicino a Lancaster, Inghilterra nord-occidentale). Si parla di un valore di 100.000 £ (115.000 €), ben superiore a quello del pezzo, più piccolo, trovato da Charlie.

Ken Wilman e il suo cane / huffpost.com

Naturalmente i quotidiani, compreso il prestigioso The Guardian, non si sono sottratti al solito sciocchezzaio sul vomito di balena.

Whale vomit found on beach could be worth £100,000 – video

Per fortuna The Guardian è un giornale serio e non ci ha messo molto a correggersi:

It’s not ‘whale vomit’, it’s ambergris. It’s a nice word, and useful, so let’s use it

 

It’s condescending and banal to reach for simpler, less accurate words for something when perfectly good ones already exist

di Deborah Orr
The Guardian, Saturday 2 February 2013

Ambergris is a beautiful and long-established word for a strange and unusual substance, produced in the digestive system of sperm whales, and eventually excreted through one of only two possible exits. It has been used since ancient times in the manufacture of perfume. So it’s rather a shame that the media now prefers to refer to it as “whale vomit” or, for a bit of variation, “whale poo” – as if the world is a kindergarten. It has been in the news because Ken Wilman found a lump while walking on the beach with his dog. Unlike whale vomit or whale poo, it’s valuable.
So, if you’re of a romantic nature, but for some reason unable to say “amber” or “gris”, you can opt for “floating gold”. And if you’re as condescending and banal as so many journalists appear to be, you can refer to gold as “ground riches”, in case anyone in your audience is three.

E i quotidiani italiani? Il prestigioso Il corriere della sera l’avevamo già beccato, con un articolo scopiazzato del suo “prestigioso corrispondente” Elmar Burchia in occasione del ritrovamento di Charlie Naysmith. Adesso è il turno di La Repubblica del 2 febbraio 2013:

Trova vomito di capodoglio: vale 117mila euro

Ken Wilman e il suo labrador Madge si sono imbattuti, camminando sulla spiaggia del Lankashire [sic!], in una pietra rarissima del valore di circa 100mila sterline (117mila euro). Lì per lì Ken non si è reso conto della fortuna ma tornato a casa, dopo qualche ricerca, è tornato indietro a prenderla. Infatti la pietra preziosa è di vomito di capodoglio, chiamato anche ambra grigia o oro fluttuante, e viene usato per produrre profumi come Chanel No.5, incensi e aromi gastronomici. “Di primo impatto il profumo era fastidioso, ma più la odoravo e più diventava piacevole” ha affermato Ken. Un profumiere francese gli ha già offerto 50mila euro.

Ma la responsabilità prima (ma La Repubblica non va comunque assolta, perché non farebbe male un po’ di fact checking – di cui recentemente tutti si riempiono la bocca più o meno a proposito – e anche un po’ di controllo ortografico, per scrivere Lancashire) va all’agenzia ANSA che la notizia, il 31 gennaio, l’ha battuta così:

Gb: trova raro ‘vomito balena’ in spiaggia,vale 50 mila euro

(ANSA) – LONDRA, 31 GEN – Sembra una roccia giallastra e maleodorante ma in realtà nasconde un tesoro. Un britannico ha trovato in una spiaggia del nord-ovest dell’Inghilterra il cosiddetto ‘vomito di balena’, la rarissima ambra grigia usata in profumeria, e per il reperto gli sono stati offerti 50 mila euro.
Ken Wilman è così finito col suo cane Madge sulle tv e sui giornali del Regno Unito. “Quando l’ho vista mi sono fermato e per curiosità l’ho presa in mano ma dopo aver sentito la puzza l’ho subito rimessa sulla sabbia”, ha spiegato il britannico, descrivendo la sostanza che viene prodotta nell’intestino dei capodogli durante la digestione. Ma poi non ha resistito e l’ha portata via scoprendo che si trattava di un pezzo rarissimo. Ora si è fatto avanti un acquirente francese che la vorrebbe, molto probabilmente per usarla nella preparazione di profumi.(ANSA).

Gli anni sono diventati 70. Ricordare così mi sembra il minimo.

Avatar di borislimpopoSbagliando s'impera

Altro che Candelora. Il 2 febbraio 1943, 65 anni fa, le truppe tedesche si arrendono e finisce, con una decisiva vittoria sovietica, una battaglia decisiva per l’esito della 2° guerra mondiale.

La battaglia si inscrive nell’ambito dell’Operazione Blu (Fall Blau) che, nell’estate del 1942, avrebbe dovuto portare le forze dell’Asse alla conquista dei campi petroliferi del Caspio.

La difesa di Stalingrado fu assegnata da Stalin al maresciallo Yeremenko, al luogotenente generale Chuikov e al commissario politico Nikita Krushchev (sì, proprio lui, quello che poi si tolse la scarpa all’ONU). Gli attacchi iniziali delle forze dell’Asse ebbero successo: raggiunsero il Volga e Stalingrado, massicciamente bombardata, fu percorsa da una tempesta di fuoco. La difesa della città fu sostenuta dai lavoratori delle fabbriche, donne comprese.

L’ordine di Stalin (27 luglio 1942) era “Non un passo indietro!” e prevedeva il tribunale militare per chi avesse ordinato la ritirata. I tedeschi, entrati…

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Abracadabra (e Abraxas)

Ero convinto che abracadabra fosse una parola inventata di recente, magari da un illusionista o dalla gilda dei prestigiatori, come sim-sala-bim o come hocus-pocus: anche se per quest’ultima formula si ipotizza persino una blasfema storpiatura di hoc est (enim) corpus (meum). E invece abracadabra è una parola magica antichissima, ancorché di origine incerta.

Secondo il Vocabolario Treccani:

  1. Parola magica, inintelligibile per sé stessa, quantunque ne sia stata proposta un’etimologia (ebr. habĕrakāh dabĕrāh «pronunciare la benedizione»), di uso frequente nella magia mistica antica. Si soleva scrivere in amuleti, intera nella prima riga, diminuendola poi di una lettera a destra in ciascuna delle successive, e formando così un triangolo con il vertice in basso costituito dalla lettera a: questi amuleti erano ritenuti efficaci contro le malattie (quali la febbre terzana), immaginandosi che, come il nome si riduceva gradatamente, così anche la malattia sarebbe scomparsa.
  2. Come s. m., invar., cosa incomprensibile e confusa, gioco di parole volutamente oscuro: è un vero abracadabra!

mainikka.altervista.org

Qualcosa di più dice l’Enciclopedia Treccani, non tanto nell’edizione corrente online, che ripete in buona sostanza il lemma del Vocabolario:

Parola magica, inintelligibile in sé stessa, pertanto divenuta sinonimo di «cosa incomprensibile e confusa». Si scriveva in amuleti, intera nella prima riga, diminuendola poi di una lettera a destra in ciascuna delle successive, in modo da disegnare un triangolo, avente il vertice in basso, e del quale la lettera a costituiva un lato e ciascuna delle altre una linea parallela a esso, mentre nel lato opposto si leggeva, dall’alto al basso, la parola rovesciata (arbadacarba). Questi amuleti erano ritenuti efficaci contro alcune malattie: si pensava infatti che, come il nome si riduceva gradatamente, così anche la malattia sarebbe scomparsa.

Quanto nell’estratto dalla storica edizione del 1929, che ci propone un collegamento con la parola abraxas e una teoria su chi per primo ne avesse proposto l’uso magico-medicinale:

Una tra le formule a cui gli gnostici attribuivano particolare efficacia (v. abraxas). Nel suo Liber medicinalis (v. 941 segg.) Q. Sereno (Sereno Sammonico?) consiglia di scrivere la parola su una carta, dapprima per intero, poi man mano togliendo una lettera […]. La carta con questa formula legata al collo del paziente, avrebbe servito ad allontanare – miranda potentia! – le malattie letali. Si è confusa con questa parola magica l’altra greca, parimenti inintelligibile, A B Λ A N A Θ A N A Λ B A.

Quanto all’abraxas, anche questa è una parola di cui – pur avendola incontrata qualche volta, se non altro nello storico secondo album (1970) del gruppo di Carlos Santana – ignoravo il significato.

Giusto per la cronaca: Abraxas è anche il diciannovesiomo Book of Angels del progetto Masada di John Zorn (di cui abbiamo parlato più volte: qui, qui, qui e qui):

Torniamo ad abraxas. Niente paura, l’Istituto dell’enciclopedia italiana ci viene in aiuto anche su questo:

Parola magica, inintelligibile in sé stessa, di valore numerico pari a 365, somma dei numeri rappresentati in greco dalle singole lettere che la compongono. Rappresentava i giorni dell’anno solare, e nel sistema gnostico di Basilide, il mondo intermedio (costituito da 365 cieli), mediante il quale l’essere supremo era detto comunicare con quello terrestre. [Enciclopedia online]

ABRAXAS (ἀβράξας, ἀβράσαξ). – Amuleti in forma di gemme con raffigurazione di un essere favoloso con corpo umano, testa di gallo e gambe serpentiformi, identificabile con una divinità gnostica detta A., talora accompagnata da iscrizioni (v. gnostiche, gemme). La parola A. si trova incisa anche accanto a simboli varî di divinità egizie, sincretistiche, ebraiche. Essa ha valore numerico corrispondente a 365; esprime i giorni dell’anno solare e, nel sistema gnostico di Basilide, il “mondo intermedio” mediante il quale l’essere supremo, chiamato appunto A., era detto comunicare con quello terrestre.
Bibl: G. Barzilai, Gli A. studio archeologico, Trieste 1873; A. Dieterich, Abraxas, Studien z. Religionsgesch. d. späteren Altertums, Lipsia 1891. [Enciclopedia dell’arte antica, 1958]

  1. s. m. Nome con cui vengono indicate alcune gemme (dette anche gemme gnostiche), adoperate un tempo come amuleti, in quanto portano incisa, accanto a figurazioni e iscrizioni simboliche, la parola magica abraxas o più spesso abrasax, che nel mondo ellenistico-romano, e specialmente nel sistema gnostico di Basilide (2° sec. d. C.), aveva vario significato simbolico.
  2. s. f. Genere di farfalle della famiglia geometridi (lat. scient. Abraxas: così chiamate per il disegno delle ali e con riferimento alle gemme); una sua specie, Abraxas grossulariata, le cui larve vivono su piante rosacee, pomoidee e prunoidee, è nota perché presenta uno dei primi casi osservati, in genetica, di eredità legata al sesso. [Vocabolario online]

Più garrula della Treccani, Wikipedia propone una sfilza di possibili etimologie (nessuna convincente, se volete il mio parere):

  1. Dall’aramaico Avrah KaDabra che significa Io creerò come parlo.
  2. Dall’ebraico Abreq ad habra con significato di invia la tua folgore fino alla morte.
  3. Ancora dall’ebraico ab (“padre”), ben (“figlio”), e ruach hacadosch (“spirito santo”).
  4. Semplicemente un derivato o una storpiatura di Abraxas.
  5. Il nome di un demone ebraico (unita alla precedente, ne scaturisce l’ipotesi Zorn).
  6. Dall’arabo Abra Kadabra, che significa fa che le cose siano distrutte.
  7. Dall’aramaico abhadda kedhabhra, col significato di sparisci come questa parola.

Wikipedia ci informa anche che Quintus Serenus Sammonicus (l’abbiamo incontrato prima, ricordate?) era il medico di Caracalla e che i suoi insegnamenti furono seguiti anche da Geta e Alessandro Severo. E che Carlo Levi, nel suo libro di maggior successo Cristo si è fermato a Eboli, autobiografico, in qualità di medico riferisce di aver notato spesso il triangolo dell’Abracadabra rivolto verso l’alto e portato come ciondolo in metallo o come foglietto scaramantico dai contadini della Lucania.

Dimenticavo: Avada Kedavra è il più letale degli incantesimi contenuti nella saga di Harry Potter e la stessa Rowling riconosce il debito da abracadabra [During an audience interview at the Edinburgh Book Festival (15 April 2004) Rowling said: “Does anyone know where avada kedavra came from? It is an ancient spell in Aramaic, and it is the original of abracadabra, which means ‘let the thing be destroyed.’ Originally, it was used to cure illness and the ‘thing’ was the illness, but I decided to make it the ‘thing’ as in the person standing in front of me. I take a lot of liberties with things like that. I twist them round and make them mine.”] cui va probabilmente aggiunta l’attrazione per assonanza con il latino cadaver.

Qualcuno su YouTube si è preso la briga di fare la compilation di tutti gli Avada kadavra che compaiono nella saga cinematografica: